Il tema della spettacolarizzazione non tocca solo la politica, ma contagia la stessa informazione, soprattutto quando ha un confine labile con l’opinione.
In una strana deriva dettata apparentemente dal fatto contingente che “i giornali vengono fatti il giorno prima per il giorno dopo” e che quindi “la notizia” in sé è già stata data e veicolata al pubblico, sempre più spesso il quotidiani – ed ancor più i settimanali – hanno scelto, in luogo di una attività giornalistica di approfondimento, di puntare su una sovrabbondanza di opinioni.
E l’opinionista si presta alla spettacolarizzazione televisiva anche più della politica, potendo spaziare su qualsiasi campo, genere, pubblico ed argomento.
Questa migrazione tra carta stampa stampata e televisione è anch’essa bivalente: da un lato la tv beneficia di opinionisti versatili, generalisticamente o specialisticamente preparati, che mediamente riescono a dare un contributo contenutistico alla trasmissione, dall’altro il mondo della carta stampata, in un tempo di decrescita dell’affezione del lettore e della propensione alla lettura, beneficia di fatto di veri e propri spot promozionali per il proprio prodotto.
Soprattutto per quanto attiene a prodotti editoriali di aree linguistiche minori (Italia, ma anche Grecia, in alcuni casi Germania, paesi nordici in generale) l’apparizione televisiva costante di direttori e “firme di punta” sul medium televisivo finisce con l’essere garanzia di sopravvivenza.
E questo comincia avvenire anche in paesi in cui, sebbene il pubblico linguistico sia contenuto, resta alta la propensione alla lettura (per ragioni storiche e culturali, come in Francia, Germania, Scandinavia).
Questo fenomeno tuttavia porta con sé molti problemi. In primo luogo la spettacolarizzazione televisiva, con l’adozione dei tempi e del linguaggio mediatico della televisione, si presta poco e male al tipo di approfondimento giornalistico tipico della carta stampata.
Contemporaneamente non è affatto detto che la migliore firma giornalistica, che descriva al meglio un fatto, un fenomeno, un evento, sia anche adeguatamente telegenica da poter essere “ospite televisivo” – requisito mediatico indispensabile. E accade spesso invece che un giornalista della carta stampata sebbene “mediocre” o comunque abbondantemente nella media, possa divenire star televisiva per ragioni comunicative, estetiche, caratteriali, del tutto indipendenti dalla sostanza della propria professione e professionalità.
Laddove gli ospiti del giornalismo televisivo sono numerosi, variabili, fortemente alternati, i macroproblemi finiscono qui. Laddove invece – come avviene soprattutto in Europa, e come ha ben illustrato Alberto Baldazzi nella sua annuale analisi dell’Osservatorio TG – tale presenza si riconduce ad un numero di ospiti particolarmente ridotto, quasi fosse “un circolo”, si pongono una serie di problematiche aggiuntive.
In parte sono le stesse di cui possiamo parlare a proposito dei problemi di accesso e di pluralismo nell’informazione politica. Si pone in altre parole un problema di accesso e di pluralismo di informazione ed opinione, che si traduce anche – nell’informazione e nella comunicazione politica – in una “monotonia” di temi, argomenti, argomentazioni e repliche. Essendo gli ospiti pressoché fissi, sempre gli stessi, in format complessivamente statici, non c’è spazio per “altro ed altri” (il che tra le altre cose genera quella “crisi di audience dei talk show” di cui il mondo giornalistico parla senza tuttavia affrontarlo sul serio, preferendo pensare che sia il pubblico non interessato e non che ci sia un errore giornalistico/informativo).
In parte le problematiche sono invece le stesse di cui parlerò a proposito della “simulazione”, sia della trasparenza politica sia dell’informazione. Quando questa diventa spettacolo, intrattenimento, e i giornalisti – che dovrebbero essere protagonisti del mondo dell’informazione – diventano personaggi soggetti alle regole dell’audience, il contenitore ed il contenuto televisivo diventano qualcosa di più simile ad uno spettacolo di intrattenimento e di reality che non di approfondimento ed analisi.
Questo fa sì, per tornare al tema della simulazione, che anche gli scontri, i confronti aspri, le critiche, più che “autentiche” finiscano con l’essere apparenti e simulate a beneficio del pubblico.
All’interno di pur note ed evidenti divergenze di opinioni e punti di vista, appare chiaramente difficile pensare che giornalisti che si incontrano anche quattro volte nella stessa settimana in diversi talk show o trasmissione di apparente approfondimento possano “autenticamente scontrarsi in piena trasparenza, dovendo rincontrarsi altre quattro volte la settimana successiva. Ed appare chiaro che il dibattito sia politico che informativo diventa la simulazione di se stesso. Una “messa in scena” per essere “messa in onda”.
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POLITICI E TALK SHOW IL RUMORE DEL NULLA
“Stessi personaggi, stessa trama, stessa osteria, stessa minestra riscaldata, stessi filmati della stessa “ggente” incazzata stessa malizia stantia nell’aizzare gli ospiti per imbonire lo stesso pubblico, falsa rappresentazione di quel pubblico, reale e non da reality, che da tempo ha smesso di guardarli perché si è rotto del rumore insignificante dei loro riti.”
E’ vero i politici di oggi sono quello che sono, addestrati a sbraitare dando fiato a polemiche sempre uguali, a stupide ripicche, a sparate demagogiche, ripetendo senza fine gli stessi slogan, gli stessi pseudo concetti. Rarissimi quelli che approfondiscono un problema, che cercano e sanno indicare soluzioni ragionevoli, praticabili. Vere mosche bianche poi quelli che non carezzano il pelo all’uditorio e alla claque che li accompagna, che hanno l’onestà e il coraggio di dire anche le verità scomode, impopolari. Se sono renziani esaltano il fare e la concretezza del leader anche quando consiste solo di annunci.
Yuppies in ritardo e ragazze sfrontate celebrano traguardi non raggiunti e risultati controversi, negando l’evidenza di una crisi economica e sociale che non ci lascia più attribuendo ai predecessori anche i propri fiaschi. Se appartengono alle opposizioni e seguono Salvini promettono di usare le ruspe contro i campi nomadi, urlano contro l’euro e l’Europa colpevoli di tutti i nostri guai comprese le migrazioni bibliche dall’Africa. Se hanno Grillo e Casaleggio per maestri si accaniscono sui vitalizi di una decina di politici in pensione come se fosse l’ultima spiaggia della moralità pubblica, ma disertano o snobbano discussione e voto sulle riforme elettorali e costituzionali come su quelle del lavoro. “Non gliene frega niente a nessuno!” pontificano però se la Corte Costituzionale boccia il taglio delle pensioni più alte e riapre una voragine nei conti dello stato gli stessi deputati che anni fa l’hanno votata brindano e si danno alla pazza gioia perché Renzi è nei guai e intimano al governo di rimborsare tutti e subito.
Se questi – ne ho contati un centinaio, sempre gli stessi – formano la compagnia di giro di politici senz’arte né parte affamati di mezz’ora di visibilità, che dire dei conduttori di talk show? Che dire degli ultimi replicanti di quelli che una volta erano anchor men, grandi giornalisti che ci tenevano incatenati al piccolo schermo? Di questi nuovi conduttori e conduttrici seriali ne ho contati più di venti solo nelle principali reti televisive – e tutti ripetono instancabili lo stesso copione. Stessi personaggi, stessa trama, stessa osteria, stessa minestra riscaldata, stessi filmati della stessa “ggente” incazzata che “non arriva a fine mese”, stessa malizia stantia nell’aizzare gli ospiti perché imboniscano nello studio tv lo stesso pubblico, illusorio campione di altra, diversa, vera e varia gente, di quel pubblico reale e non da reality che da tempo ha smesso di guardarli perché si è rotto del rumore insignificante dei loro riti. Ma i conduttori non mollano, più fomentano gli ospiti a urlare più pensano di incrementare di un decimale uno share infinitesimale. Pochi, pochissimi tra quelli della vecchia scuola si sforzano ancora di dire la loro, di frenare gli esagitati, gli sgrammaticati e sgangherati cleptomani della banalità. E la chiamano televisione, la chiamano informazione, lo chiamano giornalismo! A me fa venire in mente Mambo la bellissima scanzonata canzone di Lucio Dalla e i suoi versi disperati, “Ahh che pena, che nostalgia”.