Lettera a Oliviero Toscani

di Tommaso Basilio

Caro Oliviero,

ti scrivo perché sei partito e non ci siamo salutati. Ti ho conosciuto nel ‘79. Io allora studiavo Ingegneria, mai scelta più sbagliata. A Milano si cominciava a respirare un’aria nuova dopo gli anni di piombo, dove tutto era politica e scontro. Anche il divertimento di noi ragazzi era stato politicizzato. Si andava nei bar frequentati dai compagni o da quelli dei camerati. Non c’era via di mezzo. Ma nel ‘79 le cose stavano per cambiare. Ed io per guadagnare qualche lira accettai un lavoretto come fattorino in una piccola casa di moda dove mio cugino era lo stilista. Portavo pacchi con vestiti alle boutique e mi capitava anche di andare agli studi di Vogue, uno scantinato con una scala che conduceva direttamente su un set fotografico. Dietro ad una serie di flash c’era un tipo alto, con due baffoni alla tartara, che dava indicazioni a due modelli che saltavano. Tutto mi sembrava così divertente! Beh, quello con i baffi eri tu, ed io, spaesato, timido, con un pacco in mano cercavo di capire a chi consegnarlo. Poi un attimo dopo mi chiedesti di indossare un piumino rosso (sì, c’erano già i piumini, ma erano i primissimi e venivano dagli USA, li aveva portati Donna Jordan, la tua fidanzata/modella del tempo che allora faceva la stylist).

Cowboys, L’Uomo Vogue 1976 (Toscani Archive)

Tu eri energia pura, io iniziai a fare da modello sui tuoi set ed il destino fece il resto: la redazione di L’Uomo Vogue cercava assistenti. Lo chiesero a me. Senza un background, senza una preparazione, senza forse neanche una passione. Evidentemente in me avevi visto qualcosa, una luce, uno sprizzo di eccentricità. Era un periodo di grande creatività nella moda, mi appassionai alla fotografia e al piacere di lavorare con te. Tra i servizi più importanti de L’Uomo Vogue ricordo un numero dedicato al futuro, io e te soli a scarrozzare una decina di bauli per vestire professori del MIT di Boston, scienziati a Cape Kennedy e Robert Jarvik, il dottore che aveva costruito il primo cuore artificiale che tu ritraesti come un nuovo Gesù Cristo. Tu, fotografo già affermato in tutto il mondo, avevi accettato di viaggiare senza assistenti, senza luci, con uno spirito di avventura che chiamavi “situazionismo”.

Nell’incedere degli anni ‘80 la moda diventava sempre più potente e le riviste, con a disposizione grossi budget, potevano permettersi viaggi in location stupende. Ma il tuo punto di vista era diverso, non sei mai stato schiavo della moda, per te il vestito era rappresentazione di sé, segno di cambiamento, espressione di nuove istanze sociali e politiche. Non ti interessava il prodotto, ma il suo significato: hai amato la minigonna perché per te rappresentava il progresso dell’umanità più dei trattati di sociologia. Avevi in fondo l’anima del photoreporter come tuo padre, ma documentavi il mondo con l’aiuto della fiction (modelle, styling, luci, ecc.). Sottolineavi che il fotografo non era solo un cameraman come i reporter di guerra, ma anche scenografo, sceneggiatore, direttore della fotografia e regista. L’immaginazione era un mezzo per toccare la verità; agli albori del fashion system hai sempre preferito trattare temi caldi, sociopolitici, problematiche sociali attraverso immagini prodotte per l’industria della moda. Privilegiavi le collaborazioni con chi produceva per la massa, piuttosto che per pochi privilegiati. Facevi quest’esempio: “È più importante produrre un’auto che costa poco, con un ampio bagagliaio e che consuma pochissimo, piuttosto che una Lamborghini”.
La tua intelligenza mi spiazzava, i tuoi pensieri erano estremi e mi facevano riflettere per giorni; amavi rompere lo status quo, un po’ per convinzione, retaggio della tua generazione di ribelli, un po’ perché ti divertiva. Mi hai insegnato che l’uomo si esprime attraverso il lavoro e che in vacanza si annoia, tu che stavi su due o tre set contemporaneamente sempre con un’energia contagiosa e circondato da tantissimi amici.



Nel 2014, quando ti ho aiutato nella redazione del libro, “Più di 50 anni di magnifici fallimenti” , ho raccolto le opinioni che di te avevano tantissime persone speciali, da David Bailey a Philippe Starck, dal Cardinal Ravasi a Franca Sozzani. In questi giorni, dalla tua mancanza, in Italia e all’estero scrivono di te, sei il fotografo italiano più conosciuto al mondo, a Milano hanno fatto la fila per ore per poter vedere la tua ultima mostra (l’hanno organizzata i tuoi amici con tipica mossa situazionista che ti sarebbe piaciuta). Malgrado mi sia spesso capitato di volerti difendere da accuse di amici e conoscenti che non gradivano le tue dichiarazioni forti, ho potuto constatare che ci sono migliaia di persone che ti ammirano; i social, che tu detestavi, sono intasati di giudizi di gente che non ti conosce e che pensa di dimostrarsi viva nell’esprimere odio. So che poco te ne importerà e andrai avanti per la tua strada, onesto, franco e sincero, sempre. Sei circondato da persone che ti vogliono bene e che sanno vedere il grande cuore dietro la tua cruda franchezza, sono gli amici un po’ eccentrici e folli di cui amavi circondarti, dei “marziani”, come dicevi tu, come Warhol e Benetton, esseri speciali, non-normali.
Durante il lockdown mi hai raccontato moltissime avventure su Parigi e sui francesi che giudicavi un popolo molto civile; sugli USA, una terra libera che ha lanciato la musica di Bob Dylan e i ranch con i cowboy e l’energia degli afroamericani; aneddoti della tua vita speciale da cosmopolita che ho scritto su “Ne ho fatte di tutti i colori” uscita per i tuoi 80 anni per La Nave di Teseo. Degli afroamericani amavi la loro energia, i vestiti eccentrici e colorati, la musica che ascoltavano, tanto che nel ‘73 gli hai dedicato un monografico e messo in copertina un ritratto con i colori delle Black Panther.

Benetton campaign 1991

Non facile da far accettare a Liberman, il Direttore Editoriale ucraino-americano di Vogue, ma l’enfant terrible, come lui ti chiamava, ha vinto. Nel numero, i servizi di moda scattati ad Harlem e i ritratti di artisti come James Baldwin e Miles Davis, simbolo di cosa, per me, dovrebbe fare un giornale: ricercare, stimolare, informare. Still life, ritratti, reportage, impaginazione grafica, sei sempre stato una macchina da guerra, d’altronde sei stato educato dai professori del Bauhaus conosciuti a Zurigo.
È in America però che hai fatto la cosa più difficile, ma che ti stava molto a cuore: fotografare i condannati a morte per uno dei committenti per te più intelligenti: Luciano Benetton. Le tue idee, le tue lotte per il progresso si mescolavano con la pubblicità commerciale, questo è stato un unicum nel mondo della comunicazione.
In questi giorni mi hanno chiamato in tanti chiedendomi di te. Tra gli altri, il tuo amico e collega Paolo Roversi che, commosso, mi ha detto “I fotografi non muoiono mai, vivono attraverso le immagini che hanno prodotto. Ne sono convinto.”

Ti abbraccio.

Firmato: Il “fidanzato d’Italia” (come ti divertiva chiamarmi quando, sui tuoi set, mi facevi baciare tutte le modelle).


(in copertina Benetton campaign 1991
foto concesse da Archivio Oliviero Toscani)

Postmelodici, il servizio di Oliviero Toscani in esclusiva per SNOB


PHOTOGRAPHY OLIVIERO TOSCANI
Text Federico Vacalebre
Fashion Editor Tommaso Basilio

A metà anni Novanta cercavo di definire in qualche modo la nuova canzone popolare che impazzava a Napoli, tra radio e tv di quartiere. Su un saggio di Peppe Aiello trovai la parola «neomelodico», me ne appropriai, la iniziai ad usare per raccontare del mucchio selvaggio che impazzava in quel momento: Gigi D’Alessio, Franco Ricciardi, Tommy Riccio, Maria Nazionale, Ciro Ricci, Ida Rendano, Stefania Lay, Luciano Caldore, Lello D’Onofrio… Ogni giorno usciva una nuova star del “basso” accanto, si moltiplicavano i sottogeneri, le sottodefinizioni.

Nel 1999, per iniziare il primo libro mai scritto sul fenomeno, usavo queste parole: «Neomelodico. Do you know what I mean? Sai che voglio dicere? Neomelodico spiega poco, comporta il concetto di uno stile veteromelodico da distinguere da quello neomelodico, è una definizione come le altre… assunta per descrivere un complesso e stratificato fenomeno subculturale napoletano, arrivato negli ultimi anni anche sotto il cono di luce dei mass media nazionali, alla ricerca di una propaggine verace delle tendenze neoromantiche di stampo internazionale. Comunque ricordiamolo: parlare di musica è come ballare l’architettura».

Il discorso regge ancora: vent’anni, e passa, dopo, Gigi D’Alessio è una star nazionale, Franco Ricciardi fa sold out allo stadio Diego Armando Maradona mentre nuove stelline e divette impazzano sui social, insieme attratti e respinti dal movimento. Per qualcuno, anche per mezza Napoli, sono volgari, brutti, sporchi e cattivi, quando non collusi con la camorra. Per qualcun altro, mezza Napoli compresa, sono la colonna sonora preferita della giornata, un fenomeno antico e moderno, frutto di una globalizzazione che ha travolto la melodia classica partenopea come il raï ha fatto con quella maghrebina.

Musica etnica, dunque? Anche. Musica urban, come suggeriscono le sempre più spinte contaminazioni con i suoni rap, reggaeton, elettronici? Certo. Glocal pop? Ma anche sintomo di un cambiamento profondo di normalizzazione (sotto)culturale. In una famosa intervista ad Antonio Ghirelli Pasolini vaticinava di una Napoli destinata ad estinguersi, come certe tribù Tuareg, per la sua volontà ostinata e contraria, anti-storica, resistente, cazzimmosa. Le feste di nozze, ma non solo, che un programma come «Il castello delle cerimonie» porta in tutto il mondo mostrano da un lato quella resilienza, dall’altro l’adeguamento agli stilemi più kitsch del mainstream internazionale, la superfetazione del trash, dell’estetica dell’inorganico.

Gli eredi di Nino D’Angelo, di Gigi Finizio, di Patrizio (ex bambino prodigio morto di overdose di eroina) cantavano una Napoli che era difficile farsi piacere, che viveva sul crinale del malaffare. Ogni canzonetta, anche quella sulla più innocua storia d’amore, lasciava tracce di un disagio profondo, feroce. Mamme di quindici anni, maschi-padroni, vite di strada, corna, sesso veloce e senza precauzioni, tradimenti, auguri per una «presta libertà» appartengono alle cronache di ordinaria marginalità di una città passata dal rinascimento bassoliniano al rimorimento successivo, come nella condanna vichiana dei corsi e ricorsi storici. Il successo di D’Alessio ha spinto i suoi emuli a cantare in italiano, ad annacquare melodie e testi, a confondersi con l’«intronata routine del cantar leggero» (copyright Pasquale Panella per Lucio Battisti). Ma non tutti sono D’Alessio, anzi, lo sdoganamento nazionale non è arrivato, il mercato, che si era fatto fiorente ha vissuto con l’arrivo del nuovo millennio una crisi di identità: il sogno era Sanremo, non più la Piedigrotta.

Dopo Gianni Fiorellino sono arrivati Rosario Miraggio, Gianluca Capozzi, e poi ancora Alessio, Tony Colombo, Marco Calone ed altri si sono fatti largo, tra canzoni e storie kitsch da raccontare in tv. Hanno conquistato la periferia romana, sfondato in Puglia, in Sicilia, a Modena, a Milano… Mentre a Napoli l’emergente generazione postmelò trovava nel web il sostituto di radio e tv locali, ormai in debito di ossigeno, e nelle sonorità emergenti della trap e del reggaeton pane per i propri denti. Un’alleanza post femminista metteva insieme una protagonista della prima ora come Stefania Lay con le nuove star Giusy Attanasio e Nancy Coppola, mentre dietro le regine storiche Maria Nazionale e Ida Rendano spuntava il sex appeal di Marika Cecere. Mentre Francesco Merola manteneva in vita la tradizione melodica di papà Mario Ivan Granatino e i Desideri cercavano di uscire dal ghetto neomelodico, di parlare ad un pubblico più ampio, senza rinnegare, per quanto possibile, le proprie origini.

Tra radici e ali, identità e omologazione, il discorso è aperto e la domanda resta la stessa dell’inizio. Postmelodico. Do you know what I mean? Lo sai che voglio dicere?

La canzone neomelodica, neoromantica, postmelodica, postromantica, urbaneomelò o chiamatela come volete, è canzone verace d’amore per antonomasia. Ma che cosa è l’amore, e che cos’è l’odio? E chi amare e chi odiare nella Napoli in pieno hype del momento? Lo abbiamo chiesto ai magnifici otto ritratti da Oliviero Toscano in una Napoli mai stata di moda come adesso.


IDA RENDANO

Dress Lea Damiano
Hair Lorena Sazio
Make up Raffaella Pezzella

Ida Rendano è, con Maria Nazionale, la reginetta della canzone neomelodica sin dal primo momento, dagli anni Novanta. Ha cinquant’anni, ma non li dimostra, anzi. È napoletana del quartiere di San Giovanni a Carbonara, è cresciuta nel rione Miracoli ed oggi vive a piazza Cavour. Ha iniziato ragazzina, incidendo il primo disco a 7 anni. Le hanno dato una mano i duetti con Nino D’Angelo e Gigi D’Alessio, ma anche i testi di Salvatore Palomba e Peppe Lanzetta. Ha cantato con i 24 Grana, recitato Viviani in teatro, scritto un’autobiografia…

Cos’è per te l’amore? E chi/cosa ami di più?

«Sono fatta d’amore, che è sicurezza, fiducia e stabilità per l’anima, tutte cose che cerco sempre di dare a mia figlia, a mia madre ed a mio padre: mia figlia perché è stato il dono più bello che abbia mai avuto, mamma perché mi ha fatto nascere, papà perché mi ha trasmesso l’ amore per la musica. E poi amo gli abiti glamour, il trucco, le scarpe esagerate, mi piace sentirmi femmina».

E cos’è per te l’odio? E chi/cosa odi di più?

«L’odio è la mia risposta al male che ricevo, alla falsità, all’invidia, al perseverare nell’errore. Errare è umano, continuare in quella direzione diabolico».

FRANCESCO MEROLA

52 anni, napoletano, residente a Calvizzano. «L’unico Merolone in una selva di merolini», diceva di lui papà Mario, pensando ai possibili eredi canori. Francesco ha la sua voce scura e verace, il suo portamento ed è stato svezzato con le canzoni di Bovio e quelle di giacca. Ha duettato con il padre, con Gigi D’Alessio, con Valentina Stella. Ha riportato a teatro la sceneggiata ed ha organizzato una crociera nel nome di Mario Merola: a bordo, tutto, dal menù alle canzoni, dai talk show alla passione per il gioco d’azzardo, riporta al culto verace del genitore.

Che cos’è l’amore per te? E chi/cosa ami di più?

«L’amore è mia mamma che mi riporta sempre nella casa di Portici. E lì l’amore è naturalmente papà: tutto intorno mi parla di lui, mi ricorda lui, ammesso e non concesso che me ne dimentichi per un attimo. Amo la mia famiglia, mia moglie Marianna, la musica, la canzone napoletana, quella classica ma anche quella moderna, a cui cerco di contribuire quando trovo un pezzo adatto: faccio un mestiere che mi piace, sono un privilegiato».

E che cos’è l’odio per te? E chi/cosa odi di più?

«Non odio nessuno, o quantomeno mi sforzo di non odiare nessuno, di non trasformare la rabbia per chi ci vuole o ci fa male, per chi non ci considera come meritiamo, in qualcosa di più profondo, pericoloso, violento. Nella sceneggiata sono abituato a mettere in scena l’odio, ma l’ho cancellato dalla mia vita».

GIANNI FIORELLINO



Quarant’anni, di Mugnano, ha vissuto a Giugliano ed ora abita a Portici. Sta girando un docufilm sulla sua vita e carriera, con particolare attenzione alla periferia/provincia napoletana in cui è cresciuto, fiero che vi siano nati anche talenti come Giambattista Basile e Sergio Bruni. Ha iniziato a cantare a 9 anni, è stato Masaniello in un musical e due volte a Sanremo cantando in italiano e collezionando tra le Nuove Proposte un quarto ed un quinto posto, poi ha deciso di tornare al napoletano.

Che cos’è per te l’amore? E chi/cosa ami di più?

«L’amore è l’orologio buono del mondo, senza mi sentirei mancare ogni protezione, vivrei senza un rifugio. Amo mia moglie, i miei figli, naturalmente: solo loro la mia protezione ed il mio rifugio. Poi il mio cane: non mi ha mai tradito, anche se non vive più con me. E il mio pianoforte: mi ha indicato la strada, mi salva quando mi perdo, mi esalta quando mi ritrovo».

E cos’è per te l’odio? E chi/che cosa odi di più?

«L’odio è la peggiore attività dell’uomo. Genera violenza, frustrazioni, cattiverie, malvagità, vendetta, violenza, guerra addirittura. Io detesto tanti, ma non li odio, pur non sapendo porgere l’altra guancia. Odierei me stesso se provassi odio per qualcuno, anche se può sembrare un controsenso».

MARCO CALONE

28 anni, è nato a Pozzuoli e vive a Caserta. Tra i giovani che contano della nidiata postmelodica, ha duettato con Guè in «Tu si’ particolare» ed un suo pezzo del 2020, «T’aggio purtato ‘na rosa», è entrato nel circuito indie grazie alla cover incisa, durante la clausura da pandemia, da Roberto Colella, leader della band La Maschera, che l’ha sdoganato presso un nuovo pubblico.

Che cos’è per te l’amore? Chi/cosa ami di più?

«L’amore per me è vedere la serenità negli occhi di mia madre. Mi stanno a cuore gli amici, Carlos, ovvero il mio figlio peloso a quattro zampe, e la musica: senza di lei non potrei vivere».

E cos’è l’odio per te? E chi/che cosa odi?

«Odio la falsità, che ho compreso strada facendo. La popolarità che ho conquistato non ha cambiato me, ma chi mi stava intorno, per fortuna non ha intaccato le mie amicizie storiche. Odio l’ipocrisia, l’invidia, l’opportunismo. E alcune persone che incarnano questi difetti alla perfezione».

MARIKA CECERE

Ventisei anni, napoletana della Sanità, sex symbol postmelò, appartiene a quella nuova generazione esplosa in rete, attentissima alla comunicazione sociale, quasi una local influnecer.

Che cos’è per te l’amore? Chi/cosa ami di più

«L’amore è bene puro, è il trasporto per la famiglia, è il desiderio del partner, è l’affetto per gli amici. È rispetto, soprattutto. Mia madre, mio padre e mia sorella sono le persone fondamentali nella mia vita, nella mia personale classifica subito dopo metterei la musica, il palco ed il pubblico».

E cos’è l’odio per te? E chi/cosa odi di più?

«La miglior risposta ad un brutto comportamento sarebbe un sorriso. Da buona napoletana questa sono io. Buona, educata, ma non mi faccio passare la mosca sotto il naso e se devo reagire, alla fine reagisco. E inizio a odiare le persone cattive, non solo con me, non sopporto le ingiustizie».

I DESIDERI

Salvatore e Giuliano Desideri hanno rispettivamente 26 anni e 25 anni e sono nati a Marcianise, in provincia di Caserta, dove vivono. Figli d’arte, il papà è Nico, cantante veteromelodico, sono stati lanciati da una collaborazione con Clementino, hanno provato la strada di Sanremo Giovani e visto crescere le loro visualizzazioni sulla strada di un pop sempre più urban. Il prossimo album sarà quello con cui proveranno a conquistare il mercato nazionale.

Che cos’è per voi l’amore? E chi/cosa amate di più?

«È il motore della vita, ciò che ci spinge ad affrontare tutto. Non importa se sia amore per un uomo o una donna, per la famiglia, per le amicizie, per gli animali. Non esiste vita senza amore. Siamo fratelli e compagni di lavoro, l’amore ci cementa e anche per questo le nostre canzoni hanno un sapore speciale. Amiamo nostra sorella, mamma, papà: la famiglia è il luogo dove cerchi conforto quando le cose non vanno bene».

E cos’è l’odio per voi? E chi/cosa odiate?

«Sincerità, umiltà e generosità sono i tre valori nei quali ci rispecchiamo. Non riusciamo a proviamo odio anche se sappiamo che esiste, lo sentiamo anche attorno a noi. Se proprio dobbiamo chiudere i ponti con qualcuno usiamo l’arma dell’indifferenza».

IVAN GRANATINO

IVAN GRANATINO

Ivan Granatino ha 38 anni, è nato a Caserta e vissuto in provincia, tra Aversa e Trentola Ducenta, dove ora vive con la moglie ed i suoi due bambini. Nella sua produzione tiene insieme la temperie postmelo con rap, urban, pop, reggaeton. Visto a «The voice of Italy» ha collaborato con Clementino, Club Dogo, Luchè, Enzo Dong, Franco Ricciardi e Tullio de Piscopo, il suo ultimo singolo è un duetto con Pietra Montecorvino. Attore al cinema per i Manetti bros, presente nella colonna sonora di «Gomorra – La serie, ha milioni di visualizzazioni online. Tra i suoi pezzi anche una versione in napoletano di «Obsesion», hit latino degli Aventura.

Che cos’è per te l’amore? E chi/cosa ami di più?

«L’amore è il motore dell’esistenza. Nessuno può vivere senza amare o essere amato. E’ quel sentimento che fa passare ogni difficoltà e che aluta a fare ogni cosa con leggerezza. E. poi, l’amore è fondamentale nell’arte e nella musica per comporre. Il mio va innanzitutto alla mia famiglia, che mi regala radici e un porto sicuro».

« E cos’è per te l’odio? E chi/che cosa odi di più?

«Diciamo che è un sentimento troppo forte, che non conosco e non mi appartiene. Più che altro non sopporto i cliché, il pregiudizio e gli stereotipi, ma nulla di questo può spingermi ad odiare».

ITALIAN REALISM

Black and white frames which tell lack of communication. Pieces of a wardrobe that looks back to the 1950’s between feminine printed silks and austere men’s suits.

PHOTOGRAPHY Paolo Leone
STYLING Tommaso Basilio
ART DIRECTION Roberto Da Pozzo
HAIR – MAKE UP Gigi Tavelli
MODELS Tom Bellini @ Tank agency
Beatrice Brusco @ Women management

Sx look HIM Suit L.B.M, shirt Camicissima, Shoes Moreschi HER Silk dress Mantero 1902, necklace Rue des Mille
Dx dress HER Shirt Attic and Barn, pants PT Torino, belt Gavazzeni HIM Suit L.B.M Shirt Camicissima, sunglasses Persol
sx Shirt Altea, pants Berwich, jacket Gabriele Pasini, sunglasses Moscot  
dx Dress Manila Grace, sandals Chie Mihara, necklace Rue des Mille
sx Dress Ermanno Scervino, sandals Chie Mihara
dx HIM Suit Gabriele Pasini, shirt Camicissima HER Jacket Tagliatore, shirt Pina G, pants Berwich, belt Gavazzeni, sandals Chie Mihara
sx Sandals Chie Mihara, suit Manila Grace, sunglasses CELINE Vintage
dx HIM Total look Lordini HER Shirt Pino G, pants Berwich, belt Gavazzeni