Strano linguaggio, quello di Giovan Battista di Jacopo, detto il Rosso Fiorentino: proprio nel cuore di quel rinascimento, che cercava proporzione e armonia anche nelle scene tragiche (vedi la Pietà di Michelangelo in San Pietro), lui cerca tensione e bizzarria anche nelle scene idilliache. In tal modo il Rosso contribuisce all’evoluzione dello stile classico trasformandolo in manierismo, che da lì a poco darà origine al barocco.
Rosso Fiorentino era nato a Firenze nel 1495. Fin dalle prime opere aveva evidenziato una strana inquietudine, un senso di anarchia nei confronti delle regole o delle convenzioni artistiche, un violento espressionismo. Le sue figure sono «personaggi scheletrici dal volto paonazzo, con espressione vaga o diabolica», come dice un grande storico dell’arte, Francesco Negri Arnoldi.
È evidente che, date simili premesse, Rosso non incontrò molto successo in città. Altri lavori potette eseguire a Piombino e soprattutto a Volterra. Nel 1523, tuttavia, ottenne un incarico di un certo prestigio: gli fu commissionato un quadro per una cappella nella basilica fiorentina di San Lorenzo, la chiesa frequentata dai Medici, che, appunto, ne ospita le tombe. Un ricco mercante della città del giglio, Carlo Ginori, volle decorare la sua cappella di famiglia con la raffigurazione del matrimonio tra la Madonna e San Giuseppe. Rosso Fiorentino si mise all’opera e realizzò un capolavoro di straordinaria intensità.
Lo Sposalizio della Vergine è ancora là, sull’altare della cappella. Perciò può essere ammirato nel suo contesto originario e non in un luogo “neutro” quale un museo.
La scena presenta i due sposi, Maria e Giuseppe, nell’atto dello scambio dell’anello nuziale in presenza di un barbuto sacerdote solennemente vestito. In primo piano appaiono due donne sedute sui gradini, ambedue rivolte verso la coppia; la donna a destra, più giovane, regge un libro aperto: potrebbero essere il simbolo, rispettivamente, della Sibilla e della Profezia, cioè la rivelazione donata da Dio al mondo pagano e al popolo ebraico, come un decennio prima aveva mirabilmente proclamato Michelangelo nella Cappella Sistina. Nello sposalizio di Maria e Giuseppe si realizza, dunque, un disegno che Dio aveva annunziato come una promessa all’umanità.
I due sposi, a loro volta, sono circondati da un nugolo di personaggi, parenti e amici invitati alle nozze: «fantasiosa ricchezza e varietà dei motivi, de tipi, i colori battuti dalla luce fredda, il clima arcano e irreale del suo mondo astratto», commenta ancora il Negri Arnoldi.
Un particolare colpisce l’attenzione dell’osservatore: la figura di San Giuseppe. Noi siamo abituati a considerare lo sposo di Maria come un vecchio e umile falegname ebreo; qui, invece, appare come un giovane aristocratico fiorentino! Come spiegare questa differenza rispetto a tutta la tradizione iconografica?
A questo punto occorre prendere in considerazione un ultimo personaggio, il frate che appare sulla destra. Si tratta di San Vincenzo Ferrer, domenicano spagnolo, che, con le dita della mano, indica in quale modo dobbiamo guardare quella coppia.
Nel Cinquecento si riteneva che Vincenzo Ferrer avesse predicato su San Giuseppe, sostenendo che il rappresentarlo vecchio sarebbe stato non solo antistorico ma perfino offensivo nei confronti del santo: Giuseppe, quando sposò Maria, era giovane!
Perché, allora, immaginarlo anziano? La sua tarda età serviva a sottolineare la perpetua verginità di Maria (“la sempre vergine Maria”, proclama la Chiesa). Giuseppe, vecchio e addirittura decrepito, sarebbe stato per lei non uno sposo e un compagno di vita, ma quasi un nonno, la cui impotenza senile avrebbe garantito la verginità della sposa. In questa ottica la scelta di castità matrimoniale, compiuta anche da Giuseppe, non sarebbe frutto della sua virtù e della sua libera decisione, ma della ormai inevitabile decadenza della natura.
È contro questa mentalità che San Vincenzo avrebbe combattuto. Forse non è vero; ma certamente alcuni predicatori la pensavano così. E questa mentalità confluisce nel nostro dipinto.
Rosso Fiorentino morirà nel 1540 a Fontainebleau in Francia, dove era stato chiamato alla corte di Francesco I e dove avrebbe contribuito a diffondere l’arte italiana in quella nazione che, proprio in quegli anni, si avviava a uscire dal suo medio evo.