E’ possibile vivere un sogno ogni giorno? Come si manifesta la forza delle
donne? E la moda è utile o solo bella? C’è qualcuno che pensa e che ogni
sei mesi racconta il suo pensiero attraverso degli oggetti apparentemente
futili come i vestiti. Vestiti che in fin dei conti tanto futili non sono visto
che di vestiti, di tessuti e di paillettes come si suol dire, campa tanta gente
in Italia. E non solo in Italia. Oggetti nati per durare e probabilmente
destinati a vivere dopo di noi. Miuccia Prada tutto questo lo sa, e lo
conferma, puntuale, ogni sei mesi quando decide di dire la sua e metterci
la faccia presentando non solo una collezione ma una riflessione profonda,
interessante, che è anche una esegesi autentica della contemporaneità.
Senza artifici, senza inseguire i consensi della massa, ma solo con la forza
del pensiero, il pensiero di una donna creativa, brillante, indipendente
come lei, Miuccia Prada, colta, intelligente, acuta, decisa. Più che una
stilista, una solida certezza per chi crede ancora nonostante tutto che la
moda sia un valore culturale, qualcosa su cui riflettere appunto. Lei,
Miuccia, pratica e lombarda pur essendo cittadina del mondo, si reinventa
ogni sei mesi ma sempre restando fedele a sé stessa, una grande
scommessa questa. Il preambolo, un po’ lungo forse, serve a inquadrare
una collezione che è ancora una volta un esercizio di talento puro, di
bellezza irripetibile, costruita però sull’essenzialità che è espressione chic
della libertà di ogni donna di essere sé stessa, anche quando indulge,
perché no? Alla vanità. E la stigmatizzazione della vanità non ha ragion
d’essere quando sottende come in questo caso un pensiero profondo. Un
pensiero stupendo. Incoronata sacerdotessa dell’ugly chic nel 1996,
Miuccia Prada è in realtà assolutamente curiosa quando si parla dei cliché
della moda, perché una come lei è allergica alla banalità.
E così anche un parola molto trita come ‘glamour’, che poi significa sexy chic, assume significati inaspettati fino a giustificare una intera collezione. Non è un caso che a seguirla con attenzione nel parterre ci siano sempre personaggi interessanti per la loro statura intellettuale e per la loro creatività: Jasmine Trinca, ma anche Gemma Arterton, Alba Rohrwacher, e poi Francesco Vezzoli e colleghi estimatori come Pier Paolo Piccioli, anima creativa di Valentino, lontani però dall’eclatante fulgore dei flash dei paparazzi.
La scultura sistemata da Rem Koolhas al centro della scenografia dello show
raffigura un’allegoria del nostro tempo: Atlante che regge il peso
dell’universo. Una figura mitologica in cui in un momento duro come
questo ognuno di noi può riconoscersi, perché ognuno di noi è chiamato a
sobbarcarsi un macigno sulle spalle, e a lottare per sopravvivere. E ora i
vestiti, anche se in parte il preambolo ha già forse parlato abbastanza della
collezione, perché ha cercato di cogliere lo spirito della sua artefice.
Nell’età della resilienza il Prada pensiero postula un nuovo modernismo
post-industriale, l’evoluzione 4.0 di una concezione neo bahausiana della
realtà che riesce ancora una volta a conciliare estetica e funzione, in
memoria di quel famigerato 1929 in cui davanti al tracollo della borsa e
della società intera la copertina di Vogue America realizzata da Edward
Steichen evocava uno chic senza orpelli che apriva un varco nell’oscurità,
una superiore consapevolezza estetica ma anche etica, perché è grazie alla
percezione della realtà filtrata da una opportuna e salvifica bellezza che
potremo finalmente uscirne se non trionfanti almeno più saggi, e non è
poco. Gli abiti appunto: le frange danzanti da flapper digitale in seta o
cristalli neri che diventano gonne e si muovono con il corpo, quindi il
dinamismo elegante della donna di Muncaksi anni’30, che si concilia con
il power dressing anni’80 stile Sean Young in ‘Blade Runner’ o Diane
Keaton in ‘Baby Boom’. E quindi spalle ampie e marcate, vita segnata da
alte cinture (sempre) e baschina leggermente pronunciata, perché i fianchi
generosi sono simbolo di femminilità e di fecondità. Il catwalk si snoda fra
sottili coat e tuniche verticali, montoni spalmati senza maniche e shearling
con alamari, blazer in piuma d’oca, lineari pigiami di seta decorati da print
stile liberty.
La collezione è qui: fra trasparenze e ricami, volumi over ma calibrati e decori Art & Craft rischiarati da bagliori metallici, gonne a
pieghe che diventano nastri decorati da cristalli, pantaloni di organza e
surreali accostamenti di colore, lampi di luce per fendere il buio di una
crisi epocale grigio asfalto che accendono l’inverno sempre troppo lungo,
e aiutano a vedere la luce. “Volevo glamourizzare il quotidiano perché
intendevo comunicare un messaggio di ottimismo: il glamour può essere
utile ed è difficile rendere intelligente la frivolezza-spiega la stilista-anche
nella frivolezza risiede la forza delle donne”. Il glamour descritto
magistralmente nel volume ‘Glamour: a history’ di Stephen Gundle,
trionfa anche nella sensualissima colonna sonora in stile ‘Last days of
disco’: acuti di emozioni musicali fra Donna Summer e Blondie, Giorgio
Moroder e le sonorità pop di un mondo purtroppo lontano. Le ragazze però
hanno ancora voglia di divertirsi nonostante tutto. Perché la moda è fatta
anzitutto per giocare. Loro, le donne, pur umiliate e offese da un
machismo scellerato che non accenna a scemare, sanno giocare e marciare
a testa alta anche con gli accessori, indovinati, desiderabili, moderni:
sandali di vernice nera, rosa o silver con tacco importante e sinuoso, gli
stivali imbottiti di pelo genere galosce in gomma con carrarmato sulla
suola, le sneaker leggere, le stringate a fiori, i cerchietti come diademi, le
calze in tinte flashy, le cravatte, ornamento sexy in una donna di oggi, le
shoulder bag in nylon iconico come riedizione del borsello ma al
femminile, borse macro ad astuccio, sottili dalla foggia aerodinamica e
vintage memori di una borsa cara alla mamma, bracciali ornati da rossetti e portacipria, totem del desiderio femminile. Vanità? Sì grazie, ma sempre e
comunque combinata con un concetto.