Partiamo da una definizione.
Il protezionismo è una politica economica che, opposta a quella libero-scambista, tende a proteggere le attività produttive nazionali mediante interventi economici statali anche ostacolando o impedendo la concorrenza di stati esteri, ad esempio attraverso dazi e tassazione.
La storia insegna.
A partire dal 1873 una crisi economica generalizzata riportò i paesi europei ad un’aggressiva politica protezionista. È questo il periodo delle “guerre commerciali” che accompagnano, secondo alcune teorie storiografiche, il progressivo affermarsi del nazionalismo e la nascita, poco oltre la metà del XIX secolo, di nuovi stati nazionali, come la Germania e l’Italia. Non a caso la svolta protezionista prese le mosse in Europa nel 1878 proprio dalla Germania di Bismarck e dall’Italia.
Le tendenze protezionistiche caratterizzarono l’economia europea ed americana fino alla vigilia della Prima guerra mondiale e si rafforzarono nel periodo tra le due guerre quando la crisi di Wall Street nel 1929 spinse le singole economie nazionali ad una rigida chiusura che nell’Italia fascista prese le forme dell’autarchia. Dopo la depressione mondiale a seguito delle crisi energetiche del 1973 e del 1979, si sono manifestate nuove spinte protezionistiche che si sono gradualmente indebolite per la rapida integrazione dei mercati sia economici che finanziari che caratterizza i nostri tempi.
Sin qui il secolo scorso. E tuttavia proprio il secolo scorso ci insegna almeno due cose.
La prima, che protezionismo è parente molto stretto di nazionalismo, e si afferma come copertina di Linus – prevalentemente psicologica – nei periodi di crisi ed incertezza. Una grande macchina di consenso che attribuisce a “soggetti esterni” e complottismi vaghi le ragioni del malessere nazionale.
Esempio magistrale sono proprio due totalitarismi, quello tedesco (dove la causa di tutti i mali era il complotto sionista per la conquista del mondo) e quello italiano (del complotto degli stati plutocratici).
L’autarchia italiana è uno degli esempi di maggior successo di come nazionalismo e protezionismo possano anche diventare uno straordinario strumento di consenso, compattando un popolo contro un – talvolta immaginario – nemico esterno. Un’autarchia che arrivò a toccare anche i vocabolari con l’abolizione di parole e la loro sostituzione con neologismi nazionali.
La seconda, che il protezionismo genera guerre, perché genera instabilità economica e chiude oltre le merci anche i popoli: generando spinte nazionaliste e stimolando l’avversione all’altro, porta con sé la sintassi del conflitto. Che sia sotto forma di guerra commerciale, fiscale o doganale, impone uno sforzo bellico se non altro come un “mostrare i muscoli” per difendere una scelta economica fondamentalmente irrazionale.
Il nuovo secolo si apre con almeno quattro grandi novità. La prima, la globalizzazione dell’informazione, che rende la maggior parte dei poli “informati” in tempo reale di scoperte scientifiche, conflitti, scoperte industriali, ed anche di prodotti nuovi e notizie sulle materie prime. La seconda, è la globalizzazione dell’economia, che significa spostamenti di merci e persone, con un sistema di trasporti e viaggi globali, il che fa si che anche le economie, le finanze, i depositi, le imprese, i sistemi di produzione, vengano tutti concepiti in funzione di un mercato globale. Nascono quindi “le fabbriche del mondo”, e con queste grandi centri di produzione specializzata. La terza è il web, che ci connette tutti in tempo reale e ci consente trasferimenti di informazioni, denari risorse, messaggi e la chiusura di contratti in tempi inimmaginabili trent’anni fa. La quarta, la propulsione migratoria di massa generata da ragioni economiche, a sua volta generata dalla trasformazione dell’agricoltura di massa chiamata a sfamare sette miliardi di persone laddove appena cinquant’anni fa ne sfamava la metà.
Immaginare in questo scenario – che comprende queste tre vere e proprie rivoluzioni strutturali – un ritorno al protezionismo è in sé follia, nella sua accezione di “non aderenza con la realtà”.
Un esempio per tutti è un’immagine che è stata riproposta qualche giorno fa dal New York Times. L’occasione è stata il fatto che qualcuno ha accostato il neo-protezionismo di Trump alle teorie del premio nobel Paul Krugmann.
Secondo Krugman politiche protezioniste, applicate da tutti gli stati, pur alterando il libero mercato, presentano aspetti positivi nel senso che si stimola in questo modo la produzione nazionale con interventi statali che ricadrebbero fiscalmente sui contribuenti nazionali, ma porterebbero a una incisiva riduzione della disoccupazione e ad una nuova crescita economica.
Krugmann ha twittato molto sinteticamente “è ovviamente un malato di mente”.
Chi ha accostato la teoria economica del premio nobel alle scelte dell’amministrazione americana ha dimenticato almeno due assunti – decisamente non secondari. Il primo, è che Krugmann parte dalla globalizzazione come dato di fatto ineluttabile, e parla infatti di “politiche protezioniste applicate da tutti gli stati” (non certo di uno solo!). Il secondo, è che gli “interventi statali ricadrebbero fiscalmente sui contribuenti nazionali”. E come gli economisti sanno non puoi aumentare la fiscalità generale se vuoi stimolare davvero l’economia, specie nella fase immediatamente successiva ad una crisi strutturale come quella del 2008.
L’mmagine di Bussiness Inside è quella della Boing, un’immagine che da sola mostra l’impossibilità strutturale di un protezionismo nel ventunesimo secolo.