Dove sta andando il cinema italiano? Quale futuro si prospetta? Non vuole quest’articolo certo essere un’imbolsita commemorazione della fu commedia all’italiana di Monicelli o del neo realismo di De Sica. Caro lei, quando c’era lui (un cinema italiano fiorente, competitivo, degno di questo nome).
Crogiolarsi nel ricordo del passato è una patologia da cui l’italiano dovrebbe sempre sfuggire, in tutti gli ambiti, ed anzi tanto maggiore fu il lustro, tanto più alta dovrebbe essere l’aspettativa sul futuro. Ora, noi siamo il nostro presente, cioè cinematograficamente parlando, pochino.
Quanto sarebbe accomodante e tristemente appagante la consapevolezza che nel cinema italiano manchi il talento, la preparazione tecnico-teorica, la spinta creativa. Il fatto è che “purtroppo”, siamo pieni di registi talentuosi, visionari direttori della fotografia, sceneggiatori di razza e ottimi tecnici. Quello che manca è la capacità di investire sulla strada meno battuta, osare di realizzare qualcosa che non sia accomodante per il pubblico. Puntare sui giovani talenti, sulle idee originali.
Il pubblico italiano premia il cinema americano e le serie televisive, (divenute a volte giganteschi fenomeni di pop-culture) che sanno osare. E anche quelle italiane, quando sono all’altezza. Il caso di Gomorra – La serie è uno su tutti. Il buon prodotto audiovisivo, ben fatto e ben promosso, è un investimento fruttuoso. In un momento in cui la commedia demenziale è in ribasso, e le feste natalizie non fanno più rima con cinepanettone, c’è bisogno che i produttori italiani colgano il momento storico con intelligenza e prontezza, anche a fronte di una continua erosione del Fondo Unico per lo Spettacolo.
In Inghilterra, per non citare ancora i giustamente superblasonati USA, esiste una struttura industriale cinematografica molto ferrea, una filiera che comincia con le scuole di cinema e confluisce spesso in un lavoro nel settore.
Lo studio della settima arte, che è sempre, bisogna dirlo, scelta coraggiosa e senza sicurezze, non apre le porte ad un baratro di incertezze e rimpianti per gli studi di giurisprudenza snobbati, ma confluisce molto più agilmente che in Italia nella Industry, per dare linfa ad un ventaglio di offerta audiovisiva molto ampia. L’anglofonia è certamente una carta vincente, non c’è dubbio, ma ci pensa il mercato francese a ricordarci che non è l’unica via percorribile per creare una struttura che guarda anche oltre ai confini nostrani.
Ha scritto Don Serafini, direttore di America Oggi, “Si dice che il cinema italiano non si può vendere all’estero. E’ una scusa. Gli americani vendono ghiaccio agli eschimesi non perché sia migliore del loro, ma perché lo sanno presentare. Infatti, il 25% del costo dei film va speso nella promozione. Le industrie italiane della moda, degli alimentari e dell’arredamento affrontano all’estero una concorrenza spietata, eppure riescono a vendere grazie alla loro abilità di marketing”.
Quello che occorre è una presa di coscienza vera di come il mercato si sta evolvendo, di come la richiesta si stia raffinando, di come l’asticella venga posta sempre più in alto. Il fascino della maniera “all’italiana” non è tramontato, e se usato con intelligenza è un’ arma vincente.
Lo sa bene Sorrentino, che vince gli Academy Awards con La Grande Bellezza, non certo il suo miglior lavoro (seppur sicuramente ispirato, a dispetto della critica facilona disfattista che lo ha pesantemente deprezzato); lo sanno bene Salvatores, Garrone, Tornatore. Essere piccoli, provinciali, e insieme universali è possibile. Per il cinema italiano, dovrebbe essere una vocazione.