Si è spento ieri all’età di 92 anni André Courrèges, designer che rivoluzionò la moda degli anni Sessanta. Allievo di Cristobal Balenciaga, la sua è stata una carriera leggendaria che lo ha portato a brillare nel firmamento della moda internazionale, accanto a nomi del calibro di Pierre Cardin, Mary Quant, Paco Rabanne.
Pioniere dello stile spaziale che caratterizzò la moda degli Swinging Sixties, è considerato l’ideatore della minigonna, capo che rivoluzionò il guardaroba femminile, la cui paternità risulta ancora oggi contesa tra lui e Mary Quant. Visionario, rivoluzionario, audace, il suo stile era proiettato verso un futuro robotico e spaziale, tra suggestioni optical, arditi giochi geometrici e quel mood da space-oddities che trova in Courrèges sublime esponente. Amatissimo da Jackie Kennedy, Gianni e Marella Agnelli, vestì Audrey Hepburn e Françoise Hardy.
Nato a Pau il 9 marzo 1923, figlio di un maggiordomo, dopo aver conseguito una laurea in ingegneria civile prende parte alla Seconda Guerra Mondiale come pilota di aerei ma il suo sogno è la moda. Nel 1949 viene assunto da Balenciaga come tagliatore, lavoro che porta avanti per oltre 11 anni. Nel 1963 inaugura il proprio atelier insieme alla moglie Coqueline Barrière. La concorrenza è alta, e se porta il nome di Coco Chanel il gioco si fa davvero duro: mademoiselle Coco si erge a roccaforte di quella femminilità che a suo dire Courrèges sarebbe reo di aver sottratto alle donne. Lui dal canto suo si difende puntualizzando quanto il suo stile futurista ringiovanisca quelle stesse donne, liberandole da anni di costrizioni. In breve il couturier si afferma come uno dei nomi più amati dell’alta moda francese.
SFOGLIA LA GALLERY:
Foto di William Klein, 1965
Foto di F.C. Gundlach, 1965
Catherine Deneuve in Courrèges, 1965
Foto di Pierre Boulat, 1965
Simone d’Aillencourt in André Courrèges, 1964, foto di John French
Foto di F.C. Gundlach, 1965
André Courrèges 1965
1968
Il mood space-age caratterizzò le collezioni Courrèges
Astrid Schiller in Courrèges, Parigi 1965, foto di F.C. Gundlach
Foto di John French
Marisa Berenson in Courrèges, foto di Andre Carrara
Armelle Engel in Courrèges
Courrèges fu allievo di Balenciaga
Courrèges per Elle, 1965, foto di Peter Knapp
Foto di Peter Knapp, Courrèges su Elle, 1965
Lo stilista immortalato da Peter Knapp
Modelle in André Courrèges
Simone d’Aillencourt in Courrèges, Parigi 4 febbraio 1965, Eskimo Collection, foto di Richard Avedon
Tilly Tizzani in Courrèges, 1962, foto di William Klein
Lo stilista con i suoi celebri occhiali Lunettes
Cappotto Courrèges
Oblò su abiti a trapezio
Fiori e oblò
Collezione 1968/’69
Vogue 1972
Diana Ross in André Courrèges fotografata da Bert Stern
4.1.1
Life Magazine, 1965
Life Magazine, 1965
Ina Balke in Courrèges, 1965
Jean Shrimpton in Courrèges, Harper’s Bazaar Aprile 1965, foto di Avedon
Astrid Heeren in Courrèges, 1963, foto di Philippe Pottier
Foto di F.C. Gundlach, 1965
1965, foto di F.C. Gundlach
Melanie Hampshire in Courrèges, Harper’s Bazaar, 1965 foto di Melvin Sokolsky
Catherine Deneuve in André Courrèges, foto di David Bailey per Vogue Paris
1965, foto di F.C. Gundlach
Courrèges su L’Officiel Magazine 1969
Foto di John French, 1964
L’Officiel, 1969
L’Officiel, 1969
Il suo stile è inconfondibile: le linee essenziali e pulite, il minimalismo degli abitini a trapezio, le gonne in vinile, indossate con il pullover e i celebri go-go-boots, innovativi stivali con tacco basso, perfetti per slanciare le gambe. Il bianco, alternato alle stampe otpical e alle righe, il trionfo dell’argento, per una donna siderale. Le sue collezioni futuriste e ultramoderne non temono la sperimentazione più ardita e l’uso di materiali inusuali, come il PVC, il vinile, il crochet. Le sue mannequin incarnano il mito della conquista dello spazio, tra stelle e galassie stilizzate, mentre oblò fanno capolino da little dress. Uno stile che molti definiscono “automobilistico”, per le cromie e i materiali usati, ma anche per l’energia e lo sprint che lo caratterizza. Il mood dei défilé di Courrèges sembra preso in prestito direttamente da film come 2001: Odissea nello Spazio di Stanley Kubrick. Filmati girati in location parigine con mannequin che sembrano quasi creature aliene.
Nel 1972 realizza le divise per le Olimpiadi di Monaco. Dagli anni Settanta firma anche accessori, tra cui i celebri occhiali da sole Lunettes Eskimo, lanciati sul mercato nel 1965, ma anche ombrelli, gioielli, profumi, capi per l’infanzia e abiti da sposa. Nel 1984 si trasferisce a Tokyo. Nel 1994 il ritiro, a cause della battaglia più dura, contro il morbo di Parkinson. Courrèges, ormai stanco e malato, cede il brand che porta il suo nome al gruppo giapponese Itokin. Ieri lo stilista si è spento nella sua abitazione di Parigi. Lo ha ricordato oggi il presidente francese François Hollande. Con lui sparisce un tassello fondamentale della storia del costume e uno dei designer più originali di sempre.
Ci sono nomi che, oltre ad aver reso la moda italiana famosa in tutto il mondo, le hanno conferito una magia ed uno charme talmente unici ed irripetibili da essere ricordati in eterno. La storia di Emilio Pucci è ricca di nobiltà e di avventura, sullo sfondo di una Firenze patrizia fino alla conquista degli States e all’affermazione della maison italiana nel mondo.
Emilio Pucci, marchese di Barsento, nacque a Napoli il 20 novembre 1914 dalla nobile famiglia fiorentina dei Pucci. Provetto sciatore, nel 1934 viene selezionato dalla squadra nazionale olimpica italiana di sci e partecipa alle Olimpiadi invernali del 1936.
Il giovane Emilio coltiva la passione per lo sci e per la pittura. Dopo aver vinto una borsa di studio presso il Reed College, nell’Oregon, dove avrebbe dovuto continuare i suoi allenamenti nello sci, sorprende tutti disegnando l’uniforme della squadra. I suoi primi bozzetti nascono così, in modo del tutto spontaneo e casuale, ma rivelano un genio ed un estro sorprendenti.
Dopo aver concluso un master in scienze sociali negli States, l’eclettico aristocratico non torna in Italia ma si imbarca su una vecchia nave e parte per un improvvisato giro del mondo, impresa che paga cara al suo rientro in patria, dove viene accusato dalle autorità militari di renitenza alla leva.
Prima di avvicinarsi alla moda il marchese fu un grande sportivo: dopo essersi arruolato nella Regia Aeronautica nel 1938, lavorò come istruttore di sci al Sestriere. Rientrato nella sua Firenze, avviene l’incontro che segna la sua vita, con la moda, di cui l’inconsapevole designer cambierà il corso. Anche in questo campo, la fortuna di Emilio Pucci proviene ancora una volta dal mondo dello sport, oltre che da un indescrivibile talento come disegnatore di bozzetti: dopo aver creato, quasi per gioco, una tenuta da sci per un’amica, nel 1947, viene immortalato con quest’ultima dalla fotografa di moda Toni Frissell sul numero di dicembre di Harper’s Bazaar. Quella tuta da sci improvvisata dai colori fluo colpisce l’attenzione dei media e diventa must have ante litteram della moda invernale.
L’aristocratico dal gusto innato viene incoraggiato dall’inaspettato successo a proseguire sulla strada della moda: è Capri la location scelta per aprire la sua prima boutique, nel 1950. La personalità e l’originalità pagano sempre, e quei colori brillanti su stampe dai motivi così particolari rappresentano fin da subito qualcosa di assolutamente inedito nel panorama della moda italiana e mondiale. Pioniere della moda italiana e perspicace trendsetter, il marchese partecipa l’anno seguente, nel febbraio del 1951, alla prima sfilata di moda mai organizzata in Italia, realizzata grazie a Giovanni Battista Giorgini a Firenze, nella mirabile location di Villa Torrigiani.
Emilio Pucci si impone in brevissimo tempo come uno dei protagonisti più amati delle passerelle fiorentine. Le sue creazioni, dalle fantasie optical e dalle cromie esplosive, unite alla cura nella scelta di tessuti pregiati, sdoganano in breve lo stilista anche all’estero: “The Prince of Prints”, il principe delle stampe, è il nome assegnatogli dalla stampa anglosassone. Nel 1954 avviene una prima consacrazione ufficiale in America, con l’assegnazione del prestigioso Neiman-Marcus Award. Mentre la moda guarda sempre più a Parigi, all’Haute Couture di nomi come Christian Dior e al suo New Look dal gusto classico, Emilio Pucci crea una nuova concezione dello stile, che privilegia la comodità e le stampe.
Capostipite di quello che oggi viene chiamato Sportswear, la libertà sembra essere ciò che più gli preme, per capi drappeggiati e morbidi in tessuti come la seta, l’organza, la gabardine e la mussoline. Definito da Giovanni Sartori “un grande cavaliere antico”, Pucci scglie come suo quartier generale per la sua casa di moda Palazzo Pucci in via de’ Pucci: è la sua Firenze ad ispirarlo, e l’antico palazzo nobiliare è ancora oggi sede della maison. Suggestive e pregne di un gusto indimenticabile, le foto scattate sul tetto del palazzo di famiglia, forse simbolo per antonomasia del gusto del marchese e della sua visione dell’eleganza. Innumerevoli saranno le modelle ad indossare capi Emilio Pucci: celebri le foto scattate da Henry Clarke e Gian Paolo Barbieri, con modelle del calibro di Marisa Berenson e Benedetta Barzini, solo per citarne alcune. Tute dal sapore etnico, pigiama palazzo che ricordano l’Oriente, e ancora turbanti e dettagli che profumano di terre lontane: lo stile Emilio Pucci affascina con un mix di storia e ricercatezza, per capi sofisticati come pochi.
Dopo aver brevettato nel 1960 “emilioform”, un tessuto leggero composto da helanca mixata a shantung di seta, nel 1966 Pucci lanciò il suo primo profumo, Vivara. Nel 1956 creò una delle sue collezioni più celebri, ispirata alla Sicilia, rappresentata mirabilmente da indimenticabili scatti ambientati a Monreale; l’anno seguente fu il Palio di Siena ad ispirarlo, e nel 1959 le opere del Botticelli. Nel 1967 portò le sue sfilate nel palazzo di famiglia, e nello stesso periodo disegnò le uniformi per le hostess della Braniff International Airways. Avanti rispetto ai tempi, la collezione, denominata Gemini 4, vede un mood da space oddity, ed è seguita dalla creazione del logo per la missione speciale della NASA denominata Apollo 15. In Italia disegnò le divise dei Vigli urbani, con i fatidici elmetti ovali sulla divisa blu dai lunghi guanti bianchi: inoltre si dilettò con la moda maschile, con la creazione di fragranze e con la produzione di ceramiche per la casa.
I capi colorati di Emilio Pucci andarono letteralmente a ruba nei grandi magazzini Saks, dando origine ad una vera e propria Puccimania. Un gusto innato per il colore ed una capacità unica come disegnatore, le sue creazioni avevano un quid che le differenziava da tutte le altre: l’allegria ed un approccio artistico alla moda, nella sua ricerca certosina per la creazione di stampe originali.
Durante la Seconda Guerra Mondiale Emilio Pucci fu ufficiale dell’Aviazione, pluridecorato con tre Medaglie d’argento al valor militare, sette di Bronzo e tre Croci di guerra al valor militare. Personalità eclettica, negli Sessanta il marchese decise di entrare in politica, col partito liberale e fu nominato Sottosegretario al Ministero dei Trasporti. Il 4 giugno del 1982 fu nominato Cavaliere del Lavoro. Il 29 novembre del 1992 il marchese si spense nella sua amata Firenze, all’età di 78 anni.
Dopo la sua scomparsa la figlia Laudomia ha ereditato la direzione del marchio, di cui ancora oggi cura l’immagine generale. Nel 1996 una grande mostra in onore del marchese è stata allestita a Pitti, mentre il suo talento così unico è stato al centro di un volume edito da Taschen. Nel 2000 il gruppo francese LVMH (Louis Vuitton) ha acquistato i diritti sul logo Emilio Pucci e sulle creazioni storiche, rendendosi protagonista di un rilancio del brand gestito in modo sapiente: è solo dalla celebrazione del glorioso passato della maison che si può ripartire, rivisitandone modelli e motivi per declinarli in collezioni nuove facendo rivivere la magnificenza dello stile Pucci nella contemporaneità. La storica maison ha visto alternarsi alla sua direzione creativa numerosi designer, da Stephan Janson e Julio Espada a Christian Lacroix, da Matthew Williamson a Peter Dundas, fino all’attuale direttore creativo Massimo Giorgetti. Con oltre 50 boutique nelle località più esclusive del mondo e un fatturato calcolato tra Italia, Stati Uniti e Giappone, la maison è ancora oggi simbolo di un’incomparabile eleganza.
Dissacrante, geometrica e iperbolica, la collezione proposta da Prada per la Primavera/Estate 2016 strizza l’occhio al passato, rivisitando un capo principe del guardaroba femminile ed evergreen quale è il tailleur.
Suggestioni anni Cinquanta nel mood bon ton da signore perbene, ma i materiali e i giochi cromatici svelano il contrario. Omaggio ai Sixties nelle stampe optical, nelle righe e nelle ardite geometrie per tailleur a trapezio e capispalla verniciati.
Un look da segretaria chic per gonne trasparenti e ricamate, decorate con macro paillettes. Astrakan, pelle, camoscio, vernice e coccodrillo regnano mentre gli accessori sembrano tranquilli ma rivelano arditi schemi post-atomici. Plastificati, metallizzati e geometrici gli spolverini, pitonate le handbag.
Un post classico rivisitato per un concetto di stile mirabilmente orchestrato da Miuccia Prada in un gioco che nulla lascia al caso: un capo classico per antonomasia come la giacca con la martingala viene riproposto in chiave 2.0. La gonna bon ton si arricchisce di note 3D.
Un sovvertimento dei codici dell’eleganza classica per un viaggio in una nuova dimensione futurista ma con classe: è una donna che non rinuncia alla propria femminilità, tra spolverini geometrici e labbra metallizzate. Per una moda che riscopre i valori del passato pur essendo proiettata nel futuro.
Le passerelle per l’Autunno/Inverno 2015-2016 ci hanno fatto sognare, proponendo tanti stili e tendenze diverse da cui trarre ispirazione nella scelta del nostro guardaroba.
Tanti sono i look da imitare e a volte ci si può riuscire anche senza avere un enorme budget a disposizione. Inoltrandoci nei trend per la stagione A/I, protagonista è il moodboho-chic, brillantemente proposto da Burberry Prorsum, in una collezione di netta ispirazione Seventies. Largo a maxi abiti a stampe floreali e paisley, come il lungo abito rosso in stampa patchwork.
Un look simile si può ottenere anche con un mini budget: tanti sono i brand che hanno abbracciato la tendenza bohémien, a partire da Band of Gypsies, che propone un lungo chemisier a listini patchwork con inserti paisley mixati a stampa floreale. Un look di grande impatto, perfetto per il giorno e per la sera, a seconda degli accessori da abbinare. Che si tratti di sandali rasoterra o tacchi alti a listini, si può ultimare lo styling con un cappello a tesa larga e una borsa con le frange, in perfetto mood gipsy.
Ironiche, divertenti e colorate sono le stampe cartoon, portate alla ribalta da Moschino, in una collezione all’insegna dell’ironia: full immersion nel colore, intriso di suggestioni Eighties, tra maxi bomber a colori fluo. Le felpe con i personaggi dei cartoon sono un nuovo fashion trend, che si può facilmente imitare. Ci si può sbizzarrire nella scelta, che si tratti dei Loonie Tunes o dei personaggi Disney. Da abbinare a jeans e sneakers o ad una gonna di paillettes, per un look ancora più eclettico.
Ritorna il mood boho-chic da Roberto Cavalli, che propone maxi dress stile caftano, da abbinare a gioielli ed accessori etnici. Bellissimo e low budget l’abito giallo proposto da ASOS. Il brand inglese Missguided propone diversi look in stile Festival, perfettamente in linea con le tendenze attuali. Per un look da gitane di lusso.
Incontrastato must have di stagione per l’autunno/inverno è il poncho, declinato in tutte le varianti: sofisticato e caldo, per contrastare le rigide temperature invernali, il poncho è un capo irrinunciabile del guardaroba femminile. Motivi aztechi o stampe floreali hanno calcato le passerelle e sono state riproposte da diversi brand.
Un tuffo negli anni Sessanta ha caratterizzato le collezioni di diversi designer, che hanno proposto deliziosi shift dresses, in stampe optical. Suggestioni tratte dalla Swinging London nel modello DAKS. Un capo irrinunciabile del guardaroba invernale è il fur coat o pelliccia, che dir si voglia. La moda impone proporzioni oversize e bicromie, come visto da Emilio Pucci. Un evergreen irrinunciabile.
È la modella che ha rivoluzionato il concetto di bellezza. La più fotografata e la più amata in assoluto. Dopo aver segnato un’epoca col suo volto, Twiggy spegne 66 candeline. Una carriera sfavillante, iniziata per caso, fino a divenire icona quasi mitologica degli anni Sessanta. Figlia di quella Swinging London che ne ha forgiato lo stile, Twiggy ha incarnato lo spirito di quegli anni.
Nata a Neasden, un sobborgo di Londra, il 19 settembre del 1949, Lesley Hornby -questo il suo vero nome- è una ragazza gracile e dai lineamenti fanciulleschi. Assai diversa dallo standard allora vigente, che identifica la bellezza in donne dal fisico meno acerbo, l’appena sedicenne Lesley viene notata dal fotografo di moda Justin de Villeneuve, mentre lavora in un parrucchiere.
Tra i due nasce un rapporto sentimentale e lavorativo: Villeneuve ha fiuto e intuisce subito che quel viso così grazioso ha una marcia in più. Dopo esserne diventato il manager, è lui stesso a lanciare la ragazza e a scegliere per lei il soprannome di Twiggy, letteralmente “grissino”, un esplicito riferimento alla sua magrezza adolescenziale.
Basta fare circolare qualche foto della ragazza e tutto ha inizio: quel volto così particolare ben si addice al fermento rivoluzionario della Londra di quegli anni. Grandi occhi da cerbiatto, sguardo innocente e sorriso spontaneo su gambe nervose, Twiggy emana una freschezza che incanta tanto la gente comune quanto gli addetti ai lavori della moda. In appena un anno la modella grissino diviene una star. Le ciglia finte e il make up disegnato ad esaltare gli immensi occhioni, gli abitini a trapezio e le minigonne: il suo stile incarna l’anima più swing degli anni Sessanta. Idolatrata, imitata e ambita dai designer inglesi e non, viene nominata dal Daily Express“Il volto del ’66”.
Successivamente diventa il volto di brand del calibro di Biba e Mary Quant, che la sceglie come testimonial della sua celebre minigonna. Una rivoluzione dentro la rivoluzione: sullo sfondo della liberazione dei costumi si consuma un altro epocale cambiamento, per cui il concetto standard di bellezza e femminilità vigente viene completamente stravolto dal candore della nuova icona: Twiggy è la prima modella a rappresentare una nuova donna, giovane e gioiosa.
Compiuti i diciotto anni, Twiggy rompe la relazione sentimentale con Villeneuve. La sua fama è ormai mondiale, tutti la acclamano e nuove occasioni si profilano presto all’orizzonte. Parallelamente al lavoro di modella, Twiggy compare in alcuni film, come “Il Boyfriend”, di Ken Russell (1971). Per il suo ruolo vince due Golden Globe. Nello stesso tempo inizia ad incidere dei cd, con un discreto successo: tra i generi prediletti dalla nuova pop star troviamo il rock, il pop, la musica disco e country. Ormai divenuta un personaggio, posa accanto a David Bowie per la copertina del suo album “Pin Ups”, nel 1973. Dal celebre film “The Blues Brothers” fino ad un cameo all’interno del Muppet Show, il volto di Twiggy diviene emblema di un secolo.
La sua carriera, variegata e in continua evoluzione, la vede presentatrice televisiva negli anni Novanta, con un suo show, “Twiggy’s People”, dove intervista personalità del calibro di Dustin Hoffman, Lauren Bacall e Tom Jones. Nel 2005 torna a posare come modella e diviene il volto di Marks & Spencer. Inoltre è stata giudice di America’s Next Top Model dalla quinta alla nona stagione, celebre show televisivo condotto da Tyra Banks.
Tanti auguri ad un mito vivente.
Il nome di Biba rappresenta un tassello fondamentale nella moda, dagli anni Sessanta fino ai nostri giorni. Simbolo di uno stile unico, portavoce di una rivoluzione che dalla Swinging London si è allargata a macchia d’olio fino ad entrare nei libri di storia, Biba è stato crocevia di tendenze e fucina artistica.
Biba è Barbara Hulanicki, brillante designer nata a Varsavia nel 1936, acuta osservatrice della realtà circostante. Barbara avverte il fermento culturale della Londra anni Sessanta, e in quest’ambito rientra un nuovo modo di approcciarsi alla moda. Biba nasce come un piccolo negozietto di moda, senza pretese, che viene inaugurato nel settembre 1964 ad Abingdon Road, Kensington, nel cuore di Londra. Da Biba si vendono capi a basso costo che le clienti possono prenotare tramite posta. Sembrerebbe un negozio ordinario, nulla inizialmente lascia supporre che quel brand entrerà invece nella storia della moda, attraversando indenne mezzo secolo.
Un primo traguardo è l’apparizione di un capo Biba sul Daily Mirror: è un abito rosa a quadretti vichy, molto simile ad un modello indossato in quel periodo da Brigitte Bardot. Ma il giorno dopo l’articolo, quello stesso capo riceve oltre 4.000 ordini, e complessivamente saranno venduti oltre 17.000 pezzi dello stesso.
Il primo incontro tra la proprietaria dello store e le clienti vede una coincidenza fortuita: incuriosite da un abito in gessato marrone, un gruppetto di ragazze si affolla davanti agli scatoloni che propongono quel modello ed abiti simili. In realtà il capo si trova lì dentro casualmente, solo perché quegli scatoloni non entrano più nell’abitazione della designer e del marito, Stephen Fitz-Simon. Innamorate di quel vestito, semplicemente perfetto per lo stile anni Sessanta, le clienti si affollano in attesa di un nuovo arrivo dello stesso modello. La prima rivoluzione Biba avviene quindi grazie allo stile della sua fondatrice: la lungimiranza della Hulanicki fece sì che un modello visto in tv il venerdì sera era già disponibile da Biba il sabato mattina. Una moda fruibile e a portata di mano, che andava a rivoluzionare il concetto elitario di stile, fino a quel momento vigente.
La donna di Biba è una donna bambola, dalle lunghe gambe sottili e gli occhi rotondi e dalle lunghe ciglia. D’altronde la donna dell’epoca è appena uscita dalla guerra, è spesso denutrita ma non meno affascinante agli occhi di una designer quale è Barbara Hulanicki. Perfetta testimonial del brand sarà Twiggy, che diventerà nel decennio successivo il volto di Biba. La clientela del negozio comprende teenager e ragazze poco più che ventenni, tra cui spicca una giovanissima Anna Wintour, futura direttrice di Vogue America.
Lo stile di Biba è cupo, quasi funereo, secondo le parole della stessa Barbara Hulanicki: i colori sono scuri, dai contrasti forti. Capo principe è la minigonna, ogni settimana più corta, ad indicare il nuovo trend. Niente è lasciato al caso: il negozio è arredato come un piccolo bazar delle meraviglie, dall’atmosfera particolare ed accattivante. Persino il logo viene studiato dalla Hulanicki, sapiente esperta di marketing, per attrarre: oro e nero si mixano mirabilmente nel progetto di Anthony Little.
Il secondo negozio di Biba apre nel 1965 al numero 19-21 di Kensington Church Street ed è seguito dalla creazione di cataloghi che permettono di ordinare i capi anche senza dover necessariamente recarsi a Londra. Possiamo definire Biba antesignana dello shopping via posta. Il successivo trasloco avviene nel 1969: Biba si sposta a Kensington High Street, in uno spazio precedentemente adibito alla vendita di tappeti. Lo store è già un piccolo capolavoro stilistico: un mix di Art Nouveau e di decadentismo Rock & Roll, con suggestioni glam e un tocco orientale. Biba continua ad ottenere consensi, e non ferma la sua clientela nemmeno un attentato ad opera del gruppo dell’Angry Brigade che si consuma proprio fuori dal negozio, il primo maggio 1971.
Nel 1974 Biba si sposta nuovamente all’interno del department store di Derry & Toms. La nuova sede diviene in breve tempo meta turistica di richiamo mondiale e tappa obbligata per chiunque visiti Londra. Anche questo locale si distingue per lo stile, con un interior design ispirato all’Art Deco che ricorda molto la Golden Age di Hollywood. Biba si estende ora su una superficie immensa e comprende il Biba Food Hall, con omaggi a Warhol, e il Rainbow Restaurant.
Tuttavia la gestione dell’impero Biba diviene ogni giorno più difficoltosa per Barbara Hulanicki e il marito, che riescono a malapena a districarsi tra le difficoltà economiche. Alla fine il marchio viene acquistato per il 75% da Dorothy Perkins e Dennis Day. Nasce in questo contesto Biba Ltd, compagnia che unisce i vecchi e i nuovi proprietari. Ma la Hulanicki non è soddisfatta della gestione del brand e lascia la compagnia poco dopo. Ciò determina la chiusura di Biba, nel 1975. Il marchio viene poi acquistato da un consorzio che non ha alcun legame con la designer: viene aperto un nuovo negozio a Londra, a Mayfair, il 27 novembre 1978. Ma il successo stenta ad arrivare e lo store chiude dopo soli due anni di attività.
Numerosi sono stati i tentativi di riportare in auge lo storico brand, a partire da quello ad opera di Monica Zipper, nella metà degli anni Novanta, fino all’ultimo, nel 2006, ad opera della designer Bella Freud. Tutti tentativi che nulla avevano a che fare con la Hulanicki, spesso all’oscuro di tutto. La prima collezione della Freud sfila nell’ambito della London Fashion Week per la stagione P/E 2007 ma viene aspramente criticata perché, secondo gli addetti ai lavori, di Biba c’è ben poco. Allontanandosi dallo stile originario del brand, che proponeva una moda democratica, la collezione disegnata dalla Freud sembra indirizzata ad un pubblico molto elitario. Biba -così come la conoscevano ed apprezzavano milioni di ragazze- sembra non esistere più e ciò porta ad un nuovo insuccesso: la Freud lascia la compagnia dopo appena due stagioni.
Nel 2009 è la volta di House of Fraser, che tenta di rilanciare il brand in grande stile, scegliendo come testimonial la modella britannica Daisy Lowe. Per tutta risposta la Hulanicki nello stesso anno disegna una linea per Topshop, marchio rivale. La designer si dice ancora una volta amareggiata per la politica scelta per il rilancio del suo storico brand, che si allontana nuovamente dal concetto primigenio che auspicava una moda democratica. Ma House of Fraser intuisce il segreto per far funzionare il marchio: Biba non può vivere senza la sua creatrice, forse l’unica nel corso degli anni e delle innumerevoli vicissitudini attraversate dal marchio, ad aver saputo conferirirgli un’identità forte e uno stile intramontabile.
Finalmente nel 2014 la Hulanicki torna a casa, in veste di consulente per House of Fraser. Il successo è clamoroso: ritornano le citazioni anni Sessanta nelle stampe, nelle linee e nella scelta dei tessuti. Cromie optical e suggestioni glam nei maxi dress per la sera. Nei pezzi di arredamento ritorna il mood boho-chic che ricorda da vicino i leggendari store di Biba, arredati come bazar in Art Nouveau. Una favola a lieto fine.
Nel panorama della moda anni Sessanta una figura unica nel suo genere è stata Irene Galiztine.
Sangue blu nelle vene, Irene nasce nel 1916 a Titflis, nel Caucaso, dalla Principessa Nina Larazeff e da Boris Galitzine, ufficiale della Guardia Imperiale.
Portata a Roma ad appena un anno dalla madre, profuga della Rivoluzione d’Ottobre, viene accolta nella Capitale dai duchi Sforza Cesarini e viene educata come si addice ad una nobildonna: frequenta il famoso Sacro Cuore di Trinità dei Monti, antica e prestigiosa scuola privata dove venivano iscritte le ragazze della Roma bene; successivamente completa la sua formazione studiando Storia dell’arte, sempre a Roma, inglese a Cambridge e francese alla Sorbona.
La giovane Irene, capelli corvini e charme caucasico, è un’esponente di spicco dell’aristocrazia romana ed internazionale. Nel 1945 inizia la sua carriera nella moda, lavorando come indossatrice presso lo storico atelier delle sorelle Fontana, dove cura anche le public relations.
Dopo essere rimasta affascinata dalla moda pagina, nel 1947 apre la propria sartoria, in via Veneto. La principessa veste Balenciaga, Dior, Fath e per il suo atelier compra i modelli direttamente da Parigi.
La sua prima collezione è del 1958 ed è firmata a quattro mani, con il supporto del genio di Federico Forquet: mannequin d’eccezione è la contessa Consuelo Crespi, fashion editor di Vogue US. Inizia così il mito di Irene Galitzine. L’anno seguente sfila con la sua collezione di alta moda P/E negli Stati Uniti d’America e un suo abito nero da cocktail vince il primo di una lunga serie di riconoscimenti.
Ma è nel 1960 che Galitzine entra nella storia della moda, rivoluzionandone i canoni vigenti di eleganza, grazie all’invenzione del pigiama palazzo, che la rende famosa a livello mondiale. Il pigiama palazzo, così denominato da Diana Vreeland, celebre fashion editor di Harper’s Bazaar e Vogue US, è una rivoluzione assoluta: reinterpretando il tradizionale abito da sera, Galitzine abbina ad una blusa dei pantaloni ampi decorati con frange o perline. Il pantalone palazzo, fluido e comodo, segna la nascita di un’eleganza nuova, disinvolta e finalmente senza costrizioni. Il capo simbolo dello stile Irene Galitzine è subito amato dal jet-set internazionale e da Palazzo Pitti il nuovo trend si diffonde oltreoceano, grazie alla Vreeland e alle foto da lei volute, nella prestigiosa location di Palazzo Doria.
Simbolo di un’epoca, la couturière diventa ambasciatrice del Made in Italy con Emilio Pucci. Il suo stile innovativo e femminile, pregno della formazione cosmopolita della designer, miete consensi. La cura nella scelta dei tessuti, unita alle suggestioni etniche delle sue creazioni, rivelano la sua origine russa, mentre l’appeal sofisticato delle sue collezioni svela il suo gusto fortemente influenzato dalla moda francese.
Dopo aver vinto l’Oscar per la moda, Irene crea la linea “Boutique Galitzine- Roma”, in cui sperimenta l’uso di pellicce. Nel 1962 partecipa all’Italian Fashion Show organizzato a Tokyo da Alitalia, in occasione del primo volo della compagnia verso la capitale giapponese. L’anno seguente riceve una missiva da Jacqueline Kennedy, la quale si dice assolutamente entusiasta del suo stile e le chiede dei bozzetti. Invitata alla Casa Bianca, diviene amica sincera della First Lady e con le sue creazioni conquista la sorella di Jackie, Lee Radzwill.
Protagonista della Dolce Vita romana, Galitzine vola poi alla conquista di Hollywood, dove firma i costumi per film come “La caduta dell’impero romano”, con Sophia Loren, e “La pantera rosa”, con Claudia Cardinale.
Tra le sue clienti più affezionate troviamo Marella Agnelli, Audrey Hepburn, Paola del Belgio, Guy de Rotschild, Soraya, la Duchessa di Windsor, Liz Taylor, Merle Oberon, Anna Maria di Grecia e Ira Fürstenberg.
Successivamente è la volta del lancio di una linea di cosmetici, la “Princess Galitzine”, distribuita a New York da Bergdorf Goodman e Saks, seguita dal profumo Irene. Il lancio delle collezioni prêt-à-porter a Roma vede la partecipazione dell’aristocrazia e del jet-set, con una mannequin d’eccezione come Claudia Ruspoli.
Nel 1974 Irene Galitzine viene mominata Cavaliere della Repubblica Italiana. Nel 1988 viene invitata da Raissa Gorbaciova a sfilare a Mosca. Nel 1990 il marchio viene acquistato, dopo due fallimenti, dalla societa Xines, ma Irene continua a disegnare le proprie collezioni.
La celebre designer si spegne a Roma nel 2006, all’età di novant’anni. Nello stesso anno una mostra ne celebra lo stile, mentre i suoi pigiama palazzo fanno parte della collezione permanente di musei come il Metropolitan Museum di New York, il Victoria and Albert Museum di Londra e il Museo del Costume di San Pietroburgo.
Nel gennaio 2013 il marchio è stato affidato a Sergio Zambon, che è riuscito a rilanciare il brand senza snaturarne la personalità, rendendo ancora onore al mitico pigiama palazzo.
“La bellezza di una donna non si esaurisce nei vestiti” è l’insegnamento che la grande couturière ci ha lasciato.
Il fascino dell’Oriente lo aveva nel DNA, essendo nata a Gerusalemme e cresciuta tra Siria e Libano. Una visione unica della moda, vissuta come uno dei più autentici piaceri della vita, unita ad un’esistenza trascorsa all’insegna del cosmopolitismo, Thea Porter è stata colei che ha introdotto lo stile boho-chic nell’Inghilterra degli anni Sessanta.
Dorothea Noelle Naomi Seale nasce il 24 dicembre 1927 a Gerusalemme, in una famiglia di missionari cristiani. Il padre Morris S. Seale è un teologo e la madre una missionaria franco-tunisina.
Cresciuta a Damasco, la giovane Thea sviluppa una predilezione per i tessuti preziosi, che costituiranno la cifra stilistica delle sue creazioni. È in buona parte a lei che dobbiamo le suggestioni orientali sfoggiate nella moda dell’Inghilterra degli anni Sessanta.
Mentre lavora nella biblioteca dell’ambasciata britannica a Beirut conosce Robert Porter, il suo futuro marito. I numerosi viaggi della coppia, tra Giordania, Iran, Italia e Francia, arricchiscono ulteriormente il patrimonio visivo e culturale della giovane Thea, che vive pienamente la rivoluzione di quegli anni, trascorrendo le sue serate nei night club e collezionando stuoli di abiti, come lei stessa ha dichiarato.
Amante della pittura e dell’interior design, dopo la separazione dal marito si trasferisce a Londra, nel maggio del 1964. Qui lavora come interior designer per Elizabeth Eaton e due anni più tardi, nel 1966, inaugura a Soho il suo primo negozio il Thea Porter Decorations Ltd., al numero 8 di Greek Street, indirizzo divenuto celebre grazie a lei.
Thea nel suo negozio vende decorazioni esotiche, monili antichi, tappeti e mobili in stile etnico, rivisitati dal suo gusto e avvolti in stoffe pregiate.
Sono i favolosi Swinging Sixties e Londra, da sempre capitale del melting pot, sviluppa un particolare gusto per l’esotico. Il piccolo negozio di Thea appare quasi come un bazar delle meraviglie e diviene in breve meta prediletta di hippie, musicisti famosi, attori e curiosi di ogni genere.
Ben presto si impone la richiesta da parte della clientela femminile di poter vestire di quelle stoffe così raffinate e particolari, ed è così che Thea diviene designer. I tessuti damascati importati dall’Oriente, i broccati di seta, i velluti di tradizione ottomana, il gusto particolare nel confezionare i capi fanno di Thea Porter l’iniziatrice del boho-chic.
Il capo principe che la rende famosissima in appena un anno è il caftano. La particolare veste, di origine orientale, era stata sdoganata in Inghilterra da Elizabeth Taylor, che aveva indossato un abito di Gina Fratini simile a un caftano per il suo secondo matrimonio con Richard Burton.
Ma nelle creazioni di Thea Porter le suggestioni orientali si mixano ad un modo nuovo di concepire la moda: le stampe indiane, i materiali antichi che sanno di Mediterraneo, il mood gipsy sono elementi che affascinano la Swinging London, che ama vestire esotico e respirare un’aria internazionale. Già nel 1967 la sua attività cresce in modo esponenziale e arriva all’estero, fino alla Grande Mela, grazie all’opera di Diana Vreeland, celebre fashion editor di Harper’s Bazaar, che si innamora perdutamente delle sue creazioni e le dedica copertine e servizi di moda.
Tra i suoi clienti più affezionati ci sono esponenti del jet set internazionale e dell’intellighenzia, come anche teste coronate: da Talitha Getty, che adorava i suoi caftani, a Lauren Bacall, da Bianca Jagger e Mick Jagger a Cat Stevens e Pete Townshend, da Liz Taylor e Barbra Streisand a Baby Jane Holzer e Jutta Laing, da Lady Amanda Harlech alla scrittrice Edna O’Brien, da Veronique Peck alla Principessa Margaret fino alla principessa Inaara Aga Khan.
Thea Porter veste i Beatles e i Pink Floyd e ottiene centinaia di migliaia di cover e di servizi, da Vogue ad Harper’s Bazaar, fino alla conquista di Hollywood.
Il successo è tale che nel 1971 il marchio Thea Porter apre uno store a New York, grazie ai finanziamenti di Michael Butler, il produttore del musical di Broadway “Hair”, e nel 1977 apre un secondo negozio a Parigi.
Anche dopo la chiusura dello store londinese la designer continua ad ottenere consensi, e nel 1986 inizia un’attività con la principessa Dina di Giordania in un negozio più piccolo di nome Arabesque. Da lì in poi si perdono le sue tracce, non senza grande dispiacere da parte di coloro che ne avevano amato lo stile. La stilista muore a Londra il 24 luglio 2000 dopo aver combattuto a lungo con l’Ahlzeimer.
Riconosciuta antesignana della moda hippie chic, venerata post-mortem per le sue creazioni bohémien, che includevano caftano, turbanti, pantaloni a zampa, i capi di Thea Porter costituiscono oggi un’importante fetta di mercato di moda vintage e sono tra i più ambiti dai collezionisti. Capi dal sapore antico e dalle suggestioni folk, amati da celebrities ed icone di stile, come Kate Moss, che ha indossato spesso creazioni vintage di Thea Porter.
Particolarmente costosi, anche in virtù della qualità pregiata dei materiali di fabbricazione, i capi di Thea Porter sono tra i più venduti nelle boutique specializzate in vintage. Inoltre il genio della designer è stato recentemente celebrato a Londra, con una mostra presso il Fashion and Textile Museum che si è conclusa lo scorso maggio.
Il nome di Janice Wainwright forse ai più dirà poco ma le sue creazioni rappresentano un tassello fondamentale nella storia della moda inglese degli anni Sessanta.
Ancora oggi tra i più venduti nelle boutique specializzate in vintage e tra i più ricercati dai collezionisti, i capi di Janice Wainwright sono estremamente suggestivi: stampe più che mai attuali, incredibilmente in linea con le tendenze di oggi, e dalle proporzioni perfette per qualsiasi tipo di fisico.
Nata a Chesterfield nel 1940, la formazione di Janice Wainwright è avvenuta nelle più prestigiose scuole di moda, dalla Wimbledon School of Art alla Kingston School of Art fino alla specializzazione al Royal College of Art di Londra. Dopo la laurea, grazie al supporto finanziario garantitole dalla compagnia di Simon Massey, la stilista poté iniziare a disegnare e produrre la propria linea di abbigliamento.
Il suo stile si distingueva per essere giovane, elegante e femminile. La Wainwright era molto stimata dai suoi colleghi, in primis da Ossie Clark, che le diede il permesso di usare le splendide stampe della moglie Celia Birtwell per il suo lavoro. La Wainwright fu l’unica a godere di tale privilegio all’epoca.
Nel 1968 Janice iniziò a lavorare come freelance e in questo periodo collaborò con Sheridan Barnett. Maturata una notevole esperienza, insieme alla padronanza delle tecniche di marketing, la stilista due anni più tardi, nel 1970, fondò il proprio marchio. Fu così che aprì i battenti la “Janice Wainwright at Forty Seven Poland Street” nei pressi di Oxford Street.
Creazioni in jersey, chiffon e crêpes di seta, vestiti dai tagli sartoriali e glamour. Nel 1974 il nome del marchio venne abbreviato in Janice Wainwright. Durante gli anni Settanta e Ottanta le sue creazioni iniziarono a mostrare dei ricami più intricati e particolari: si trattava perlopiù di abiti lunghi e fluidi, dalle stampe audaci.
Suggestioni etniche e romanticismo nelle trame dei ricami e nei modelli, in cui si respira un gusto retrò di grande impatto visivo. Celebri le foto che ritraggono la mitica Twiggy mentre indossa dei modelli Janice Wainwright. Quasi una visione eterea ed onirica, la modella sembra una ninfa silvestre immersa in un paesaggio fatato.
Le creazioni della Wainwright all’epoca spopolarono e furono esposte al Fashion Museum di Bath e al prestigioso Victoria & Albert Museum di Londra. Capi che, collezione dopo collezione, diventavano più sontuosi e dal design estremamente interessante. Notevole anche la qualità dei materiali usati, che tradisce la ricercatezza e la cura estrema con cui la stilista selezionava le pregiate stoffe in Europa e fino all’Estremo Oriente.
La maison chiuse i battenti nel 1990, ma ancora oggi i capi di Janice Wainwright sono molto ricercati e caratterizzano una fascia importante nel mercato del vintage online. Tanti sono i modelli ancora in vendita nei siti specializzati, da Etsy a 1stdibs a Farfetch e Bonhams. Perché il vintage è evergreen.
Uno dei maestri della fotografia del Novecento, precursore dell’emancipazione della donna e autore di scatti passati alla storia: tutto questo è stato Henry Clarke, uno tra i fotografi più prolifici e longevi, le cui foto sono state testimoni di quattro decenni, dagli anni Cinquanta fino ai primi anni Ottanta.
Tanti i generi sperimentati dal genio di Clarke: miriadi di scatti di moda e ritratti di personaggi celebri, il fotografo americano è stato arbiter elegantiae della moda italiana, francese e americana.
Nato nel 1918 in California, a Los Angeles, da immigrati irlandesi, Clarke cresce in un periodo attraversato da numerose correnti culturali. L’esperienza della guerra fa da spartiacque tra il vecchio e il nuovo. Il giovane Henry si avvicina alla fotografia di moda nel 1948, dapprima a New York e poi trasferendosi a Parigi.
L’immaginario collettivo di quegli anni era dominato dai due fotografi di Vogue Cecil Beaton e Horst P. Horst, entrambi fautori di un’estetica quantomai radicata nella tradizione. Ma si avvertiva sempre più l’esigenza di un cambio di prospettiva, che auspicava un ritorno ad una fotografia più radicata nella realtà. Lo stesso Clarke studiò le foto di Beaton, Horst ed Irving Penn, ma familiarizzò con una macchina fotografica più piccola, la Rolleiflex, a suo avviso capace di portare l’auspicato cambiamento di prospettiva.
Clarke fu allievo del vero rivoluzionario della fotografia di quegli anni, Alexey Brodovitch, presso la New School for Social Research. Fu qui che Clarke imparò forse la lezione più importante: come unire la fantasia che serve alla moda con l’energia tipica del reportage. Nel Dopoguerra imperversava uno stile ancora classico e fortemente radicato nella tradizione. Erano gli anni del New Look di Christian Dior, ma si avvertiva sempre più l’esigenza di dare voce ad un nuovo tipo di donna. Life Magazine aveva tristemente testimoniato il conflitto belli o con drammatici reportage fotografici dalle zone di guerra, ma Vogue continuava a commissionare lavori brillanti a Cecil Beaton, relegando la moda in un mondo che appariva talvolta ovattato e lontano dalla realtà.
Una prima rivoluzione iniziò con Irving Penn e Richard Avedon, che portarono il reportage all’interno della fotografia di moda. Clarke iniziò a scattare foto per stilisti celebri, tra cui Dior, Fath, Balenciaga e Chanel. Le sue foto degli anni Cinquanta sono state spesso paragonate al lavoro di Irving Penn per quanto concerne il concetto di eleganza femminile; ma in Clarke manca quel particolare rigore formale e tecnico, come sostenne Nancy Hall-Duncan. In quel periodo egli stesso si fece promotore del risveglio culturale e stilistico dell’America e dell’Europa, coi suoi celebri scatti per riviste del calibro di Femina, Harper’s Bazaar e Vogue, e coi suoi ritratti di personaggi celebri, come Anna Magnani, Coco Chanel, Truman Capote, Cary Grant, Monica Vitti e Sophia Loren.
Dalla metà degli anni Cinquanta firmò per David Libermann un contratto di esclusiva per le edizioni francese, americana e britannica di Vogue e iniziò a fare numerosi viaggi che lo portarono in giro per il mondo: Messico, Brasile, Spagna, Portogallo, Turchia, India, Iran, Siria ed Italia.
Ma è il decennio successivo che lo consacra al mito: grazie a Diana Vreeland, editor di Vogue, in questi anni Clarke ha ritratto magistralmente la donna moderna. Questa è la parte forse più interessante e più sottovalutata del suo lavoro, ossia l’essere riuscito, per primo, a ritrarre e testimoniare la portata storica della rivoluzione dei costumi sessuali che stava per avere luogo in quegli stessi anni.
Le foto di Clarke degli anni Sessanta hanno per protagonista una donna moderna, che viaggia in tutto il mondo, indipendente, autosufficiente, sicura di sé. Scatti a colori ricchi di suggestioni etniche, con location mozzafiato. La sua donna è una dea indiana vestita di sari e caftani preziosi, una sacerdotessa che danza per raccogliere il favore degli dei. Cosmopolitismo ante litteram nelle sue foto che ritraggono donne gipsy, vestite secondo i costumi e le tradizioni dei singoli Paesi. Styling elaborati per nuove dee del sole, o zingare extra lusso che girano il mondo cavalcando un mulo, o ancora donne dall’eleganza moderna e rivoluzionaria, ritratte in costumi da bagno Emilio Pucci. Amante del barocco siciliano, celebri sono i suoi scatti ambientati a Palermo, Monreale e Bagheria. Su consiglio della contessa Consuelo Crespi, editor di Vogue US, scattò spesso in antichi palazzi della Capitale, come in quello di Cy Twombly. Suggestive le sue foto all’Eur, ad Ostia, ma anche in Turchia, Iran, tra le rovine di Argira, in Messico tra i templi maya ed aztechi e in Portogallo. Foto come reportage etnografici, con una partecipazione talvolta attiva della popolazione locale, come nello scatto con Isa Stoppi tra gli indios. Capolavori di una modernità impensabile per l’epoca.
L’arte azteca e amerindia, suggestioni indios e rovine di templi induisti diventano protagoniste e si rivelano le location più idonee per dar vita ad insuperabili capolavori di stile. In questo periodo Clarke ritrae modelle del calibro di Veruschka, Marisa Berenson, Benedetta Barzini, Marina Schiano, Isa Stoppi, Simone d’Aillencourt. Un cambio generazionale notevole, per un fotografo che aveva iniziato invece negli anni Cinquanta, ritraendo una femminilità assolutamente diversa. Proporzioni, set, outfits e location: tutto è in mirabile equilibrio nei suoi scatti, vere e proprie opere d’arte.
Nonostante i numerosissimi viaggi, Clarke restò per tutta la vita residente a Parigi, e morì nel sud della Francia nel 1996. Una retrospettiva sul suo lavoro fu allestita al Musée Galliera di Parigi tra l’ottobre 2002 e il marzo del 2003.
Ci sono talenti unici, che nascono una sola volta ogni secolo. È certamente il caso di Giorgio di Sant’Angelo, genio della moda a trecentosessanta gradi, che ha fortemente influenzato gli anni Sessanta e Settanta.
Designer poliedrico e progressista, stylistante litteram, visionario e ribelle, Giorgio aveva una sua personalissima visione della moda, che ancora oggi si pone come un unicum assoluto.
Sangue blu nelle sue vene, il conte Giorgio di Sant’Angelo (nome completo Jorge Alberto Imperatrice di Sant’Angelo e Ratti di Desio) nasce il 5 maggio 1933 a Firenze ma trascorre la sua infanzia nella tenuta del nonno, tra Argentina e Brasile, prima di fare ritorno in Italia all’età di 17 anni.
Dopo aver conseguito la laurea in Architettura presso l’università di Firenze, studia Design industriale a Barcelona e Storia dell’arte alla Sorbona. Artista poliedrico e dall’instancabile creatività, vince una borsa di studio che gli permette di conoscere Picasso, con cui lavora per sei mesi.
Successivamente il giovane si cimenta anche con l’animazione, sottoponendo un cartoon alla Walt Disney che, fortemente colpita dall’estro del ragazzo, gli offre uno stage. Giorgio parte quindi alla volta di Los Angeles, ma il suo inglese non eccellente lo riporta bruscamente alla realtà e lo costringe ad abbandonare l’esperienza dopo appena 15 giorni. Dopo qualche tempo si trasferisce a New York: a questo periodo risalgono le prime esperienze lavorative, come artista tessile ed interior designer.
Inizia a creare, per puro hobby, gioielli in plastica e lucite, dalle forme geometriche, che impressionano fortemente la fashion editor Catherine Murray di Montezemolo e Diana Vreeland, che lo vuole subito su Vogue. La sagace mente della Vreeland, già scopritrice di molti talenti, fiuta immediatamente il genio che ha davanti e lo assume come stylist freelance. È da questa collaborazione che nacquero perle rimaste ancora insuperate nel panorama della moda mondiale.
Nel 1966 Giorgio inizia a lavorare come designer, creando la sua prima linea di prêt-à-porter. Per la sua collezione attinge alle tradizioni culturali di diversi popoli, come quella dei nativi americani, per dar vita a capi dall’impatto fortemente scenografico. Suggestioni tratte dalle Ande, come si evince dalle stampe patchwork e dalla caratteristica lavorazione all’uncinetto. E ancora elementi rubati agli amerindi, come la lana mohair, le piume, le frange e i pellami tipici dei costumi dei nativi americani, stampe tratte dalla cultura azteca ed incas, il jersey, il mix di pattern e fiori ripresi dai costumi dei Navajo e degli Eskimo, l’opulenza di trecce e broccati di ispirazione gipsy, capolavoro indiscusso di styling.
Il suo contributo più grande nonché la sua rivoluzione fu bandire le cerniere lampo e progettare per la prima volta materiali stretch, che non costringessero il corpo femminile ma che vi si adattassero perfettamente. Designer pluripremiato, fu insignito del prestigioso Coty Award per ben due volte, la prima nel 1968 e la seconda nel 1970. Nel 1967 eliminò la “di” dal suo cognome e rinunciò al titolo nobiliare. Creò ben presto una linea più economica, denominata Sant’Angelo 4U2, seguita da un’altra più attenta alle tendenze del momento, la Marjer parts.
Le sue creazioni furono apprezzate da Bianca Jagger, Faye Dunaway, Isabella Rossellini, Cher, Diana Ross e Lena Horne. Posarono per lui modelle del calibro di Veruschka, Marina Schiano ed Elsa Peretti. Lo stilista, ricordando quei primi tempi, disse che all’epoca non avevano un soldo e che le ragazze posavano per lui la notte, dopo aver trascorso tutto il giorno a lavorare.
Celebre e ancora oggi insuperato esempio di perfezione stilistica, lo shooting del 1968 per Vogue, scattato nel deserto dell’Arizona con Veruschka come modella e con la fotografia di Franco Rubartelli, all’epoca legato sentimentalmente alla modella. Ideato da Diana Vreeland, fashion editor di Vogue, ambientato nella magnifica cornice del Deserto Dipinto, in Arizona, qui il genio di Giorgio vede la consacrazione ufficiale: la fashion editor alla fine concesse ben 8 pagine a quello shooting, in cui esplose la manualità di Giorgio, che dal nulla creò degli splendidi outfits. Lì dove chiunque avrebbe visto solo un mucchio di stoffe, lui vide dei vestiti. “Faceva caldo, terribilmente caldo”, ricorda Veruschka. Ad un certo punto, fasciata dentro un outfit che ricordava una specie di sacco a pelo, la modella perse i sensi.
Lo stilista, genio ribelle ed anticonformista, si spense il 29 agosto 1989 per un cancro ai polmoni, ad appena 56 anni, lasciando però un’eredità immensa, che influenzò designer come John Galliano, Anna Sui e Marc Jacobs. Ammirato da Bill Blass, da Donna Karan per il comfort offerto dai suoi capi, Giorgio amava definirsi “un artista prestato alla moda, un ingegnere del colore e della forma”.
Genuinamente convinto che moda e arte fossero strettamente correlate, auspicava la nascita di uno studio in cui architetti e creatori di moda lavorassero fianco a fianco, sulla falsariga delle Bauhaus di Vienna di inizio Novecento. Un talento insuperabile che meriterebbe di essere ricordato più spesso dagli addetti ai lavori.