Il Kolossal mediterraneo di Dolce&Gabbana
La collezione autunno-inverno 2020-21 di Dolce&Gabbana sancisce molto più energicamente di quelle precedenti l’assolutizzazione del genius loci, nel segno di un insopprimibile ritorno alle radici, un appello appassionato ai codici che hanno definito l’immaginario della inossidabile coppia creativa dove il nero assume una molteplicità di nuances confermandosi come epitome di un nitore glamour ed espressione di un carattere poliedrico e talora contraddittorio funzionale alla celebrazione dell’identità femminile contemporanea dove, in ossequio alle radici estetiche del marchio, il pop diventa concettuale. Ed ecco quindi che i due stilisti riaffermano la validità di un assioma estetico da loro portato avanti con orgoglio per anni con successo: sicilianità, sartorialità, sensualità ovvero le tre S di Dolce&Gabbana, una trinità davvero vincente. A simboleggiare un marchio che nella sua identità è ‘sintesi di opposti’ secondo una definizione rubata al filosofo rinascimentale Niccolò Cusano Mistero e seduzione, ma anche gioia e carnalità, celebrano i cliché dell’iconografia femminile: fra i due poli dicotomici della santa e della peccatrice le sfumature sono molteplici e sottili, per rilanciare un’idea quanto mai autentica di femminilità che è sempre attuale, da Sofia Loren a Malena, da Bagheria a Hollywood, da Anna Magnani a Isabella Rossellini. Che tutte si riassumono nel portamento deciso e nelle vaporose chiome frisé della bella Chiara Scelsi, scelta insieme a Bianca Balti come incarnazione moderna dell’ideale femminile, sensuale e mediterraneo concepito dai due stilisti, la Gilda dell’era digitale.
Il tributo all’artigianalità, che è il fulcro di questa ultima collezione, è coerente con la nostalgia di un classico che è certificazione di solida qualità e di inequivocabile eccellenza in un mondo incerto e precario come quello in cui viviamo. Incede ipnotica e radiosa in passerella una maliarda dolce e assertiva, morbida ma tosta, solida e sognatrice che emerge in tutta la sua carica vitale nelle silhouettes body coscious dove il punto vita è sempre segnato. L’immanentismo ferino e un po’ wilde di certe mise in pizzo, pelle, cashmere, richiama un erotismo gioioso e vitale in bilico fra Ferdinando Scianna e Helmut Newton, dove il desiderio palpita incarnandosi in vibranti mise in rosso e nero, che tradotto coincide con il dualismo freudiano eros-thanatos, volutamente sopra le righe, molto ‘Sangue e arena’.
Il corsetto fotografato da Jean Loup Sieff (uno dei primi fotografi dopo Scianna a immortalare i modelli della maison per una campagna pubblicitaria fra raffinatezza e provocazione) e il pizzo Chantilly che vela la maliziosa scollatura dell’abito nero indossato da Marina Schiano, musa di Lagerfeld e interprete del glamour maledetto di Yves Saint Laurent nella controversa collezione anni’ 40 del 1971: sono queste le icone irrinunciabili di una collezione che è un memento costante di un immaginario vivido e riconoscibile, una recherche di ciò che ci rende unici, perché l’unica panacea alla endemica pornificazione di Internet e dei social network è l’individualità, purchè non degeneri né in solipsismo né in narcisismo patologico, in una parola monomania. Proprio come Franco Moschino negli anni’80, così Dolce&Gabbana negli anni’90 ha glamourizzato il genius loci tricolore, rivendicando la centralità di una linfa creativa indissolubilmente legata alla propria terra, un’istanza identitaria molto forte che in questo momento diventa sempre più fondamentale e pregnante. La manualità, valorizzata dalle mille certosine lavorazioni di abiti fascianti, corsetti prorompenti, body e completi mannish torridamente sensuali, diventa l’antidoto alla massificazione imperante dettata da un miope globalismo e anche una risposta energica a qualcosa che, in nome dello scellerato mantra ‘consumo dunque sono’ sta annientando il pianeta.
L’artigianalità, sommata alla estrema portabilità dei capi, è anche sinonimo del recupero di un’intimità perduta con le cose, i materiali e noi stessi, il nostro lavoro, la nostra creatività e la nostra professionalità: in breve con la bellezza che nella sua eticità pensosa è la sorgente dell’universo e anche il suo balsamo rigenerante. E questo si traduce nella raffinata maglieria crochet e nelle preziose lane bouclé lavorate ai ferri dalle italiche ‘tricoteuse’ che il marchio nutre ed esalta, come anche nei velluti trattati in varie soluzioni, sempre fra l’aristocrazia racé e il rustico chic di siciliana matrice. Senza dimenticare il grande solista della collezione, il pizzo, proposto in mille e una versione e che è la quintessenza della sensualità Made in Dolce&Gabbana, dagli abiti fino alle sontuose e desiderabili borse, declinate in varie dimensioni, veri e propri bestseller del sell out della maison. Il rigore radicale del nero, ieratico ma conturbante, è mitigato anche da un bianco immacolato che evoca il biancore delle porcellane ottocentesche ne ‘Il Gattopardo’ e che trionfa esuberante nelle bluse da moschettiere con colli e dettagli di pizzo che hanno reso famoso il brand fin dal 1988. E anche se il genius loci qui acquista un risalto preponderante, tuttavia appare quasi inevitabile il rimando all’indimenticabile Jeanne Moreau di ‘La sposa in nero’ di Truffaut come alla sensualissima e procace Brigitte Bardot nell’episodio ‘William Wilson’ diretto da Louis Malle per il film del 1968 ‘Tre passi nel delirio’. Il tutto senza dimenticare la burrosa Stefania Sandrelli di ‘Sedotta e abbandonata’ e di ‘Divorzio all’italiana’, la formidabile e sensualissima Monica Vitti in ‘La ragazza con la pistola’ e in parte, per un certo languido e ammiccante erotismo, le piccanti mise da boudoir borghesizzato di Laura Antonelli in ‘Malizia’ di Salvatore Samperi. In omaggio a una carnalità tutt’altro che algida, grafica ma mai stilizzata. E’ anche per questo che passa il ‘neorealismo’ di Dolce & Gabbana, cartina di tornasole e insieme paradigma dell’estetica dei nostri tempi.