Un libro racconta Miuccia Prada apostata dello stile
Di Enrico Maria Albamonte
Miuccia Prada ovvero del paradosso élitario della moda concepito da un’artista pensante, libera e geniale. Se la si dovesse paragonare a un movimento artistico del Novecento, si potrebbe dire che la scaturigine della sua riflessione creativa si situa a metà strada fra modernismo e dadaismo. Modernista lo è senz’altro la ragazza ribelle figlia dell’alta borghesia milanese, perché come Coco Chanel che ha sempre ammirato insieme a Yves Saint Laurent, la fanciulla curiosa e brillante che da giovane militava nel Partito Comunista e frequentava la scuola del Piccolo Teatro, ha sempre puntato a tagliare i ponti con il passato e con l’antico, senza alimentare alcuna facile e retorica operazione nostalgia. E dadaista Miuccia Prada lo è veramente perché ha sempre giocato a decontestualizzare e ricontestualizzare capi, accessori e oggetti del quotidiano assegnando a essi una destinazione nuova, anticonvenzionale e imprevedibile che rompe gli schemi e crea nuove tendenze nel segno di una provocazione radical-chic sullo sfondo di una vibrante tensione fra funzionalità e nitore design. La sua prima sfilata di pret-à-porter femminile a Milano in via Melzi d’Eril risalente al 1988 viene frettolosamente definita ‘minimalista’. Il colore dominante, declinato in silhouette sottili e forma ad ‘A’, spesso abbinato al nero più claustrale, è il marrone che, per usare le parole della stilista, “è il colore meno commerciale che ci sia” e che da quel fatidico momento diventa una cifra stilistica della maison milanese.
Ma anche se all’epoca l’impostazione della moda di Prada poggiava sull’idea della sottrazione, la stilista è allergica alle etichette perché è totalmente anarchica. Nel suo ineffabile sense of humour l’estetica di Prada per citare Maria Vittoria Carloni in ‘Prada-Dizionario della moda’, “rappresenta l’elaborazione colta e concettuale del disordine estetico della nostra epoca ma senza astrazione”. E il contributo fondamentale della maison all’evoluzione della moda e dello stile nella contemporaneità é mirabilmente illustrato nel pregiato volume “Prada le sfilate’ rilegato in tessuto azzurro e edito da Ippocampo che, attraverso i bei testi di Susanna Frankel e oltre 1300 immagini d’archivio ripercorre la parabola stilistica della creativa, considerata come una delle più influenti interpreti della moda odierna con accenti di dissonanza spesso appariscente anche nei look più dimessi e understated. I codici stilistici della maison associata a Elsa Schiaparelli sono assolutamente riconoscibili fin dai primi défilé: gonne a ruota midi a pieghe piatte e a lama di coltello, tweed sommato a chiffon, cashmere e angora, echi seventies, gli spolverini, le giacche a vento da sera, le calze spesse al polpaccio con le scarpe sexy, le borse a mezzaluna da bowling, il nylon di seta usato sia per l’abbigliamento che per gli zainetti iconici contrassegnati dal celebre ma discreto triangolino metallico rovesciato che funge da logo del brand, sandali anche in inverno, pellicce estive, un feeling mitteleuropeo, gli accostamenti cromatici inediti come il rosa e il marrone, il rosso carminio e il verde chartreuse.
Miuccia Prada viene definita una stilista concettuale e intellettuale ma la creativa rifiuta questa classificazione: non è dogmatica né cerca il consenso al pari di Rei Kawakubo di Comme des Garçons e di Martin Margiela guru dell’estetica sovversiva degli avanguardisti belgi. Miuccia Prada segna profondamente l’estetica degli anni’90: la sua collezione primavera-estate 1996 viene definita ‘ugly chic’ e la sua identità si definisce attraverso le stridenti contraddizioni che ne consacrano la popolarità elevando il marchio allo stesso livello di Gucci, all’epoca disegnato da Tom Ford. Dissacrante e autoironica, Miuccia Prada fonde austerità e frivolezza, sartorialità e pauperismo radicale, borghesia e spirito ribelle, tradizione e iconoclastia.
La regina della moda non è la classica stilista che siede al tavolo da disegno producendo schizzi come molti suoi colleghi, preferisce verbalizzare le sue idee, il suo metodo stilistico è intuitivo e ‘impressionista’. Appassionata di musica, cinema, letteratura e poesia, la stilista è anche una colta mecenate e insieme al marito Patrizio Bertelli, cervello economico e manageriale dell’azienda italiana del lusso fondata nel 1913 a Milano da Mario, nonno della stilista e artigiano di bauli e accessori, crea nel 1993 la Fondazione Prada. La civetteria aristocratica e mai banale della donna che sceglie Prada si esplica nella sfilata anni’40 del 2000 e in quella super sexy versione nuova valchiria maliarda un po’ virago del 2002-03, nelle stampe anglofile alla William Morris del 2003-04, nell’algido animalier dell’inverno 2006, in quella immaginifica e visionaria della primavera-esatte 2008 ispirata a Hieronymus Bosch e all’Art Nouveau, nel macramé nero e nella lussuosa guipure dorata dell’inverno 2008, nelle stropicciature ad arte e nel tocco di Mida ellenizzante della primavera-esatte 2009 contraddistinta da zeppe vertiginose e torreggianti, lo spirito etno-chic e messicano della primavera-esatte 2011 che rifà il verso alla grazia piccante di Josephine Baker, l’omaggio a Fassbinder della collezione autunno-inverno 2014-15. Altra riscoperta della stilista è il lamé del 2002 associato a tessuti semplici come il cotone più croccante. Ciò che conta per uno stilista è avere una visione, un’idea in questo caso della femminilità, asciutta e sognante allo stesso tempo, e questa visione Miuccia Prada l’ha sempre avuta, con la sua ottica personale, dignitosa e intelligente. Un bon ton distopico , una prospettiva lungimirante sul futuro che sa antipare mirabilmente anticipare il zeitgeist.