Vissi d’arte, dalla Tosca di Puccini allo zeitgeist del terzo millennio. Un mondo boho chic che gli uomini sanno rivivere, almeno nel limbo aulico della moda, in un’ottica virile ma morbida, nel nome di una mascolinità che non teme il suo coté femminile. Non a caso sulle passerelle per l’autunno-inverno 2020-21 proliferano i rimandi a una sensibilità artistica autentica, che dilaga fra i musicisti e i pittori, fra gli scrittori e gli architetti, corteggiati dai sarti, dagli stilisti e dai direttori creativi, assurti a nuove star del web. Sulle passerelle esplode una grande voglia di tenerezza che scorre come un fiume in piena alla ricerca di una nuova idea di virilità, fluida, accogliente, ibrida e sensuale. Si afferma da Parigi a Milano un certo senso degli uomini per i decori tipicamente femminili dal gusto squisito e aristocratico e si diffonde un desiderio di rivendicare una primigenia coquetterie come era in voga nel settecento fra i cortigiani di Luigi XV o fra i dandy inglesi dell’epoca vittoriana, prima e durante la ‘grande rinuncia’ teorizzata da Flugel.
Nell’epoca del metoo l’uomo rinasce dalle ceneri del paradigma di una obsoleta mascolinità patriarcale e si scopre più gentile, più duttile, per smorzare i toni nel nome dell’inclusione e della contaminazione multietnica. In omaggio alla rimonta del ‘New man’ torna il soft suit codificato negli anni’80 da Giorgio Armani e Gianni Versace, i dioscuri dell’eleganza maschile di ieri, oggi e domani. Superato lo streetwear puro e duro delle precedenti stagioni, oggi le proporzioni sono riviste e si fanno imprevedibili, i volumi diventano più generosi, i cappotti si alleggeriscono così come le giacche, sempre più destrutturate, morbide come vestaglie o come cardigan secondo la lezione di Giorgio Armani, spesso completate dai gilet che flirtano con il torace levigato da un allenamento mai prevaricatore per una muscolarità tutt’altro che contundente.
E’ il fascino discreto dell’ambiguità, quella che emana dal Buffalo Style di Ray Petri e che trapela dai disegni delle giacche che riproducono i nodi del legno citando le marezzature delle toghe cardinalizie oppure da una rosa di tessuto appuntata su un trench in faille di seta o riprodotta su un coat sartoriale, o ancora da un ricamo di seta o di cristalli che dai pantaloni sale su fino alle spalle come un rivolo prezioso. L’eleganza è una forma di educazione, è nei gesti e nella capacità di discernimento, è scienza e senso artistico della vita, una percezione sottile quasi inconscia, latente perché senza sforzo, fra Leonardo e Francis Bacon, fra Magritte e Bob Dylan. Il dialogo fra i sessi diventa fondamentale per plasmare una società aldilà delle angustie ideologiche di conio sovranista, finalmente aperta dove l’empowerment femminile non è più una minaccia ma semmai un terreno di confronto dialettico.
Cosa vogliono le donne? E gli uomini? Riscoprire la paternità e gli affetti familiari ma anche il contatto con la natura. Sulla scena dello stile si affaccia un glamour bucolico che da Dolce & Gabbana spazia fra furry knitwear in lana e seta e maestosi cappotti a vestaglia in principe di galles con endecasillabi in maglia per nuovi satrapi metropolitani, in un divertissement di intermittenze poetiche dalle ecloghe virgiliane fino ai pastori dannunziani, passando per il ‘cristianesimo campestre’ di Giovanni Pascoli.
Ed è il fanciullino del poeta di ‘Aléxandros’ la materia delle fantasie un po’ idilliache e un po’ dark vagheggiate da Alessandro Michele che da Gucci, divenuto negli ultimi cinque anni il marchio feticcio della generazione gender fluid, si interroga sul nuovo orizzonte della mascolinità, allergica ai diktat fallocratici del macho pater familias, ludica e autoironica, capace di illuminarsi per un fiore, un componimento poetico o un bel quadro come nel film ‘Il cardellino’ tratto dall’omonimo, struggente romanzo di Donna Tartt. Il loden con lo sprone a chevron, il piumino dalla fantasia impressionista come anche il suit celeste stile ‘Piccolo lord’ con i pants alla zuava lasceranno il segno nella revisione del guardaroba maschile. Perché di classico surreale si tratta come sottolineato da Miuccia Prada che reinventa il cappotto attraverso un linguaggio cromatico scanzonato e vibrante dove il colore transita dagli abiti alle borse, ampie, voluminose, eloquentemente agender eppure molto virili, che spesso riprendono i pattern a quadri dei coat sottili, grafici, quasi piatti che piacerebbero forse al giovane Mattia Santori. Surrealismo, in omaggio a Fellini, di cui ricorre quest’anno il centenario, ma anche di Magritte, è la buzzword di Virgil Ablooh, il nuovo guru dell’eleganza maschile che professa una fede incrollabile nel cappotto e nello smart suit ricamato ravvivato da nuvole bianche campite su un fondo azzurro, come nell’ultima sfilata uomo di Louis Vuitton. Qui sprazzi di rosa ciclamino animano cappotti e borse, perché il rosa è ormai un colore asessuato, come abbiamo visto nel bel film con Elio Germano ‘L’uomo senza gravità’.
L’uomo che calca la pedana è un sognatore amante dell’avventura, un grande Gatsby come prevede il dress code sibaritico di Billionaire dedicato ai nuovi pavoni digitali o è un dandy blasonato d’altri tempi, un barone di Charlus redivivo formato 4.0 come nel poetico, sontuoso défilé di Dior Homme dove Kim Johnes reinventa la silhouette maschile attraverso virtuosismi d’atelier e lavorazioni da caveaux come quella della fitta broderie di cristalli che illuminano il cappotto ispirato a un modello d’archivio di Marc Bohan per Dior. L’istinto animale di questo ‘buon selvaggio’ affiora nei coat animalier di N.21 come nei montoni succinti di Ermenegildo Zegna che grazie al geniale Alessandro Sartori acquista una nuova dimensione estetica vincente dove la sensibilità ecologica diventa parte di una riflessione più ampia sulla virilità contemporanea. La vena jazz di Miles Davies si materializza fra gli arazzi in maglia jacquard di Missoni che compone una sinfonia policroma sempre equilibrata dove il colore diventa davvero una poesia dell’anima. E se Giorgio Armani rivisita i begli spolverini simili a pastrani indossati da Michael Paré in ‘Strade di fuoco’ nel 1984 e le giacche sensualmente languide portate da Richard Gere nel 1980 in ‘American gigolò’, Ralph Lauren ripercorre i 25 anni della sua linea maschile più sofisticata che il magnate della moda americana che vestì Robert Redford sul set de ‘Il grande Gatsby’ del 1973, dedica agli amanti di un tailoring che non delude mai, porto sicuro degli uomini dai 20 ai 70 anni, per una vera ‘ageless beauty’ e una regalità evergreen.