Perché bisogna andare a votare per il referendum costituzionale

In questa campagna referendaria abbiamo sentito di tutto. I toni sono stati quelli apocalittici dei momenti spartiacque e delle “scelte definitive”. Il tutto – nella tradizione della classica comunicazione manichea italiana – è stato notevolmente amplificato dalla diffusione di messaggi e contenuti via web e social network.
È stato detto che in caso di vittoria del NO: gli ospedali sarebbero stati chiusi, otto banche sarebbero fallite, le farmacie prese d’assalto, deriva autoritaria, impossibili nuove riforme, mafiosi impuniti perché nominati senatori, Italia fuori dall’euro, sangue infetto negli ospedali, debito pubblico fuori controllo, interessi alle stelle, ma anche “fase nuova della politica”, riforme vere, più democrazia, meno immigrati, basta con la sottomissione all’Europa.
È stato detto che in caso di vittoria del SI: PIL alle stelle, più occupazione, banche salve, Italia veloce, 500miliardi (poi diventati milioni) di risparmio ogni anno, ma anche che si sarebbero evitate ogni genere di sciagure, manco fossimo alle porte delle piaghe d’Egitto.


Abbiamo visto ogni genere di “compagnie di viaggio”: sul fronte del NO Travaglio ineditamente con Berlusconi e Brunetta, Grillo (la cosa sorprende meno) con Casa Pound e Forza Nuova, e tutti assieme a Marco Rizzo del PCI, la Lega Nord di Salvini e Fratelli d’Italia, con ANPI e qualcuno del Pd che non ha fatto mancare la sua adesione.
Sul fronte del SI abbiamo visto assieme i Verdini, i D’Anna, gli Alfano, i partiti delle autonomie insieme a Renzi, renziani della prima seconda terza e ultima ora, ma anche JPMorgan, FMI e qualsiasi istituzione c’entrasse meno che nulla.


I costituzionalisti sono stati davvero bipartisan: ne abbiamo contati in pari misura (anche per peso, spessore e autorevolezza) da entrambe le parti. Come si dice degli economisti, alla fine qualcuno che ci azzecca nel mucchio lo trovi sempre.


Nella rincorsa da tutte le parti al terrorismo psicologico ed alla polarizzazione estrema da fine del mondo e giudizio universale (quasi fossimo in un sistema bipolare chiuso e perfetto) guru della comunicazione e politici di ogni genere, specie, colore ed età si sono dimenticati che l’Italia ha un popolo strutturalmente di moderati, e che certi toni – che tanto si addicono al web in cui sono efficaci e pare facciano gruppo – non solo non aiutano le campagne, ma allontanano le persone dal voto. Il popolo italiano ha mostrato di votare secondo coscienza e lontano dalle indicazioni di partito in tutte le occasioni referendarie importanti, dall’aborto al divorzio ai referendum recenti.


A questo popolo io dico che dobbiamo andare a votare, perché è una scelta importante e non ci possiamo consentire il lusso di dire, il giorno dopo, che non “io non c’ero”. Vorrei che il mio popolo potesse scegliere sulla base di un testo, semmai letto “in parallelo”, tra la Costituzione attuale e quella proposta, e che prendessimo tutti atto che si vota su questo, e solo su questo.
Io, per precauzione e per chi volesse, la allego.


Il giorno cinque dicembre, la mattina ci alzeremo tutti comunque col sole (dietro o davanti alle nuvole). Usciremo di casa e andremo a lavorare come sempre. Non ci saranno dittatori né ospedali chiusi, non ci saranno file ai bancomat, non diminuiranno né aumenteranno gli immigrati, non avremo grazie a questo referendum più soldi in tasca, né il nostro PIL aumenterà vorticosamente, e nemmeno il nostro debito pubblico.
Se ci sarà una migliore legge elettorale (per la quale NON si vota) dipenderà da quello che farà il Parlamento il giorno dopo. Se ci sarà instabilità politica, un nuovo governo, questo non dipenderà dal Referendum Costituzionale, ma da quello che deciderà di fare il premier Matteo Renzi.
Il 5 dicembre ci vedremo per strada, come sempre, e ci prenderemo il nostro caffè, andremo al lavoro. E l’Italia serenamente sarà quella che tutti insieme decideremo con questo Referendum. Buon voto a tutti, qualsiasi sia la vostra convinzione politica e qualsiasi sia la vostra scelta di voto.


Riforma costituzionale

Referendum, tra auto sfondate e cataclismi annunciati

Avevamo avuto tutti la sensazione che questa campagna referendaria fosse – un po’ a tutti – sfuggita di mano. Se ne serviva una (ennesima) occasione, Napoli, mai parca di partecipazione a queste sfide di “campagne oltre ogni immaginazione”, ce ne ha offerta una.


Il caso dell’auto del sottosegretario Lotti viene così commentato sul web “Sfondate le auto private del sottosegretario Luca Lotti e del consigliere Madonna durante una affollatissima manifestazione sul Referendum a Napoli. I leoni da tastiera iniziano a prendere coraggio ma restano dei vigliacchi.”
Cos’è avvenuto? Che l’auto (una Audi A4 nera) era stata parcheggiata in un posto isolato alla Doganella con uno zainetto in piena vista. La cosa non giustifica l’atto in sé in alcun modo, anche in zone in cui i furti in auto sono all’ordine del giorno. Forse qualcuno degli accompagnatori del sottosegretario avrebbe potuto anche mostrargli semplicemente qualche premura in più suggerendogli un posto meno appartato e di non lasciare lo zainetto in piena vista. E non c’è alcuna ghettizzazione “di quartiere” in questo. A mia madre lo stereo in macchina lo hanno rubato sfondando il vetro a via Crispi e in pieno giorno.


Ma cosa ha a che fare questo atto, criminale e deprecato quotidianamente dai cittadini comuni tutti i giorni, con il Referendum? Assolutamente nulla. Esattamente come quel Massimiliano Fedriga, deputato della Lega Nord, che arriva a sostenere che “con il Si avremo nuovamente casi di sangue infetto” (probabilmente di origine meridionale?) a causa della sottrazione di alcune potestà in tema di sanità alle regioni. O come il “bisogna votare No contro l’immigrazione”.


Così come ovviamente niente hanno a che fare coloro che il giorno della lotta alla violenza sulle donne, prima si mettono il logo sui social network e poi insultano la Boldrini e la Boschi sulle loro pagine. Sì, anche questa è violenza. Ma qualcuno non glielo ha spiegato.


La verità è che ormai viviamo in un clima generale di comunicazione tossica in cui vince chi grida più forte, chi la spara più grossa, chi è – sostanzialmente e bipartisan – più violento.


Abbiamo catastrofi annunciate da entrambi i fronti, da decenni di futura ingovernabilità se vince il No, a derive autoritarie se vince il Si. In realtà la governabilità deriva dalla classe politica eletta, e quindi è qualcosa che attiene più alle leggi elettorali ed ai cittadini che non all’esito del referendum. In realtà la deriva autoritaria è qualcosa che attiene più alla gestione ed alla vita dei partiti ed alle leggi elettorali che non a questa riforma.
Ma qualcuno ha scelto – per semplicità e incompetenza – che i cittadini debbano essere spaventati. Eppure – come ci ricordano spesso analisi, studi, sondaggi e statistiche – il popolo italiano è fatto di una maggioranza silenziosa e moderata. Che in definitiva, col senno di poi e a mente fredda e bipartisan, comunque vada, sceglie sempre con adeguata saggezza un panorama di eletti che rappresenta, comunque, il paese reale. E che ha votato “fuori dagli input di partito” nei casi in cui contava davvero. Come per l’aborto, il divorzio e la Repubblica. Che piaccia o meno a quelli delle “derive autoritarie” o dell’ingovernabilità.


Forse sarebbe il caso di parlare – con pacatezza e moderazione – e spiegare le ragioni nel merito a quel popolo (enorme) di moderati silenziosi e indecisi. Ma pare di chiedere troppo a chi si bea, ormai, di parlare solo a se stesso ed alle proprie (sparute) folle osannanti.


Per approfondire meglio proprio il tema della comunicazione referendaria, ho intervistato Mauro Cristadoro della TWIG – azienda specializzata nell’analisi dati e nella comparazione dei risultati.


Ascolta La social reputation del #ReferendumCostituzionale” su Spreaker.


I loro dati parlano chiaro: due mondi che si contrappongono, che non si parlano, che non dialogano, in cui ciascuno ormai parla solo al proprio pubblico.

Renzi e la comunicazione referendaria

Sembrerebbe che – lentamente, e forse con ritardo – Matteo Renzi si sia reso conto che era necessario cambiare verso alla comunicazione politica verso il referendum costituzionale.


Commentando l’esito del referendum sulle trivelle scrissi:
“Se la campagna sarà sul testo referendario, Matteo Renzi può sperare di mobilitare quei 6 milioni di votanti che non votano Pd e che vogliono comunque le riforme.
Ma se la campagna referendaria – come invece chiaramente faranno i suoi avversari – non sarà sul tema del referendum, ma su un voto pro o contro Renzi, è molto probabile che la somma delle varie minoranze tra Sel, Sinistra Italiana, FdI a tutto il frammentato centrodestra, alla Lega di Salvini al Movimento Cinque Stelle e quanti altri, nonché la minoranza interna del suo stesso partito – sarebbero, matematicamente, ben più di quei 10 milioni.
Perché il Pd che si attesta al 33-35% è ben lontano da quel partito della nazione capace di vincere da solo. E “fuori” da quel Pd c’è una maggioranza eterogenea incapace di mettere insieme una maggioranza parlamentare, ma che comunque assomma al 65% dei voti reali.
Ma il vero problema è che sinora Renzi sembra incapace di fare una campagna non-manichea, che non polarizzi tra “con me o contro di me”, che non sia “assoluta” e che non veda “ottimisti contro gufi”.
E quindi il vero rischio – numeri alla mano – su un referendum che lo stesso Renzi potrebbe davvero vincere, è che invece lo perda, per colpa dei suoi stessi limiti comunicativi (che invece in altre occasioni sono stati il suo punto di forza).”


Oggi il problema è duplice.
Da una parte i sondaggi non danno il suo Pd e la sua leadership ai livelli di quel 40%, e contemporaneamente la minoranza interna – che compattata non è poi così irrilevante – è pronta a votare no se non verrà messa mano alla legge elettorale.
Dall’altra c’è la presa d’atto che le opposizioni (che insieme non hanno i numeri per governare) compattate su un semplice quesito possono arrivare al 65%, praticamente doppiando i numeri del Si.
A questo calcolo, per ora solo numerico e “da scrivania”, se ne aggiunge un altro, e non di poco conto. Il fronte del No non ha neanche cominciato la sua campagna, mentre il governo ha speso mesi a dichiararla “la madre di tutte le battaglie”.
Finanche la normale, consueta, rituale alternanza dei direttori dei Tg è finita nel tritacarne referendario: consueti avvicendamenti sono diventati “rimosso perché non allineato”.
Nulla che ci allontano dalle vecchie dichiarazioni della vecchia politica, e stavolta il classico “lottizzazione” è stato lessicalmente surclassato dal “pro o contro al referendum”.
Ed anche se il comitato per il NO non ha raggiunto le 500mila firme fermandosi a 200mila, questa non è una buona notizia per il premier: va letta infatti come debolezza della sostanza ma solo come divisione interna delle opposizioni a costruire un comitato comune.


Oggi Renzi sembra aver compreso che qualcosa nella comunicazione sino ad oggi manichea del “o con me o contro di me”, del “o con il progresso o gufi”, a prescindere ed a qualunque costo, rischiava di essere un boomerang.
Il tono cambia nella ultima E-News in un più morbido: questo il passaggio della newsletter 437
“In tanti mi hanno detto: “Matteo, questa non è la tua sfida, non personalizzarla”. Vero, questa è la sfida di milioni di persone che vogliono ridurre gli sprechi della politica, rendere più semplici le istituzioni, evitare enti inutili e mantenere tutte le garanzie di pesi e contrappesi già presenti nella nostra Costituzione. Un’Italia più semplice e più forte sarà possibile se i cittadini lo vorranno.
Dipende da ciascuno di noi, non da uno solo, dunque, ma da un popolo.”
Il cambiamento non è di poco conto, e sintatticamente punta quasi a costruire un diverso elettorato.
Il premier mira stavolta a presentare la riforma come “qualcosa di utile” all’Italia, al popolo italiano, ad una maggioranza di persone trasversale che – indipendentemente dalla propria soggettiva posizione politica – vuole un sistema legislativo più snello e moderno.
In questo senso anche il richiamo – anch’esso non di poco conto – a sottrarre dal dibattito referendario temi che le opposizioni vorrebbero strumentalmente trascinare dentro: legge elettorale, poteri del governo e nello specifico del premier.
Nella stessa e-news: “Il quesito infatti non riguarda la legge elettorale o i poteri del Governo, argomenti che non sono minimamente toccati dalla legge costituzionale, ma riguarda il numero dei politici, il tetto allo stipendio dei consiglieri regionali, il voto di fiducia, il Senato, il quorum per il referendum che viene abbassato, l’introduzione del referendum propositivo, l’abolizione degli enti inutili come il CNEL, le competenze delle Regioni.”


Non possiamo sapere se questo cambio di strategia sarà sufficiente e sufficientemente efficace a “cambiare verso” ad una comunicazione manichea, tossica, e spesso controproducente, che connotava un tono arrogante e spesso saccente.
Non possiamo prevedere se “gli altri” comprenderanno a loro volta che sarà necessario adeguare anche la loro risposta. Perché l’errore, stavolta, sarebbe continuare con quell’idea del “votate no per mandare a casa Renzi”.
Messaggio forte, chiaro, semplice, ma non sufficiente per mettere insieme “il massimo della coalizione possibile per il no”. Mentre palazzo Chigi pare aver chiaro che serve una drastica sterzata e inversione di tendenza per mettere insieme “il massimo della coalizione possibile per il si”.


Tra 60-70 giorni si voterà.
La campagna è lunga, ma quella vera dobbiamo ancora vederla.

Referendum costituzionale 2016: 8 punti cardine della riforma

A ottobre gli italiani saranno chiamati a votare il referendum costituzionale, ma per cosa si vota esattamente? Cosa cambierebbe con la riforma costituzionale proposta dal ministro Maria Elena Boschi? Ruolo e organizzazione del Senato, superamento del bicameralismo e nuova suddivisione delle competenze Stato/Regioni: ecco gli 8 punti principali della riforma che voteremo al referendum di ottobre.


1. La fine del bicameralismo perfetto. Se la riforma costituzionale diventasse realtà, l’approvazione delle leggi e la fiducia al Governo spetterebbero solo alla Camera dei Deputati. Questa diventa l’unico organo eletto dai cittadini a suffragio universale diretto, e assume la responsabilità unica di approvare le leggi ordinarie e di bilancio e di accordare la fiducia al Governo.


2. La riforma del Senato. Che ruolo assume allora il Senato? Si chiamerà Senato delle Regioni e sarà un organo rappresentativo delle autonomie regionali, composto da 100 senatori (rispetto agli attuali 315) e potrà esprimere pareri e proporre modifiche ai progetti di legge approvati dalla Camera. La suddetta, però, potrà rifiutare di applicarli. La funzione principale del Senato sarà quella di fare da punto di incontro tra lo Stato, le Regioni e i Comuni. Scomparirà anche la figura dei Senatori a vita: Carlo Azeglio Ciampi, Giorgio Napolitano, Mario Monti, Carlo Rubbia, Renzo Piano ed Elena Cattaneo resteranno in carica ma non saranno poi sostituiti.


3. Elezione del Presidente della Repubblica. Altra modifica della Costituzione riguarda l’elezione della massima carica dello Stato. Se al referendum costituzionale dovesse vincere il , non parteciperebbero più i delegati regionali ma solo le Camere. Per l’elezione sarebbe necessaria la maggioranza dei due terzi dei componenti per i primi quattro scrutini, i tre quinti fino al sesto scrutinio e la maggioranza dei tre quinti dei votanti a partire dal settimo.


4. Soppressione del Consiglio Nazionale per l’Economia e il Lavoro. La riforma costituzionale del ministro Boschi prevede l’abolizione dell’organo, che ha una funzione consultiva in merito alle leggi sull’economia e sul lavoro ed è formato da 64 consiglieri. Abolirlo è un’abrogazione totale dell’articolo 99 della Costituzione.


5. Competenze Stato/Regioni. Il referendum di ottobre tratterà anche il ritorno di alcune materie di competenza dello Stato, come trasporti e navigazione, produzione e distribuzione dell’energia, sicurezza sul lavoro, ordinamento delle professioni, giusto per citarne alcune.


6. Referendum abrogativi e leggi d’iniziativa popolare. Cambiano i numeri necessari ai cittadini per proporre l’abrogazione di una legge o la creazione di una nuova. Se i cittadini che propongono il referendum sono più di 800mila, basterà che vada a votare il 50% più uno dei votanti alle ultime elezioni politiche (quindi non più il 50% degli aventi diritto). Per proporre una legge di iniziativa popolare serviranno 150mila firme, il triplo di quelle previste in questo momento.


7. La nomina dei Giudici della Consulta. I cinque giudici della Consulta non saranno più eletti dal Parlamento riunito a Camere congiunte, ma dalle singole Camere separatamente. Alla Camera dei Deputati ne spetteranno tre, al Senato gli altri due.


8. L’equilibrio nella rappresentanza. Nel testo della riforma costituzionale si legge: “Le leggi che stabiliscono le modalità di elezione delle Camere promuovono l’equilibrio tra donne e uomini nella rappresentanza”.

Cosa ci dicono i big data di questo referendum?

Quello che pensavo su questo Referendum l’ho scritto qui.


Ma proviamo adesso a leggere il dato politico che emerge da questo referendum.
Il suo significato in termini di numeri e di strategie.
Matteo Renzi ha sterilizzato cinque dei sei quesiti referendari – quelli davvero sostanziali – ma ha lasciato l’ultimo punto, quasi volendo che il referendum si facesse.
Perché?


Facciamo un passo avanti, alla riforma costituzionale.
Su questa il segretario premier è stato chiaro: se perdo lascio.
Come a dire che quello è “il voto su di lui”, sul suo governo e sulla sua politica.
Ma lo si celebrerà a ottobre, garantendosi comunque non meno di ulteriori sei mesi di governo prima della tornata elettorale (che per consuetudine è tra aprile e giugno), per avere ampi margini di campagna – elettorale e congressuale.
E adesso facciamo un passo indietro, a quando Matteo Renzi ha affidato a Jim Messina il coordinamento della campagna di ottobre.


Jim Messina, ex capo staff di Obama, è stato il coordinatore della campagna 2012.
La sua strategia elettorale è basata sull’elaborazione dei cd. big data per decifrare comportamenti e tendenze, georeferenziate e geolocalizzate, delle persone, collegio per collegio, paese per paese, quartiere per quartiere.
L’ultima sua vittoria è stato lo scontro diretto con il suo ex capo David Axelrod. Messina supportava Cameron, Axelrod i laburisti. E la rimonta di Cameron, che molti davano per perdente, è stata proprio sul filo di lana di tutti i collegi in bilico.


La strategia di Messina presuppone da una parte una mappatura politica e socio culturale del territorio, dall’altra una “elezione simile recente”(in Usa non è difficile con le midterm ogni due anni).
Ed ecco spiegato questo Referendum.
Un grande test su scala nazionale, senza amministrative, senza accorpamenti, puntando su una campagna manicheamente esasperata: da una parte tutti i “pro premier” verso il non voto, dall’altra semplicemente “tutti gli altri”.
Un quesito tecnico, non impegnativo politicamente: una semplice prova generale per raccogliere i dati sui comportamenti dei flussi elettorali, capaci almeno di garantire una proiezione credibile.


Ecco che se lo leggiamo in questa ottica, il dato che emerge non è certamente positivo per Renzi.
Anche perché i dati vanno appunto proiettati e interpretati.
Come ha spiegato Alessandro De Angelis sull’Huffington qualche giorno fa “domenica si manifesterà un pezzo del popolo anti-Renzi, che ci sarà anche a ottobre. Con l’aggiunta di tutto il centrodestra che, su questo quesito, è fermo.”
Il dato su cui ragionano gli analisti sono sostanzialmente questi: i votanti alle scorse politiche (2013) furono 36.452.084 mentre alle europee (2014) 28.991.358, rispettivamente il 72,2 per cento e il 57,2 per cento degli aventi diritto. Il Pd alle politiche raccolse 8.646.034 voti (il 25% di Bersani) mentre alle europee 11.172.861 (il 40% di Renzi)


Gli scenari del giorno prima.
Alta affluenza: 40% di votanti sono circa 20.320.000; media affluenza: 33% pari a 16.764.000.
A urne chiuse quel 31% circa racconta di 16milioni di elettori, di cui oltre l’80% (come da previsioni) ha votato si.
Elettori che si recano alle urne “contro Renzi”, che faranno lo stesso ad ottobre al referendum sulle riforme, quanto “tutte le opposizioni” si coalizzeranno, quando non ci saranno richiami all’astensione, quando sarà una scelta politica quasi quanto un voto (anche se più semplice) e quando tutti, ma proprio tutti, avranno un interesse a dare indicazioni di voto. Ma soprattutto quando non ci sarà quorum. Vince cioè chi prende più voti.


La sfida.
Renzi deve prendere sulle riforme più voti di quella che ha chiamato la grande alleanza per il no con un Pd (tutto quanto e tutto intero, che voti compatto e senza differenze tra maggioranza e minoranza) che oggi sta attorno ai 10milioni di voti.
E la sfida è proprio questa. Certo c’è da dire che gli italiani sono “sensibili” alle riforme, e in molti sono pronti a non seguire strettamente le indicazioni dei propri partiti o leader. Lo abbiamo visto in casi importanti come divorzio, aborto, finanziamento dei partiti.


E tuttavia l’errore di fondo sta proprio nella comunicazione del premier.
Se la campagna sarà sul testo referendario, Matteo Renzi può sperare di mobilitare quei 6 milioni di votanti che non votano Pd e che vogliono comunque le riforme.
Ma se la campagna referendaria – come invece chiaramente faranno i suoi avversari – non sarà sul tema del referendum, ma su un voto pro o contro Renzi, è molto probabile che la somma delle varie minoranze tra Sel, Sinistra Italiana, FdI a tutto il frammentato centrodestra, alla Lega di Salvini al Movimento Cinque Stelle e quanti altri, nonché la minoranza interna del suo stesso partito – sarebbero, matematicamente, ben più di quei 10 milioni.
Perchè, è bene ricordarlo, il Pd che si attesta al 33-35% è ben lontano da quel partito della nazione capace di vincere da solo. E “fuori” da quel Pd c’è una maggioranza eterogenea incapace di mettere insieme una maggioranza parlamentare, ma che comunque assomma al 65% dei voti reali.


Ma il vero problema è che sinora Renzi sembra incapace di fare una campagna non-manichea, che non polarizzi tra “con me o contro di me”, che non sia “assoluta” e che non veda “ottimisti contro gufi”.
E quindi il vero rischio – numeri alla mano – su un referendum che lo stesso Renzi potrebbe davvero vincere, è che invece lo perda, per colpa dei suoi stessi limiti comunicativi (che invece in altre occasioni sono stati il suo punto di forza).
Saper cambiare comunicazione è una dote, una capacità, una risorsa.
Renzi ne ha molte, ma ad oggi, almeno per quello che abbiamo visto negli ultimi cinque anni, questa proprio non gli appartiene.
Ma anche se non ha risparmiato – senza citarlo – molte sferzate ai Presidenti di Regione del suo stesso partito (Emiliano su tutti), almeno come sintassi generale nel suo discorso post-voto ha provato con quel “tutti insieme” a cercare di evitare quantomeno la spaccatura interna.
La strada per ottobre è più che in salita.
In uno scenario in cui è possibile che andranno a votare circa 30milioni di italiani, da oggi stesso l’obiettivo è convincerne circa 16milioni. Il 50% in più di un teorico Pd unito.

Un po’ di chiarezza sul referendum

In questi giorni stiamo veramente sentendo di tutto sulla questione referendaria.
Di tutto, soprattutto quello che non c’entra, che non informa, che non si dice.
E allora provo a fare un po’ di ordine.


Questo è il primo referendum proposto dalle regioni contro una misura del governo nazionale.
Come ha spiegato l’Espresso “i quesiti referendari proposti dalle Regioni erano sei. Ora ne è rimasto solo uno, visto che nel frattempo il governo ha sterilizzato gli altri con delle modifiche all’ultima legge di stabilità. I cinque quesiti saltati puntavano a restituire agli enti locali un ruolo rilevante nelle decisioni sullo sfruttamento di gas e petrolio. Ruolo ridimensionato con la legge Sblocca Italia, voluta da Renzi con l’obiettivo di velocizzare i processi autorizzativi nel settore, fra i più lenti d’Europa. Con le modifiche alla legge di Stabilità, insomma, il governo è tornato sui suoi passi restituendo alle Regioni il potere originario.”


Quindi la prima cosa che c’è da sapere è che spenderemo 300milioni di euro per un referendum su un solo quesito, che anche per le regioni, in origine, era di marginale interesse.
Ed anche se poteva essere accorpato alla votazione per le amministrative in molti comuni, si è scelto di non farlo (non è vero che non si poteva) per una ragione che vedremo poi.


Noi elettori saremo chiamati a votare su una questione piuttosto tecnica.
Non che siamo analfabeti, ma il principio referendario è differente: esprimere il voto su una questione chiara, su cui i cittadini devono essere ben informati, e non certo su una materia estremamente tecnica. Un esempio chiarissimo è il primo referendum repubblicano tra monarchia o repubblica.


Cosa ci viene chiesto?
Dovremo decidere se i permessi per estrarre idrocarburi in mare, entro 12 miglia dalla costa, possano durare fino all’esaurimento del giacimento, oppure fino al termine della concessione.


Vanno chiariti due punti.
Il primo è che già oggi è prassi che la concessione venga “estesa in deroga” in tutti i casi in cui viene richiesto dalla compagnia petrolifera. Sarebbe quasi insensato il contrario.
Il secondo riguarda l’inserimento del termine nella concessione: quel termine serve a due scopi.
Il primo è evitare l’accaparramento di concessioni. Se non ci fosse un termine io potrei acquisire un certo numero di concessioni “senza scadenza”, non estrarre, e rivenderle quando e come voglio, in sub-concessione. E potrei “occupare” tutte le concessioni possibili, anche senza estrarre, evitando che altri possano farlo.
Il secondo è che inserendo un termine le compagnie hanno “interesse ad estrarre” sempre, mentre non avendo una scadenza, potrebbero decidere di estrarre solo quando i prezzi sono alti. E mantenere estrazioni minime o nulle in altri momenti.
Il termine – che esiste in tutto il mondo e in tutti i paesi – tende ad evitare questi accaparramenti e queste speculazioni.


Alcune cose che “ci dicono” e che non sono del tutto vere.


Ci dicono che se il referendum dovesse passare le piattaforme piazzate attualmente in mare a meno di 12 miglia dalla costa verranno smantellate una volta scaduta la concessione, senza poter sfruttare completamente il gas o il petrolio nascosti sotto i fondali.
Non è vero. Intanto perché l’estensione della concessione, o il rinnovo con altro termine è sempre possibile, poi sarebbe sempre possibile una nuova concessione. Nessuno è così malato di mente da lasciare un giacimento, perforato, ancora utile.


Ci dicono che si perderebbero migliaia di posti di lavoro.
Anche questo non è vero. Perché sono pochissime le concessioni di cui parliamo, e perché parliamo comunque di giacimenti teoricamente già ampiamente sfruttati e che occupano pochissimo personale diretto (mentre l’indotto è comunque garantito dalle quasi 150 piattaforme comunque esistenti).


Alcune cose che non c’entrano affatto, ma che ci sono entrate di prepotenza.


Ci dicono che sia un referendum tra “idrocarburi e rinnovabili”.
Non è così. La scelta delle forme di approvvigionamento energetico è in altra sede (anche normativa) e semmai lì andrebbe fatta questa – giusta – battaglia. Consapevolmente.
E tuttavia non ho visto nessuno, nemmeno di quelli che ne parlano, aver presentato proposte di legge concrete, ad esempio, per ampliare e rinnovare incentivi in questo senso. Ma forse mi è sfuggito.


Ci dicono che “c’entra Tempa Rossa”.
Non è così e comunque non avrebbe niente a che farci, dal momento che si tratta di un giacimento estrattivo terrestre.
Il caso tuttavia merita un chiarimento: da un lato il governo ha fatto un giusto provvedimento perchè non si può pensare di bloccare un investimento da complessivi tre miliardi di euro perchè “devi passare” dal placet (e quindi dall’accordo, anche degli interessi economici) di ogni singolo comune, anche il più piccolo. Dall’altro però non si può pensare dopo tanti scandali ecologici, che in quello stesso provvedimento – di fatto e di diritto – le compagnie petrolifere siano “esentate” da qualsivoglia responsabilità ambientale e danno e risarcimento, solo per sveltire. Se dunque in qualche modo Tempa Rossa ce la vogliamo fare entrare, è proprio come esempio semmai di un eccesso di confusione all’interno del quale, con cose giuste, finiscono dentro anche tante cose sbagliate. Un po’ come in questo caso referendario.


Ci dicono che la quantità energetica prodotta da questi giacimenti sia irrilevante.
Non tanto. Parliamo del 3% del nostro fabbisogno di metano e dell’1% di petrolio. E dato che siamo – ancora – tra i sette paesi più industrializzati, quell’1% e quel 3% sono soldi. Parecchi. Non tanto e solo per fare cassa, quanto come scorte e per calmierare, almeno qualche volta, il mercato. Oltre che fruttano circa 1 miliardo di euro all’anno come imposte a vari gradi di enti (dallo Stato ai comuni).


Ci dicono che le trivelle inquinano.
Intanto il referendum non chiede l’abolizione di ogni forma di installazione marina. Quindi non si comprenderebbe il nesso. Se poi è vero che – come tutti possiamo intuire – fare un buco in mezzo al mare, piantare componenti in cemento armato, ferro, acciaio e quant’altro non è proprio il massimo dell’ecologia, è anche vero che – in questo caso – la tecnologia italiana e l’attenzione sono elevatissime. Anzi, proprio gli elevati controlli spesso assicurano un elevato grado di informazione e sicurezza, in un raro caso in cui l’interesse ambientale è anche interesse del soggetto titolare della trivella.


Le famose cozze attorno ai piloni: da una parte è normale che ci siano, dall’altra semmai “puliscono” e di certo sono un indicatore ambientale.
Morirebbero in caso di avvelenamento da idrocarburi o similari e altrettanto non risulta che nessuna analisi effettuata vi abbia trovato patologie che le rendano addirittura tossiche.


Che poi, come detto prima, le trivelle, in sé non sono “naturali” è un fatto. Come un fatto che questo referendum non le abolisce. Come un fatto che – purtroppo – da nessuna parte vengono richiesti (e presentate proposte di legge in tal senso) per aumentare i controlli e la sicurezza. Da nessuna delle parti referendarie.


Il nodo politico di questo referendum.


Come successo spesso in passato, anche questa volta questo referendum si è connotato da uno scontro politico tra maggioranza e opposizione.
Come se fosse un referendum sul governo, e già sappiamo che qualsiasi sarà il risultato in questa direzione andrà il dibattito, non certo su ecologia, trivelle ed energia.


La “nuova politica” rispolvera quel Craxi della prima repubblica che invitò i cittadini ad andare al mare. E così assistiamo al triste invito del Presidente del Consiglio (e tacitamente governo tutto) a non andare a votare, in quella strana accezione per cui “coloro che non votano appoggiano l’operato del governo”.
Tristezza che cresce se su questa posizione si schiera anche l’ex Presidente della Repubblica, perché un Presidente Emerito che invita al non voto, davvero, non lo si era ancora mai visto.
E che non si arrivi al quorum è abbastanza probabile, visto il clima, l’interesse, il tema sin troppo specifico.
Che questa possa essere considerata una vittoria per qualcuno non credo affatto. E lo dico prima.
Di certo, come detto all’inizio, spenderemo 300milioni che potevamo risparmiare.
E li spenderemo perché interesse politico di una parte è che non si vada a votare.


Se dovesse passare il Si (ovvero l’abolizione di questa norma) tutti griderebbero “Renzi a casa”.
E cosa c’entra questo con un popolo che ogni volta che ha potuto si è sempre espresso – talvolta anche masochisticamente – per scelte quanto più ecologiste possibili?
Ma in questo caso se passasse il Si, a guardare la norma, cambierebbe poco, o nulla.
Se dovesse passare il No (ovvero la norma rimarrebbe com’è) anche in questo caso cambierebbe ben poco rispetto anche a prima che la norma entrasse in vigore.


Certo era un referendum evitabile. Così come lo scontro politico che ne è scaturito.
Ma è solo uno “scaldare i motori” in vista del Referendum Costituzionale di Ottobre.
Ed anche in quel caso, la comunicazione politica vuole che si trasformi in un muro contro muro, pro o contro il governo, e non certo in un’analisi ponderata di cosa dice quella riforma.
E questo sarà un male, perché si può anche essere a favore del governo, ed essere critici verso questa o quella misura.