Chi vincerà le elezioni presidenziali Usa 2016?
Lo show è previsto per la notte tra l’8 e il 9 novembre.
Di show si tratterà, con oltre 250 testate accreditate presso i comitati dei due maggiori candidati: un mare di circa duemila persone tra stampa, televisione radio, e naturalmente tanto web. Da ogni parte del mondo.
Solo in America si stimano 150 milioni di telespettatori nella curva dele quattro ore, da costa a costa. Il web si attende oltre 3 miliardi di pagine visitate ogni ora (e l’attacco del 21 ottobre non promette nulla di buono in proposito).
Il sentiment europeo è tutto per Hillary Clinton.
Quanto questo sia corrispondente al sentiment degli elettori americani è un altro discorso.
Anzi, la prima cosa di cui tenere conto è proprio questa: una Clinton benvista all’estero come interlocutore e partner è esattamente la sua debolezza interna. L’America che cresce poco dopo la recessione pre-Obama e che ha perso milioni di posti di lavoro è stata fortemente sollecitata dagli slogan di Trump. Quel “prima gli americani” e “America nuovamente forte” fa breccia in quelle masse che vedono le enormi spese militari all’estero e la fuga delle imprese a caccia di salari più bassi come un problema che difficilmente “un nome noto” e protagonista della politica Usa degli ultimi trent’anni potrà affrontare.
Del resto Trump ha vinto proprio perché vendutosi e percepito come uomo fuori dagli schieramenti e dalla carriera politica.
Il vero tema che emerso è la straordinaria debolezza e mancanza di leader in campo repubblicano: distrutto prima dal Tea-Party, che lo ha radicalizzato a destra, fortissimo nelle competizioni locali (e non a caso da decenni detentore delle maggioranze al Congresso e spesso anche al Senato), il partito conservatore americano fa fatica a trovare un candidato forte, che emerga tra i nomi noti della leadership e capace di unire il partito.
E non è un caso che nella sfida tra i senatori Marco Rubio e Ted Cruz, il Governatore della Florida Jeb Bush, il Governatore del New Jersey Chris Christie, Carso, Fiorina, e Governatori o ex come Gilmore, Scott Walker, Jindal, Huckabee, Kasich, Pataki, Perry o Senatori e ex come Graham, Rand Paul, Marco Rubio, Rick Santorum, alla fine abbia prevalso Donald Trump.
Nessun primo inter pares che ha lasciato campo libero a qualcosa che va oltre il semplice populismo tipico dei “miliardari americani in cerca di potere”.
Ed un tema di mancanza di leadership che si riproporrà tra quattro e forse anche otto anni.
Ago della bilancia saranno, ancora una volta, tre categorie di persone ed elettori, che almeno sulla carta nessuno dei candidati rappresenta davvero.
Sono i giovani alla prima esperienza elettorale, sono gli immigrati di prima generazione al primo accesso al voto e quelli di seconda generazione a seconda che si registrino o meno al voto.
Sono le donne, soprattutto le donne, che come abbiamo visto sono state quelle più chiamate in causa e che per la prima volta hanno una propria candidata che può vincere, soprattutto contro un candidato che, al di là delle parole, chiaramente non le rappresenta (e ne ha scarsa considerazione).
E tuttavia va ricordato che li Stati Uniti sono un paese vasto (ben sei ore di fuso orario) e molto eterogeneo. Un insieme di stati centrali, normalmente tendenzialmente conservatori, che salvo rare eccezioni sono anche poco densamente popolati, ed esprimono quindi “pochi voti presidenziali”.
Gli stati della costa, più giovani, industrializzati, ricchi e tecnologici, non privi di contraddizioni anche politiche.
La California ad esempio, che esprime spesso due senatori democratici, ma quasi sempre amministrata da governatori repubblicani. O lo Stato di New York, in cui hanno convissuto un sindaco repubblicano, una maggioranza in congresso e in senato democratica e un governatore repubblicano.
In America si vince con la maggior parte dei voti presidenziali, e non con la maggior parte dei voti popolari. Per cui si può anche stravincere da qualche parte in termini di voti, e perdere di strettissima misura in Stati chiave, e perdere quindi le elezioni complessive.
Andrà quindi con attenzione compreso sino a che punto i candidati al Congresso, in Senato, i Governatori e i Sindaci dei singoli Stati spingeranno con forza, fondi e determinazione per il corrispondente candidato Presidente, o se tutto verrà sostanzialmente lasciato al sentiment dell’elettorato, smarcando il proprio destino dal candidato alla Casa Bianca (ipotesi molto probabile per Trump, meno per la Clinton).
Stando ai sondaggi di quindici giorni prima del voto i rapporti dovrebbero essere – in termini di intenzioni di voto quantitativo sul voto popolare – di 48 a 42.
Quanto sia poi spalmato questo voto non è dato sapere, anche se la conta pare sia abbastanza netta, con pochi stati in bilico.
262 voti sono praticamente già accreditati per la Clinton, 164 già attribuiti a Trump, e solo 112 sarebbero i voti ancora da assegnare (va ricordato che viene eletto chi si aggiudica almeno 288 voti).
Con la Clinton sarebbero
Michigan (16)
Illinois (20)
New Jersey (14)
Washington (12)
Rhode Island (4)
Delaware (3)
Maine CD1 (1)
New Hampshire (4)
Maine (2)
Wisconsin (10)
Colorado (9)
Oregon (7)
Pennsylvania (20)
Virginia (13)
Connecticut (7)
New Mexico (5)
Massachusetts (11)
New York (29)
California (55)
District Of Columbia (3)
Hawaii (4)
Maryland (10)
Vermont (3)
Sarebbero assegnati a Trump
Indiana (11)
Texas (38)
Missouri (10)
South Carolina (9)
Utah (6)
Louisiana (8)
Mississippi (6)
Montana (3)
South Dakota (3)
Tennessee (11)
Alaska (3)
Kansas (6)
Nebraska CD2 (1)
Alabama (9)
Arkansas (6)
Kentucky (8)
Idaho (4)
Nebraska (4)
North Dakota (3)
Oklahoma (7)
West Virginia (5)
Wyoming (3)
Ancora da assegnare secondo gli analisti sono
Georgia (16)
Florida (29)
Ohio (18)
North Carolina (15)
Nevada (6)
Minnesota (10)
Iowa (6)
Arizona (11)
Maine CD2 (1)
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Verso USA 2016
Manca oltre un anno al voto presidenziale americano, e le primarie sono già cominciate qualche mese fa. Ufficialmente ad aprile, con le varie dichiarazioni di “discesa in campo”, a caccia di sostenitori e finanziatori. La prima sfida è esattamente questa: assicurarsi per tempo un certo numero di comitati, sedi, volontari, macchine organizzative, banche dati, e ovviamente cospicui fondi elettorali. Tutto questo è “la dote” che i candidati porteranno – alla fine – a ciascuno dei due candidati del proprio schieramento politico che risulteranno vincitori, e il peso politico di ciascuno si misurerà esattamente in questa forza e nelle risorse raccolte e disponibili per la “campagna vera”.
Ad oggi di sorprese ce ne sono almeno due.
La prima è in casa democratica. Prevedibile che la corsa di Biden fosse solo strategica, ma addirittura doppiato da Sanders nessuno se lo aspettava. Prevedibile che la Clinton, senza avversari veri, soprattutto a sinistra, battesse tutti, ma non addirittura che superasse il 50% delle preferenze nonostante una politica presidenziale che mese dopo mese le “sottrae” progressivamente molti argomenti: dall’Iran a Cuba ai diritti lgbt.
La seconda, vera, grande sorpresa è però in casa repubblicana, dove il miliardario Donald Trump sta letteralmente doppiando ovunque i due avversari diretti e “veri” di queste presidenziali: Jeb Bush e Marco Rubio. Il dato è straordinario anche perché entrambi gli sfidanti non hanno alcun problema di raccolta fondi o organizzativo, ed entrambi sono politici navigati, con una struttura solida e ottimi argomenti. Ed anche nei dibattiti televisivi, nonostante gli altri siano più preparati è sempre Trump a dominare la scena, nonostante evidenti gaffe.
Certo, non si è ancora votato in Stati popolosi e determinanti, né in quelli propriamente repubblicani, ma il dato va letto in molti modi. Intanto la classe media elettrice repubblicana non si fida più dei politici di professione. Quell’elettorato prematuramente stimolato da Ross Perot stavolta sembra maturo per una scelta “diretta”. Trump, da miliardario, appare meno “succube” e ricattato dai finanziamenti delle lobby, e questo alone di indipendenza fa gioco in questa fase.
Che voglia davvero arrivare alla fine della corsa non è dato sapere, di certo il segnale è politicamente chiaro: il mondo dei miliardari americani che fanno l’economia vogliono partecipare in maniera diretta e determinate alle scelte politiche, e non solo finanziare e pesare dietro le quinte per ottenere favori occasionalmente e quando politicamente la cosa non disturba.
Se questo è il messaggio politico che consegna al GOP la candidatura di Trump, la risposta dell’elettorato non si fa attendere: Trump può anche vincere le primarie interne ma è anche quello che con maggiore certezza perderebbe le elezioni vere contro i democratici, già a prescindere favoriti, mentre la Clinton avrebbe vita certamente più difficile con Bush e Rubio.
Questa la situazione ad oggi, a 360 giorni dalla chiusura delle primarie dei due partiti.
Un anno per ampliare e consolidare le proprie forze e risorse, e per decidere entro marzo a chi consegnare – in caso di ritiro – il proprio capitale politico, stringere alleanze, ottenere candidature e posizioni di potere in vista del novembre 2016.
E tutto questo a meno di sorprese e new entry che nella politica americana non mancano mai.