Ho detto a mia nonna che io non mi sposo con l’abito bianco:
– “E come ti sposi allora?”.
– “Non mi sposo “.
– “Ma che schifo di mondo è mai questooo? E dove andremo a finireee? E il corredo che cosa l’ho comprato a fareee?”.
Ebbene, questa è stata la conversazione avuta con “grandmother” qualche tempo fa. Effettivamente, io non penso al matrimonio nella maniera tradizionalmente concepita, non aspiro a percorrere la navata abbigliata da meringa, non riesco neppure ad immaginare il giorno in cui qualcuno mi chiederà, inginocchiandosi con BRILLANTE alla mano, di sposarlo, per trascorrere insieme il resto dei nostri giorni. Insomma, non so nemmeno se riuscirò a portare avanti fino alla settimana prossima la dieta appena cominciata! Sono sicura che fuggirei come Maggie aka Julia Roberts in RUNAWAYBRIDE, per lasciare il malcapitato all’altare. Dai, non è bello.
Ad ogni modo, nonna era seriamente turbata, la sua drammaticità mi ha fatto buttare giù il telefono che avevo ormai le palpitazioni. E allora ho respirato a pieni polmoni, mi sono tuffata sul letto fissando il soffitto e ho cominciato a fantasticare: “Chiara, sforzati di pensarti IN BIANCO!”.
Lady Diana buonanima indossò un abito in taffettà di seta color avorio e pizzi antichi, con uno strascico di 7,62 metri (dettaglio da non ignorare), valutato all’epoca per circa 9 mila euro. Presentava decorazioni con ricami fatti a mano, paillettes e nientepopodimeno che diecimila perle. Semplice, insomma. E siccome la coppia regale si presentò dinanzi al prete nel 1981, i designer, David ed Elizabeth Emanuel non poterono esimersi dall’aggiungere maniche a sbuffo e gonna balloon. L’abito passò alla storia, Diana era bellissima, ma quello scemo di Carlo si era già infiammato per Camilla e tutti quei metri non trattennero la principessa triste a corte…Il resto lo conosciamo e l’abito lo scartiamo.
Quindi mi è venuto in mente un altro sposalizio celebre, quello di Jacqueline Lee Bouvier con il futuro Presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy. Correva l’anno ’53, i due erano giovani, belli e aristocratici, tutti ne parlavano, tutti ne avrebbero straparlato! Jacqueline doveva essere stratosferica, confermando la sua eleganza:Ann Lowe, stilista afro-americana, già in voga ai tempi nell’aristocrazia di New York, realizzò per lei un vestito in taffetà di seta color avorio, con un’ampia gonna e il corpetto drappeggiato con scollo a cuore. Particolarità della gonna furono le applicazioni di stoffa a formare ampi fiori concentrici e piccoli petali in cera nella parte inferiore. A completare il vestito, il velo in tulle fissato ai capelli con boccioli d’arancio. Sublime. Poi Marilyn Monroe si mise a cantare Happy Birthday Mr. President e le fuitine non si contarono più su una mano sola. E Jacqueline comprese che la classe nontrattiene un fedifrago!
Non mi rimane che ispirarmi a quella donna anticonformista che fu Wallis Simpson. Nel 1934 era l’amante di Edoardo di Windsor, principe di Galles ed erede al trono britannico. Aveva un divorzio alle spalle e uno in corso. E non le scorreva sangue blu. Edoardo divenne re e poi abdicò per sposarla. Che moderno! Il giorno delle loro nozze Wallis si mise sù un abito pensato per lei da Mainbocher, in un color carta da zucchero inventato appositamente dallo stilista come omaggio ai suoi occhi (e infatti fu rinominato Wallis Blue). Le arrivava fino ai piedi, con maniche lunghe, un drappeggio davanti e una fila di bottoni sul il busto. Contemporaneo, raffinato, perfetto. Duca e Duchessa, so glamourous, condussero una vita mondana, furono immortalati sui giornali, non badarono a spese per godersela molto.
Voglio quel vestito e quel marito. E corro a dirlo a mia nonna!
E siamo giunti alla seconda parte del mio racconto sulle acconciature, il make-up e i look dello scorso ventesimo secolo. Vi avevo lasciati promettendovi di informarvi sui miei boccoli… ebbene, i riccioli saranno durati al massimo mezz’ora, poi si sono ammosciati, come il mio entusiasmo!
Ma bando alle ciance! Volete sapere com’erano le donne negli anni ’50? Finte, naturalmente! Ombretto verde ghiaccio, matita per occhi verde muschio e rimmel color rame era un esempio di trucco prediletto; e ancora, ombretti azzurri, argentati, matite blu o viola, labbra arancioni. Pareva che le signore si fossero lanciate a tutta birra nella valigetta dei cosmetici. Peraltro, questi ultimi non garantivano ancora un risultato “naturale”, con la conseguenza che i loro visi più che acconciati sembravano mascherati. Ma all’epoca tutto questo era percepito come il massimo della meraviglia, il loro aspetto era artificiale e le donne comunicavano un solo messaggio certo non detto, ma chiarissimo: “non mi toccare”. I mariti ignoravano come fossero le loro donne realmente e andava bene così. E se il trucco cambiava a ogni occasione, stessa cosa accadeva per i capelli, i parrucchieri divennero i migliori amici delle donne, e questi cotonavano le chiome delle clienti con così tanta lacca che sul finire degli anni ’50 queste ultime avevano in testa dei nidi di rondine modello Zia Ietta. Completavano il tutto collane di perle, gioielli vistosi, cappellini-decoro ad ornare i corpi generosi delle borghesi del tempo, perché tutto in quegli anni doveva essere prospero.
Negli anni Sessanta le cose si evolsero incredibilmente, e menomale (si sarà capito che non amo particolarmente i ’50). Intanto, il modello imperante non fu più quello della donnaformosa, che anzi lasciò il posto ad una fanciulla dal corpo gracile e infantile, come quello della giovanissima Twiggy, la “dolly bird” inglese che tra braccia, fondoschiena e gambe sarà pesata al massimo 45 chili (tipo mia madre a 20 anni, le odio!). Il make-up osservava come punto focale lo sguardo, per cui gli occhi venivano truccati con tanta matita e il mascara passato un numero di volte tale da ottenere l’effetto “cerbiatta”. I capelli, alla “paggio”, ricordavano le pettinature dei Beatles (non a caso, a Londra, Mary Quant, l’inventrice della minigonna, si fece tagliare i capelli da Vidal Sassoon, il quale ideò per lei il bob a cinque punte, da quel momento in poi i-m-i-t-a-t-i-s-s-i-m-o).
Ma sul finire degli anni ’60 si impose via via il movimento hippy e con esso uno stile di vita votato alla natura. Uomini e donne cominciarono a vestirsi in maniera semplice, riciclando abiti dismessi e usando stoffe naturali e trucco e capelli si semplificarono molto: chiome lunghe e sciolte per uomini e donne. Insomma, se durante i primi ’60 ragazzi e ragazze portavano capelli corti, tagliati e pettinati allo stesso modo, ora accadeva lo stesso, ma nella direzione del look selvaggio e UNISEX.
Giungiamo agli anni ’70 e posso finalmente affermare che con loro moda ed estetica si complicarono al punto che il bello non fu più univoco, e non fu più condiviso unanimemente dalla società. La prima metà del decennio fu dominata da quella voglia di naturalezza con cui si era chiuso il precedente; tuttavia la semplicità non avrebbe comportato una mancanza di cura, al contrario, tutto sarebbe stato perfetto. I capelli sempre puliti e lucenti, con eleganti scalature e mèches (tecnica creata con lo scopo di dare l’effetto “corro sul bagnasciuga e il sole mi schiarisce i capelli”); la pelle A-A-BBRONZATISSIMA, (grazie alle vacanze al mare o ad un ottimo autoabbronzante); il corpo tonico, snello, sano (grazie al jogging, all’aerobica e ad una alimentazione rigorosa).
Ma la sera, oh, la sera dimenticate pure tutta questa essenzialità, e immaginate lustrini, paillettes, trucchi pazzi, boa e abitini in lycra e lattex: questa era la mise tipo da STUDIO 54!
E naturalmente non tardò neppure a sopraggiungere qualcuno che dissacrasse tutto questo: benvenuti miei cari PUNK! Donne e uomini con molto lattice addosso e t-shirt strappate, ma anche tanto nudi e con innumerevoli anelli e spille alle orecchie e al naso e creste fluo e poi borchie e scritte pornografiche e infine trucchi nerissimi, si aggiravano per le città con lo scopo di SCANDALIZZARE (la mia adorata Vivienne Westwood, dalla sua boutique Sex a Londra, dettava legge).
Donne che imposero la loro presenza nella società, che lavoravano e ottenevano successi professionali, che fecerosentire la loro voce spodestando gradualmente gli uomini di potere, come avrebbero mai potuto farlo senza delle belle spalle imbottite e dei tailleur-powerbusiness che sembrava volessero esclamare: “levati di mezzo, bello, o ti do un colpo di spallina!”. Negli ani ’80, il culto per il corpo non tramontò, anzi, si evolse in una vera e propria febbre del fitness, ma le donne tornarono ad essere prosperose e non rachitiche come in passato. Chi non godeva di un seno naturalmente florido, ricorreva alla chirurgia, strumento che non venne disdegnato neppure per i ritocchini al viso (che proprio in questo periodo cominciarono a divenire di uso comune). Insomma, fra chirurgia estetica e prodotti anti-aging, il trucco non servì più a correggere ma a esaltare: cosmetici naturali, make-up trasparente e/o, quando le tasche lo consentivano, permanente.
I capelli o venivano asciugati naturalmente o, al contrario, finivano sotto i caschi dei parrucchieri per uscirne cotonati che manco Ivana Trump e, cosa terribile, con frange molto gonfie (la chioma con l’effetto frisé e la frangia liscia era un altro must e questo vi sconsiglierei di riproporlo, ecco!)
Bene, amichette, siamo giunte alla conclusione di questo percorso a spasso fra bigodini, creme “forever-young” e boccoli fluenti. Avete deciso cosa sarete a Capodanno? Io ho optato per un abito rosso fuoco, dalle spalline larghe come gli anni’80 esigevano, mi farò fare delle onde che esalteranno le punte più chiare come gli anni’70 imponevano e stenderò un sacco di rimmel come gli anni ’60 ordinavano. Il risultato sarà o una contaminazione pazzesca o un esilarante delirio! Staremo a vedere!
Sono sicurissima che molte di voi saranno andate dal parrucchiere ieri, o dall’estetista, o da Sephora, per ravvivare il colore ai capelli o per darci un taglio netto (non solo alla chioma, ma pure all’anno che sta per terminare), per sistemare le sopracciglia incolte, per acquistare un rossetto rosso da baci appassionati. Non lo avete ancora fatto? Brave! Approfitterete della mia cronistoria a spasso fra le acconciature e i look dell’ultimo secolo e deciderete così se essere, per il prossimo party di Capodanno, una vaporosa e truccatissima donna eighties style o una moderna Jean Harlow platinata! Questa prima parte è dedicata al periodo che va dal 1900 agli anni ’40 (la prossima settimana saprete il resto, quindi leggete attentamente e attendete ansiosamente!).
Dunque, tanto per cominciare, apprendo che durante il primo decennio del 1900 le donne della buona borghesia portavano anelli ai capezzoli (per procurarsi un effetto eccitante da sfregamento, che distraeva il corpo soffocato nel busto da tutte le sue pene). Mi direte che non c’entra nulla con i trucchi e belletti… esatto, è una curiosità che vi ho fornito e che molto stride con l’aspetto di quel decennio: le fanciulle da marito insieme alla pelle diafana, con annesse venuzze violacee accentuate dal trucco, il vitino, e il profumo alla lavanda, portavano capelli ondulati, morbidamente raccolti, con aggiunta di toupet, se necessario: la parola d’ordine era INNOCENZA!
Poi venne la guerra e i mariti al fronte dovevano essere assolutamente certi che le loro donne avessero un comportamento retto e ineccepibile, che non si curassero delle inutili civetterie, che apparissero pulite e compite. Fortunatamente la guerra volse al termine e sul finire del 1920 la donna da virtuosa divenne pericolosa e ambigua. Accorciò i capelli, per portarli alla maschietta, mise del kajalintorno agli occhi, truccò di rosso intenso la bocca, “esotizzò” il suo aspetto, per divenire una femme fatale dal gusto orientale.
E giungiamo ai gloriosi anni ’20, siore e siori, e questo periodo è tra i miei più amati! Ormai i capelli alla maschietta erano un must, e nonostante gli uomini non condividessero, le signore imponevano il nuovo taglio burlandosi di loro con candide bugie (“caro, ho bruciato i capelli con la lampada a olio!”). E poi occhi bistrati, viso molto truccato, cipria in gran quantità, fard tamponato anche in pubblico: atteggiamento sconveniente, ma irresistibilmente chic! E poi lui, il rimmel (resistente all’acqua, peraltro). Fu creato nel 1921 da Elizabeth Arden, la professionista della bellezza (nonostante Helena Rubinstein ne rivendicasse l’invenzione), che volle tutte con ciglia lunghissime per sguardi ammaliatori. E infine, Coco Chanel, colei che inventò il tubino nero, introdusse l’uso del jersey e dei pantaloni, amava i gioielli purché fossero tassativamente finti, ebbene ruppe con il passato ancora una volta, quando dimostrò che “abbronzata è bello”! Se ne andava al mare a Biarritz e si faceva baciare dal sole: solo i poveri non potevano permetterselo, per cui avere la pelle colorata divenne cool nonché UPPER CLASS!
Gli anni ’30 si potrebbe sintetizzare con questa frase: “La bellezza non è un dono, è abitudine”. Ad affermarla fu Germane Monteil, che nel 1935 fondò la sua casa cosmetica e convertì le sue clienti alla filosofia del “benessere”: il trucco non era sufficiente, da solo, a fornire un bell’aspetto, bisognava applicare sul viso creme da giorno e da notte, seguire un’alimentazione sana, praticare sport. Più in generale, in questo periodo, la donna doveva essere magra ma non efebica, femminile pur non impiegando strati di trucco (come si era usato precedentemente), abbronzata, naturale, curata. I capelli si allungarono almeno fino al mento, morbide onde incorniciano il viso. Le donne comuni guardavano alle dive del cinema, al loro incarnato perfetto, alle loro sopracciglia dall’arcata minuziosamente disegnata, ai loro soffici capelli biondissimi.
Bene, siamo arrivati ai ’40 e io sono felice di annunciarvi che ormai il trucco è per le donne come il tabacco per gli uomini: INDISPENSABILE. C’è una guerra in corso? E allora, che le fanciulle tutte siano piacevoli, curate, dall’aspetto accogliente e femminile. E attenzione, non è più il caso di apparire provocanti e frivole, gli uomini esigono per le loro fidanzate e mogli un’immagine matura e sensuale, in altre parole rassicurante.
Naturalmente non era facile reperire cosmetici in Europa, a differenza che in America, dove Elizabeth Arden ideò per le donne lavoratrici la BUSY WOMAN’S BEAUTY BOX, dove ci trovavi la cipria, il rossetto, lo specchietto, la crema detergente, insomma tutti quei prodotti con cui potevi “restaurarti” in ogni situazione. Le europee dovettero accontentarsi del lucido per stivali che usarono come rimmel o della crema da scarpe per colorare le sopracciglia. Scaltre queste ragazze!
E le chiome, in mancanza di un parrucchiere che non sempre ci si poteva permettere, venivano raccolte in quello che fu battezzato come “elmo”: i capelli erano portati tutti sù ed elegantemente fasciati attorno al capo. Una sorta di moderno grande “cocco”. In alternativa, si ricorreva allo chignon, nodo attorcigliato sulla nuca inventato dal parrucchiere Guillaume nel 1944 per Balenciaga (lo li porto spesso così, mi fanno sentire una ballerina metropolitana!). Altrimenti si ricorreva al turbante, per nascondere sotto a stoffe fantasiose i capelli non sempre curati.
Tutto questo non interessava ovviamente le stelle del cinema, che esibivano capelli lunghi, sciolti e ondulati. Queste venivano spesso imitate dalle donne “comuni”, con la conseguenza che in qualche fabbrica bellica non di rado i capelli di alcune si impigliassero nei macchinari. Chi bella voleva apparire, i capelli nelle macchine doveva infilare!
Bene, mie care bambole, siamo giunte al termine di questa prima parte dedicata alla bellezza e all’immagine del nostro ultimo glorioso secolo. Io ora prendo il phon e la mia spazzola per le onde e m’ingegno per assomigliare a una star del cinema hollywoodiano (e naturalmente vi aggiornerò sui risultati!).
Ho acquistato il mio ventitreesimo paio di jeans. Non potevo non prenderlo. Direttamente dagli anni ’80, a vita alta, gamba a prosciutto, strettini sulla caviglia. E blu. Di un blu non troppo chiaro. Nemmeno tanto scuro. Sono completamente diversi dai penultimi jeans, quelli che ho comprato un mese fa, decade ’80, blu, di un blu non troppo chiaro ma nemmeno troppo scuro.
E va bene, d’accordo, lo ammetto: sono Chiara, ho 33 anni e ho una dipendenza da DENIM!
Ora, signori miei, è doveroso che io faccia una precisazione: con il termine “denim” si indica il tessuto (che non è necessariamente di colore blu); con la parola “jeans”, invece, si definisce il taglio (il cinque tasche, per intenderci), impiegato per il confezionamento di pantaloni dai tessuti più svariati e non necessariamente in tela. Il nostro amato denim non è altro che cotone, la cui trama è bianca o écru, tinta poi chimicamente (in passato veniva colorato con estratti di piante).
Per quanto concerne la sua origine, c’è ovviamente lo zampino di LEVI STRAUSS (americanizzazione del tedesco Löb Strauß), un giovanotto di belle speranze che nel 1853 decise di raggiungere la California per vendere i capi di abbigliamento dell’azienda di famiglia. Levi aveva con sé anche dei tendoni da carro, con cui pensò bene di realizzare un paio di pantaloni. Un gran colpo di genio|! Un minatore li indossò, li usò e si entusiasmò: il tessuto in questione era resistente e non esisteva miniera che lo avrebbe distrutto. Quel giorno nacquero i pantaloni Levi’s e in seguito, a San Francisco, venne da lui fondata la sede americana dell’azienda di famiglia, la Levi Strauss&Co. I pantaloni naturalmente vennero perfezionati, fu scelto un tessuto più confortevole, direttamente dalla città di Nimes, in Francia (da cui l’abbreviazione americana denim), dal caratteristico aspetto blu della tinta usata per la colorazione. Nel 1873, vennero aggiunti dei rivetti di rame per rinforzate le tasche (in modo che non cedessero con il peso degli attrezzi dei lavoratori) grazie ad un’idea di Jacob Davis, cliente di Strauss e proprietario di una sartoria a Reno, nel Nevada. E infine, nel 1886, arrivò il marchio di fabbrica, l’etichetta in pelle con i due cavalli che tirano un paio di pantaloni senza che riescano a romperli.
Dunque, se oggi indossiamo giacche, pantaloni, camicie, scarpe in denim lo dobbiamo al signore crucco di cui vi ho parlato qui sopra. Ma concedetemi un momento di sano patriottismo: a Genova, qualche decennio prima che Strauss realizzasse i jeans, dei marinai crearono qualcosa di molto simile con un telo (in denim o forse di fustagno) usato per le vele delle navi. Da qui l’espressione “blues Jeans”, per il colore blu e per la derivazione genovese (jeans sta per Genes, ossia genovesi).
A questo punto, vi pongo una domanda: quanti jeans possedete voi? E in quale modello? Io non li porto sicuramente in stile fifties, con i grossi risvolti, come la giovane Liz qui sotto, dal momento che sembrerei con ogni probabilità una rosetta farcita!
Preferisco un modello dalla vita alta, dalla gamba regolare, magari indossato con una camicia bianca annodata in vita, come quella bellezza rara di Marilyn Monroe insegna.
Ma non disdegno neppure i 5 tasche anni ’70 (periodo molto gettonato per le sfilate di questa stagione), vita altissima, zampa, che nel mio caso associo a tacchi vertiginosi e non a gym-shoes, che invece Fara Fawcett prediligeva per ovvie ragioni di altezza e magrezza.
E li posseggo naturalmente anche in versione ’80, con due grossi buchi sulle ginocchia, chiarissimi, cattivissimi, che miss Ciccone avrebbe di certo apprezzato.
Momento iconico: Kate Moss nella campagna di Calvin Klein del 1990. Adoro quel decennio, le camicie erano larghe, i jeans stretti il giusto, la vita comoda. Il modello in questione è stato bistrattato per tanto tempo, prediligendo vite bassissime che non lasciavano nulla all’immaginazione (che volgarità!). Poi sono tornati, insieme al buongusto. Era ora.
E degli stessi anni è anche il film Thelma&Louise, in cui le coraggiose Susan Sarandon e Geena Davis fuggono dalla routine familiare e da mariti non proprio esemplari con addosso canottiere gagliarde, sexy jeans e stivali da cowgirl (potete ammirarle in copertina).
Concludo dicendo che io li ho tutti, ma questa non è una ragione sufficiente per frenare la mia voglia di averne sempre di più. O no?
Ci sono nomi che, oltre ad aver reso la moda italiana famosa in tutto il mondo, le hanno conferito una magia ed uno charme talmente unici ed irripetibili da essere ricordati in eterno. La storia di Emilio Pucci è ricca di nobiltà e di avventura, sullo sfondo di una Firenze patrizia fino alla conquista degli States e all’affermazione della maison italiana nel mondo.
Emilio Pucci, marchese di Barsento, nacque a Napoli il 20 novembre 1914 dalla nobile famiglia fiorentina dei Pucci. Provetto sciatore, nel 1934 viene selezionato dalla squadra nazionale olimpica italiana di sci e partecipa alle Olimpiadi invernali del 1936.
Il giovane Emilio coltiva la passione per lo sci e per la pittura. Dopo aver vinto una borsa di studio presso il Reed College, nell’Oregon, dove avrebbe dovuto continuare i suoi allenamenti nello sci, sorprende tutti disegnando l’uniforme della squadra. I suoi primi bozzetti nascono così, in modo del tutto spontaneo e casuale, ma rivelano un genio ed un estro sorprendenti.
Dopo aver concluso un master in scienze sociali negli States, l’eclettico aristocratico non torna in Italia ma si imbarca su una vecchia nave e parte per un improvvisato giro del mondo, impresa che paga cara al suo rientro in patria, dove viene accusato dalle autorità militari di renitenza alla leva.
Prima di avvicinarsi alla moda il marchese fu un grande sportivo: dopo essersi arruolato nella Regia Aeronautica nel 1938, lavorò come istruttore di sci al Sestriere. Rientrato nella sua Firenze, avviene l’incontro che segna la sua vita, con la moda, di cui l’inconsapevole designer cambierà il corso. Anche in questo campo, la fortuna di Emilio Pucci proviene ancora una volta dal mondo dello sport, oltre che da un indescrivibile talento come disegnatore di bozzetti: dopo aver creato, quasi per gioco, una tenuta da sci per un’amica, nel 1947, viene immortalato con quest’ultima dalla fotografa di moda Toni Frissell sul numero di dicembre di Harper’s Bazaar. Quella tuta da sci improvvisata dai colori fluo colpisce l’attenzione dei media e diventa must have ante litteram della moda invernale.
L’aristocratico dal gusto innato viene incoraggiato dall’inaspettato successo a proseguire sulla strada della moda: è Capri la location scelta per aprire la sua prima boutique, nel 1950. La personalità e l’originalità pagano sempre, e quei colori brillanti su stampe dai motivi così particolari rappresentano fin da subito qualcosa di assolutamente inedito nel panorama della moda italiana e mondiale. Pioniere della moda italiana e perspicace trendsetter, il marchese partecipa l’anno seguente, nel febbraio del 1951, alla prima sfilata di moda mai organizzata in Italia, realizzata grazie a Giovanni Battista Giorgini a Firenze, nella mirabile location di Villa Torrigiani.
Emilio Pucci si impone in brevissimo tempo come uno dei protagonisti più amati delle passerelle fiorentine. Le sue creazioni, dalle fantasie optical e dalle cromie esplosive, unite alla cura nella scelta di tessuti pregiati, sdoganano in breve lo stilista anche all’estero: “The Prince of Prints”, il principe delle stampe, è il nome assegnatogli dalla stampa anglosassone. Nel 1954 avviene una prima consacrazione ufficiale in America, con l’assegnazione del prestigioso Neiman-Marcus Award. Mentre la moda guarda sempre più a Parigi, all’Haute Couture di nomi come Christian Dior e al suo New Look dal gusto classico, Emilio Pucci crea una nuova concezione dello stile, che privilegia la comodità e le stampe.
Capostipite di quello che oggi viene chiamato Sportswear, la libertà sembra essere ciò che più gli preme, per capi drappeggiati e morbidi in tessuti come la seta, l’organza, la gabardine e la mussoline. Definito da Giovanni Sartori “un grande cavaliere antico”, Pucci scglie come suo quartier generale per la sua casa di moda Palazzo Pucci in via de’ Pucci: è la sua Firenze ad ispirarlo, e l’antico palazzo nobiliare è ancora oggi sede della maison. Suggestive e pregne di un gusto indimenticabile, le foto scattate sul tetto del palazzo di famiglia, forse simbolo per antonomasia del gusto del marchese e della sua visione dell’eleganza. Innumerevoli saranno le modelle ad indossare capi Emilio Pucci: celebri le foto scattate da Henry Clarke e Gian Paolo Barbieri, con modelle del calibro di Marisa Berenson e Benedetta Barzini, solo per citarne alcune. Tute dal sapore etnico, pigiama palazzo che ricordano l’Oriente, e ancora turbanti e dettagli che profumano di terre lontane: lo stile Emilio Pucci affascina con un mix di storia e ricercatezza, per capi sofisticati come pochi.
Dopo aver brevettato nel 1960 “emilioform”, un tessuto leggero composto da helanca mixata a shantung di seta, nel 1966 Pucci lanciò il suo primo profumo, Vivara. Nel 1956 creò una delle sue collezioni più celebri, ispirata alla Sicilia, rappresentata mirabilmente da indimenticabili scatti ambientati a Monreale; l’anno seguente fu il Palio di Siena ad ispirarlo, e nel 1959 le opere del Botticelli. Nel 1967 portò le sue sfilate nel palazzo di famiglia, e nello stesso periodo disegnò le uniformi per le hostess della Braniff International Airways. Avanti rispetto ai tempi, la collezione, denominata Gemini 4, vede un mood da space oddity, ed è seguita dalla creazione del logo per la missione speciale della NASA denominata Apollo 15. In Italia disegnò le divise dei Vigli urbani, con i fatidici elmetti ovali sulla divisa blu dai lunghi guanti bianchi: inoltre si dilettò con la moda maschile, con la creazione di fragranze e con la produzione di ceramiche per la casa.
I capi colorati di Emilio Pucci andarono letteralmente a ruba nei grandi magazzini Saks, dando origine ad una vera e propria Puccimania. Un gusto innato per il colore ed una capacità unica come disegnatore, le sue creazioni avevano un quid che le differenziava da tutte le altre: l’allegria ed un approccio artistico alla moda, nella sua ricerca certosina per la creazione di stampe originali.
Durante la Seconda Guerra Mondiale Emilio Pucci fu ufficiale dell’Aviazione, pluridecorato con tre Medaglie d’argento al valor militare, sette di Bronzo e tre Croci di guerra al valor militare. Personalità eclettica, negli Sessanta il marchese decise di entrare in politica, col partito liberale e fu nominato Sottosegretario al Ministero dei Trasporti. Il 4 giugno del 1982 fu nominato Cavaliere del Lavoro. Il 29 novembre del 1992 il marchese si spense nella sua amata Firenze, all’età di 78 anni.
Dopo la sua scomparsa la figlia Laudomia ha ereditato la direzione del marchio, di cui ancora oggi cura l’immagine generale. Nel 1996 una grande mostra in onore del marchese è stata allestita a Pitti, mentre il suo talento così unico è stato al centro di un volume edito da Taschen. Nel 2000 il gruppo francese LVMH (Louis Vuitton) ha acquistato i diritti sul logo Emilio Pucci e sulle creazioni storiche, rendendosi protagonista di un rilancio del brand gestito in modo sapiente: è solo dalla celebrazione del glorioso passato della maison che si può ripartire, rivisitandone modelli e motivi per declinarli in collezioni nuove facendo rivivere la magnificenza dello stile Pucci nella contemporaneità. La storica maison ha visto alternarsi alla sua direzione creativa numerosi designer, da Stephan Janson e Julio Espada a Christian Lacroix, da Matthew Williamson a Peter Dundas, fino all’attuale direttore creativo Massimo Giorgetti. Con oltre 50 boutique nelle località più esclusive del mondo e un fatturato calcolato tra Italia, Stati Uniti e Giappone, la maison è ancora oggi simbolo di un’incomparabile eleganza.
Se pensate che la moda sia ad esclusivo appannaggio di donne alte 1.80 m, dovrete clamorosamente ricredervi. Essere piccole di statura può essere un valore aggiunto, e a sdoganarlo per prima, nei lontani anni Cinquanta, è stata una donna il cui nome è ancora oggi tra le firme più apprezzate della moda francese ed internazionale.
Marie-Louise Carven-Grog, all’anagrafe Carmen de Tommaso, della sua altezza aveva fatto un complesso: alta 1.55 m, minuta ma proporzionata, come d’altronde prevedeva la bellezza dell’epoca, madame Carven si diceva “alta quanto un gambo di cavolo” e sembrava soffrire profondamente per quei centimetri in più che Madre Natura le aveva negato.
Ma, forte della propria personalità, si rimboccò le maniche e promise a se stessa che la statura piccola non avrebbe mai più dovuto rappresentare un problema per nessuna donna. Fu così che creò una moda a misura di donne petite, entrando di diritto nell’Olimpo dello stile. Il suo marchio, Carven, ancora oggi è uno dei più seguiti, nell’ambito della settimana della moda di Parigi.
La couturière francese nacque il 31 agosto 1909 a Châtellerault dall’editore di origine italiana Tommaso Carmen. Studiò Architettura ed Interior Design presso l’École des beaux-arts de Paris ed iniziò la sua carriera di designer di moda da autodidatta, confezionando abiti su misura per se stessa e per le sue amiche. Nel 1945 fondò la sua casa di moda sotto lo pseudonimo di Mme Carven, contrazione del suo cognome e del nome di una zia da lei prediletta, che la introdusse alla passione per la moda.
Figlia di una generazione che sfornò talenti del calibro di Elsa Schiaparelli, Coco Chanel, Christian Dior e Pierre Balmain, il successo per lei arrivò appena quattro anni più tardi, nel 1949, quando venne citata nel testo della canzone “Mademoiselle de Paris”, di Jacqueline François.
Ampie gonne a ruota, punto vita segnato e decolleté in vista, in perfetto stile Fifties: questo è il modello Carven, per un abito verde che diviene emblema dello stile della maison. Uno stile all’insegna della leggerezza e del colore, per suggestioni provenzali. Semplicità, pulizia e consigli strategici per donne piccole di statura: evitare il nero, in primis, come anche le maniche a sbuffo e le stampe troppo ampie, ed evidenziare il seno, per accentuare le forme burrose tipiche degli anni Cinquanta.
Madame Carven non viene cambiata dal successo: ottimista, il suo buonumore è proverbiale come anche la sua simpatia, che la rende vicina alla gente comune. I suoi capi colorati ricordano le uniformi delle hostess, e lei, grande viaggiatrice, adora trarre ispirazione da terre lontane. Tra le sue clienti ci sono nomi del calibro di Martine Carol, Leslie Caron, Michèle Morgan ed Édith Piaf. Realizzò l’abito da sposa di Mme Valéry Giscard d’Estaing e si rivelò brillante manager ante litteram: Madame Carven fu infatti tra i primi designer ad esportare le proprie creazioni all’estero, in particolare in Brasile, Portogallo, Egitto ed Iran. Inoltre fu una vera e propria trendsetter, essendo tra i primi couturier ad arricchire i propri capi di suggestioni etniche, introducendo elementi e materiali tipici di altri Paesi, come le stampe batik e la rafia. Le sue collezioni ottennero un successo incredibile in Giappone, dove le donne sono per antonomasia piccole di statura
Grande rivoluzionaria, madame Carven fu la prima a realizzare collezioni di prêt-à porter e dobbiamo a lei il primo prototipo di reggiseno push-up. Tanti sono i tabù infranti da questa piccola donna dall’enorme personalità, come l’aver fatto indossare una colonia maschile alle donne e l’aver accompagnato in giro per il mondo le sue modelle globetrotter.
Secondo l’ex ministro francese della cultura Renaud Donnedieu de Vabres madame Carven ha contribuito largamente ad imporre l’eleganza francese come punto di riferimento internazionale. Amante dell’arte, numerosissime sono state le sue donazioni al Museo del Louvre, che nel 1997 ha aperto una sala in suo onore, intitolata Grog-Carven. Madame Carven si ritira dalla scena nel 1993, all’età di 84 anni. Due anni più tardi, nell’ottobre del 1995, ottiene la Legion d’onore. La piccola grande donna si è spenta l’8 giugno del 2015, all’età di 105 anni. Le donne piccole di statura le devono molto.