In questi giorni di sud si è parlato molto. Soprattutto perchè i dati macroeconomici pubblicati sono decisamente negativi. E invece di essere leti economicamente, sono stati “tirati per la giacchetta” da questa o quella parte politica – come se nessuna fosse responsabile di alcunché. In pochi tuttavia hanno rilevato che questa è la prima volta che lo stesso partito, con il suo segretario, è alla guida del governo e contemporaneamente amministra tutte le regioni del meridione. E a grandi poteri corrispondono anche grandi responsabilità. Questo significa che davanti noi ci sono almeno cinque anni, e l’intera nuova programmazione europea, per gestire risorse, avviare strategie almeno di medio periodo, e dare risposte concrete che generino risultati. Senza alcun alibi. E questo significa anche i prossimi dati saranno inequivocabilemnte la sentenza di quanto fatto o meno da questo governo e da queste amministrazioni, senza più poter “giocare” a scaricare responsabilità politiche.
Ma andiamo con ordine. Dalla pubblicazione delle “anticipazioni” del rapporto SVIMEZ sul mezzogiorno d’Italia… è stato un ricorrersi di commenti, più o meno tutti “sui titoli” dei titoli delle anticipazioni stampa, ovvero la sintesi della sintesi della sintesi del rapporto.
Le linee seguite dalla narrativa sono state le solite: attacchi contro un sud sprecone e incapace, attacchi contro il governo, attacchi contro la svimez (rea di dire cose spiacevoli) e repliche politiche (finanche di improponibili neoeconomisti – perchè ormai di economia parla e scrive chiunque “dati alla mano”) per ogni sorta di distinguo. Ed infine la solita narrazione meridionalista dell’invito a maggiore spesa pubblica e rinnovare una vetero questione meridionale, per la verità una delle tante questioni mai discusse sul serio, mai affrontate storicamente e rimaste senza responsabilità (siano esse stroriche o politiche).
La storia parte da lontano, e vede un Piemonte neo-industriale indebitato sino all’osso e sull’orlo del fallimento che si fa pilota del processo di unificazione. Un sud dalle casse ricche da annettere e arretratissimo, ma con molte braccia disponibili e vasti latifondi. Perchè parliamo di oltre un secolo e mezzo fa oggi? Per avanzar crediti? No. Perchè sostanzialmente in questo secolo e mezzo non è cambiato molto.
Si è fatta l’Italia ma mai gli italiani. Il sud è rimasto prevalentemente agricolo o legato al terziario. Il nord prima del fascismo, durante, dopo, e durante il boom economico è cresciuto grazie a tanti immigrati spesso a basso costo che lasciavanno paesi e campagne per lavorare in fabbrica.
Una emigraziazione che ha generato economia. Case, arredamenti, bisogni di ogni giorno. Città e distretti del nord che decuplicavano.
Ma nemmeno questo è stato “il problema del sud”.
Invenzioni come la Cassa per il Mezzogiorno, molte iniziative dell’IRI, le “mega opere”, l’industrializzazione industriale, sono stati tutti contenitori che davano denari per creare aziende che diventavano clienti di aziende del nord, per poi essere acquisite, spesso chiuse, smembrate, quando i fondi pubblici finivano.
Quello che i rapporti non dicono è che ogni azienda del nord che ha “investito” al sud ha ricevuto una media di sovvenzione pubblica di “fondi per il sud” pari a 1,4 volte l’investimento. E nell’80% dei casi l’investimento non ha superato i cinque anni.
Quando invece le cose andavano bene e le aziende del sud “funzionavano”, arrivavano altri imprenditori che accedevano al credito a tassi molto inferiori, acquisivano, e spesso chiudevano.
Praticamente tutti gli appalti per le grandi opere (dalla Salerno-Reggio, all’alta velocità, alla costruzione di aeroporti, strade etc) sono tutti affidati ad aziende settentrionali, che puntualente frammentavano l’appalto e lo dividevano tra piccole imprese locali, che non avevano alcuna chance di crescere. Il che in sé non è un crimine se non fosse che questo non fa si che ci sia sviluppo, e se non fosse grandi aziende (Impregilo, Caltagirone, Ansaldo, Italcementi etc etc etc) pagavano le “imposte regionali” altrove. Anche questo è denaro sotratto al sud.
Il non detto però della politica – sia quella che si affanna a dichiararsi meridionalista, sia quella che “è contro un sud sprecone e mal governato”, sia quella del “si però noi abbiamo fatto…” – è che dall’unità d’Italia in poi il sud non ha mai avuto autonomia nella selezione della sua classe dirigente.
Dalle leggi della destra e sinistra storica – in cui votava il 4% della popolazione, ma che per reddito e istruzione al sud toccava l’1%. Una piccola pattuglia di meridionali spesso “corrotta” dal potere del governo, che faceva da stampella ai giolittismi. Nulla che non si è ripetuto con la DC post-fascista o col pentapartito, in cui una pioggia di denaro finanziava un certo potere, una certa politica ed una certa classe dirigente che – eletta al sud – guardava agli appalti come occasione di vantaggio economico e di potere e non come occasione di uno sviluppo che – se reale – non conveniva a nessuno.
Perchè è questa la chiave: un sud autonomo, che cresceva, che si dotava di infrastrutture, che arricchiva con quei soldi le proprie aziende, che potevano crescere e competere, che avrebbero riempito le casse dei propri enti locali… era qualcosa che non conveniva alla politica del voto facile e clientelate ed alle imprese dell’appalto pubblico vinto grazie alla corruttela (di cui tangentopoli è stata solo l’iceberg).
Perchè le elezioni (grazie alla sua percentuale di popolazione) si vincono al sud, e quindi “serve” tenere il sud alle dipendenze della politica. Da sempre.
Le cose non cambiano con la seconda repubblica, e vanno peggio con leggi elettorali che consegnano liste chiuse di eletti e collegi sicuri nelle mani di politici settentrionali che – novelli meridionalisti che non verrebbero eletti in casa propria – vengono a prendersi scanni parlamentari nel mezzogiorno. Modestamente è prassi bipartisan. Basta consultare le liste e gli eletti.
Quello che radiografa lo Svimez non è “uno stato di cose statico”, ma il risultato aritmetico delle conseguenze di quelle scelte politiche ed economiche.
Scelte che sul medio e lungo periodo non hanno fatto bene nemmeno al Nord, perchè se “impoverisci” una così ampia fetta di popolazione, il risultato che ottineni è il crollo del mercato interno nazionale. E questo è un fatto.
Se aumenti a dismisura la spesa publica senza ottenere risultati strategici, e se le imprese del sud non finanziano le proprie regioni, ottieni solo un impoverimento e indebitamento generale, non certo benessere locale nè localizzato.
Ma le strategie di lungo periodo non hanno mai interessato politici miopi interessati solo alla propria personale elezione alla legislatura successiva. E questo rapporto, come infiniti altri, non fanno che dire numericamente quella politica cosa ha prodotto. Ma anche tendenzialmente cosa sta producendo e dove sta andando.
E allora di cosa ha bisogno il sud per crescere e uscire da questo quadro economico?
Di poco, pochissimo. Ma che è al contempo un’impresa titanica.
Al sud devono candidarsi politici del sud. Devono avere una fedina penale immacolata e nemmeno l’ombra di una collusione o di un conflitto di interessi. E questo è lo sforzo titanico che deve riguardare i partiti politici, ma soprattutto i cittadini.
Solo dopo aver fatto questo, al sud occorre che i soldi destinati al sud siano spesi con imprese appaltanti e imprenditori del sud. E se non ci sono imprese abbastanza grandi, si creino i consorzi obbligatori.
Infine occorre una revisione dei criteri di ssegnazione dei fondi di sviluppo: non in base a quanto presuntamente investi o al numero di occupati “a tempo”, ma in base a quanto produci ed in proporzione al fatturato ed alla produttività.
Infine, che i fondi europei per lo sviluppo regionale siano destinati solo ed esclusivamente ad opere di lungo periodo, a infrastrutture strategiche, ad una programmazione di sviluppo pluri regionale. Perchè solo così questi denari non verranno usati per logiche dettate dai tempi elettorali e tendenzialmente usati per una strategia di crescita di lungo periodo.
Fare queste cose non costa un solo euro in più a nessuno. Ma rischia di toglierne molti dale tasche sbagliate per metterli nelle tasche giuste. E questo – se tutti serenamente ma mai arrendevolmente ci riflettiamo – è banalmente quello che la nostrav classe dirigente – nazionale – non può permettersi.
Ed è questa in definitiva la vera povertà del sud , e in definitiva di tutta l’Italia.
Dal 2000 al 2013 il Sud è cresciuto del 13% la metà della Grecia che ha segnato +24%: oltre 40 punti percentuali in meno della media delle regioni Convergenza dell’Europa a 28 (+53,6%)”. Lo Svimez sottolinea anche che, nel periodo, l’Italia nel suo complesso è stato il Paese con meno crescita dell’area euro a 18 con il +20,6% a fronte di una media del 37,3%.
Dal 2008 al 2014 il settore manifatturiero al Sud ha infatti perso il 34,8% del proprio prodotto , contro un calo nazionale del 16,7% e ha più che dimezzato gli investimenti (-59,3%), tanto che nel 2014 la quota del valore aggiunto manifatturiero sul Pil è stata pari al Sud solo all’8%, ben lontano dal 17,9% del Centro-Nord. Dato che fa il paio con la caduta delle esportazioni che in nel Centro-Nord salgono del 3% e al Sud crollano del 4,8%. Il Sud sconta inoltre un forte calo sia dei consumi interni che degli investimenti industriali. I consumi delle famiglie meridionali sono infatti ancora in discesa, arrivando a ridursi nel 2014 dello 0,4%, a fronte di un aumento del +0,6% nelle regioni del Centro-Nord. Se si guarda dall’inizio della crisi al Sud i consumi sono scesi del 13,2%, oltre il doppio che nel resto del paese. Anche peggiore la situazione degli investimenti che nel 2014 scendono di un ulteriore 4%, portando il dato dal 2008 a un calo del 38%, con picchi del 59% per l’industria, del 47% per le costruzioni e del 38% nell’agricoltura. Non è immune dal crollo nemmeno la spesa pubblica.
A livello nazionale dal 2001 al 2013 la spesa pubblica in conto capitale è infatti diminuita di oltre 17,3 miliardi di euro da 63,7 miliardi a 46,3 ma al Sud il calo è stato di 9,9 da 25,7 a 15,8. Scendono soprattutto al Sud i trasferimenti in conto capitale a favore delle imprese pubbliche e private: tra il 2001 e il 2013 si è registrato un calo del 52%, pari a oltre 6,2 miliardi di euro.
”Un Paese diviso e diseguale, dove il Sud è la deriva e scivola sempre più nell’arretramento: nel 2014 per il settimo anno consecutivo il Pil del Mezzogiorno è ancora negativo (-1,3%) e il Pil pro capite tra Centro-Nord e Sud nel 2014 ha toccato il punto più basso degli ultimi 15 anni, con il 53,7%”.
In termini di Pil pro capite, il Mezzogiorno nel 2014 è sceso al 53,7% del valore nazionale, un risultato mai registrato dal 2000 in poi. Lo scorso anno infatti quasi il 62% dei meridionali ha guadagnato meno di 12 mila euro annui, contro il 28,5% del Centro-Nord. Nel dettaglio a livello nazionale, il Pil è stato di 26.585 euro, risultante dalla media tra i 31.586 euro del Centro-Nord e i 16.976 del Mezzogiorno.
A livello di regioni il divario tra la più ricca, Trentino Alto-Adige con oltre 37 mila euro, e la più povera, la Calabria con poco meno di 16 mila euro, è stato di quasi 22 mila euro, in crescita di 4 mila euro in un solo anno. Tutto questo si riflette nel rischio povertà che coinvolge una persona su tre al Sud e solo una su dieci al Nord. La regione italiana con il più alto rischio di povertà è la Sicilia (41,8%), seguita dalla Campania (37,7%) ma in generale al Sud è aumentata rispetto al 2011 del 2,2% contro il +1,1% del Centro-Nord.
”Nel 2014 al Sud si sono registrate solo 174 mila nascite, livello al minimo storico registrato oltre 150 anni fa, durante l’Unità d’Italia: il Sud sarà interessato nei prossimi anni da un stravolgimento demografico, uno tsunami dalle conseguenze imprevedibili”. Sono le previsioni contenute nel Rapporto Svimez sull’economia del Mezzogiorno 2015.
”Il numero degli occupati nel Mezzogiorno, ancora in calo nel 2014, arriva a 5,8 milioni, il livello più basso almeno dal 1977, anno di inizio delle serie storiche Istat”. Lo Svimez sottolinea che il prezzo più alto è pagato da donne e giovani.
Infine dal rapporto Svimez emerge il rischio povertà coinvolge una persona su tre al Sud e solo una su dieci al Nord. La regione italiana con il più alto rischio di povertà è la Sicilia (41,8%), seguita dalla Campania (37,7%) ma in generale al Sud è aumentata rispetto al 2011 del 2,2% contro il +1,1% del Centro-Nord.