Bottega Veneta indica la via del rinnovamento

Valeva la pena aspettare. Daniel Lee ha finalmente svelato quella che non è solo la sua nuova collezione per l’estate 2021 di Bottega Veneta presentata per happy few a Londra a settembre. Ma è soprattutto una nuova direzione che prefigura ciò che sarà la moda del futuro: più sostanza e meno fuffa. Di fuffa e di coriandoli ne abbiamo visti troppi in questi ultimi anni a essere proprio sinceri. Chi scrive non è allergico alle rouche e ai volants né ai ricami o ai lustrini, si badi bene; ma non possiamo certo restare indifferenti a quello che sta avvenendo intorno a noi. E’ ora di voltare pagina mettendo un punto a un passato di ‘wowness’ scriteriata per ridare un senso a quello che facciamo anche quando decidiamo di gratificarci con un abito ben fatto o con un paio di scarpe che ci facciano sentire meglio, più belli, felici, vincenti.

L’unico che è ancora legittimato a fare decorativismo ma in modo nobile, perché sa farlo, è Versace che, si badi, non fa mai fuffa ma qualità estrema. Ben venga l’ironia di Jeremy Scott chez Moschino che ci aiuta a non prenderci mai troppo sul serio, e l’eleganza classy e garbata di Alberta Ferretti. L’unica che ancora manteneva la sua coerenza estrema sulla strada della sostanza finora è stata Miuccia Prada, che sa reinventarsi ogni sei mesi e non ha mai cercato consensi pur ottenendoli sempre. La sua asciuttezza primordiale, ma veramente chic e dadaista, ha indicato sempre la strada a tutti nel pianeta della moda, fin da quando nel lontano 1988 esordì con la sua prima collezione a Palazzo Melzi d’Eril. E ora c’è anche lui, Daniel Lee.

Nelle creazioni di Lee, giovane ma determinato a rinnovare il linguaggio dello stile, c’è il glamour di Gucci all’epoca di Tom Ford ma senza quegli ammiccamenti porno chic alla Newton (contro il quale non abbiamo nulla). E c’è anche un certo minimalismo anni’90 ma senza troppa nostalgia delle foto di Willy Vanderperre per Raf Simons o di Juergen Teller per Céline. Quello di Lee è un nuovo escapismo dai luoghi comuni che ridefinisce l’approccio al lusso, ma non stucchevole, non lezioso, mai scontato . Guardando scorrere sulle note ipnotiche di Neneh Cherry le fascinose silhouette femminili e maschili nate dall’estro di Lee ma anche per certi versi dalla visione del fotografo Tyron Lebone, ci si pone insistentemente la domanda : cos’è il lusso? E’ rispetto della natura, è attenzione alla qualità, è voglia di ritrovare noi stessi nel quotidiano, è resilienza e self confidence, è sviscerare qualcosa di nuovo o almeno provarci. Ma soprattutto è una libido, una sensucht che ci fa sentire vivi, che di questi tempi è davvero tanto. Guai a smettere di desiderare, guai a smettere di sognare. Il lusso resiliente, epurato e tuttavia aristocratico di Lee è la ricetta giusta per affrontare con stile le nuove sfide. E a questo bel giovanotto dagli occhi buoni e con la testa sulle spalle auguriamo sinceramente un grande successo, anche commerciale.

Quel coating sull’abito asimmetrico, quelle arricciature a sipario ma distopiche nel jersey che definiscono le curve femminili che abbiamo sempre amato, quel crochet così lieve da simulare un pizzo, quelle asimmetrie negli scolli degli abiti neri, quella nappa gommosa che crea volumi inusitati, quella meravigliosa combinazione di legno e tricot nell’abito etnico con frange di bambù che volteggiano sull’omero (un piccolo capolavoro di perizia artigianale), quelle trame screziate che sembrano pixel, quell’audace clash cromatico nell’accostamento di rosso e turchese (stupendo, iconico e so nineties), quei disegni tridimensionali sulla maglieria hand made per lui: tutto racconta una voglia di esplorare sentieri decisamente in controtendenza che presto saranno mainstream, garantito. Concettuale sì ma con tanto charme, essenziale sì ma senza pretese, bodyconscious sì ma per nulla strizzato, per una collezione nata nel segno di un’armonia brutalista: sembrerebbe un ossimoro ma non lo é. Le immagini parlano da sole.

Lo stilista ha un feeling con l’artista concettuale tedesca Rosemary Trockel il cui lavoro, legato soprattutto ai dipinti di lana lavorati a maglia ai quali si é ispirato Lee, sfida le tradizionali nozioni di cultura della femminilità e di produzione artistica in una stimolante combinazione di racconti anonimi e collage fotografici. La qualità, l’allure delle creazioni del designer è inequivocabilmente italiana ma anche internazionale al tempo stesso. Daniel Lee ha studiato, e si vede: la lezione del classico c’è, e restituisce dignità perfino al più piccolo dettaglio, ma questo classico lui lo sa rivedere a modo suo, raffinato, accattivante, facile e puro come un sorso d’acqua limpida. E così conia un suo stile che presto sarà riconoscibile, uno ‘chic senza fronzoli’ come avrebbe titolato Vogue America nel 1929. Lungi dall’essere archeologia, anche se i riferimenti dotti non mancano, la sua moda è moderna con la ‘m’ maiuscola. Le sue scarpe cantano, i colori urlano, ma le linee controllano, moderano il tutto come si addice a una sinfonia ben orchestrata. I tailleur delle prime uscite sono notevoli e saggi ma senza sussiego, accarezzano le forme senza stravolgerle, con morbidezza, con classe. La princesse immacolata ma stilizzata è uno statement sulla femminilità, le zip e le arricciature sul punto vita ingentiliscono la funzionalità del quotidiano.

E poi il menswear: certi pantaloni palazzo a vita alta molto confortevoli, talora sormontati da una débardeur iridescente, ci ridanno una boccata di ossigeno dopo quasi cinque anni di linee strizzate o slim-fit che dir si voglia e antiestetici pantaloni seconda pelle effetto varicocele di una volgarità allucinante. Le felpe e le maglie invece qui si allargano generosamente sull’ombelico con un effetto cropped che piace e convince. Le tute over hanno l’allacciatura diagonale e ricordano le linee di Thayatt e il suo workwear futurista. I golfini estivi osano texture ingigantite con il sapore del tricottato a mano ma in 3D. Le camicie di popeline sembrano tracciare una V, la V di Bottega Veneta.

E poi gli accessori: chi non vorrebbe quella borsa gigantesca a forma di triangolo che sembra una scultura Inca? Chi non aspirerebbe a quelle platform issate su una sorta di gabbia di vimini? Chi potrà resistere a quelle belt bag anche maschili che reinventano il marsupio? Chi non ruberebbe, se non fosse un reato, quegli occhiali da sole a mascherina con montatura bianca o quella borsa morbidissima a trapezio molto fluffy con i pratici manici di legno che sembra un abbraccio? E l’abito fantasia alla caviglia coordinato alla borsetta nello stesso print? Tentazioni. Emozioni. E non è questo forse l’essenza della moda?