Pd, tra scissione e democrazia interna

È difficile comprendere le dinamiche del dibattito interno e delle divisioni tra minoranze e maggioranze se non partiamo dall’inizio, e ne comprendiamo le ragioni “antiche” e più recenti.
Il Pd nasce dalla fusione di più partiti dopo l’esperienza dell’Ulivo. 
Questa fusione non è stata “indolore”, e tuttavia era necessaria. Lo volevano i tempi, lo esigevano gli elettori, lo imponeva il sistema elettorale, che se ci ricordiamo era per collegi uninominali.


È stato il primo vero momento di modernizzazione della politica italiana e veniva dopo gli scandali di tangentopoli che aveva spazzato via in un anno partiti politici “vecchi” di sessant’anni.
Un momento di modernità che ha stimolato “la stessa cosa dall’altra parte”, la nascita del Pdl e il superamento della frammentazione proporzionale. Se venuto meno il collante Berlusconi il Pdl si è disunito nuovamente, il Pd è restato unito, anche se non in modo indolore, restando “soggetto unico” per coalizzare gli avversari, M5S in testa, e per polarizzare le leadership di centro destra, Lega su tutti.


La classe dirigente del Pd, all’epoca, era sostanzialmente rappresentativa in termini quasi proporzionali delle rappresentanze dei vari partiti confluiti nell’unico soggetto. Ed anche se “erede dei due grandi partiti di massa” spesso l’ago della bilancia finiva con il pendere a seconda degli orientamenti delle componenti più piccole, e spesso meno rappresentative in termini di voti e consensi.
Il Pd è stato anche il primo partito a introdurre il sistema delle primarie, e queste hanno garantito nel tempo l’elezione di un’assemblea nazionale e la composizione di una direzione che in qualche maniera, spesso imperfetta, offriva comunque rappresentanza proporzionale a tutte le idee della galassia dem.


Questo equilibrio è saltato nel 2014, in maniera improvvisa, non voluta, e non pesata sino in fondo, sull’onda di una deroga che non è stata compresa sino in fondo nelle sue implicazioni nemmeno da chi l’ha accettata.


Quando Bersani era segretario infatti accettò non solo la candidatura “in deroga” di Matteo Renzi, anche due modifiche al processo delle primarie nazionali. La prima, che al secondo turno potesse votare chiunque. La seconda, che la direzione nazionale fosse composta in modo proporzionale in base non al voto degli iscritti (primo turno) ma a quello aperto a tutti (secondo turno).


Matteo Renzi, che nel Pd aveva il 44% dei voti, si è ritrovato a superare il 68% nel secondo turno dele primarie. Poco male per il suo consenso personale, ma molto male per il Pd.
Di fatto avrebbe dovuto avere una direzione con il 44% dei membri, il che avrebbe consentito un dibattito autentico, democratico, e molte posizioni sarebbero state se on discusse almeno discutibili autenticamente. 
Oggi, con una direzione composta al 70% da renziani, diventa davvero difficile sostenere che “ha votato la direzione” e “si sta a quello che decide la maggioranza” dal momento che, prima di tutto, quella direzione non rappresenta affatto in termini proporzionali le anime e i sentimenti della base del PD.


Ecco che se partiamo da questa considerazione, e riesaminiamo la questione per quello che è, ovvero una sostanziale finzione ogni qual volta segue un voto ad una discussione in direzione, il dibattito interno, delle varie minoranze e delle opportunistiche maggioranze, assume un significato forse più chiaro.


Forzare sempre la mano su un presunto voto a maggioranza è una strategia che alla lunga logora, e per il momento ripaga Renzi in termini di apparente leadership, fondata sull’assunto che alla fine ogni volta la direzione a larghissima maggioranza “vota si alle sue proposte”.
Lo ripaga anche sul piano della comunicazione interna, perché tutte queste forzature fanno apparire le minoranze interne come cavillose, non costruttive, e sempre pronte alla scissione e all’abbandono.
Una realtà che fa gola – e anche molto – ad un giornalismo politico sempre più gossipparo e meno analitico.


E tuttavia questa apparenza è anche molto fragile. Puoi dire al mondo che in fin dei conti la minoranza conta poco, ma quando sei sotto referendum e ogni voto è indispensabile, può essere che quel poco pesi parecchio. Specie se sai bene che invece quel poco tanto poco all’interno della base del Pd non è.
Puoi dire al mondo che #bastaunsi e che è lo scontro finali tra gufi ed ottimisti, tra vecchio e nuovo, ma alla fine ciò che resta sul campo è che quelle minoranze rischiano di essere determinati, e questo peso glielo ha dato proprio questa gestione interna del partito fatta di forzature e di inviti ad adeguarsi o andarsene.


Forse, col senno di poi, più dialogo, morbidezza, cedere qualcosa in più in termini di rappresentanza, dialogare meglio sui contenuti delle riforme e sulla legge elettorale, non sarebbe stata una cattiva idea. Indipendentemente dalla conta dei numeri in direzione.
Perché quelli li vuoi drogare con un vizio di due anni fa, ma la politica che conta è fatta di voti veri.
Ed anche se Renzi vorrebbe tanto che le minoranze attuassero la scissione (mentre afferma il contrario), la sua peggior iattura – anche da un punto di vista della comunicazione esterna – è che questa scissione non ci sarà, e che la conta vera si farà su un terreno meno consono al premier: i voti reali.

Cosa c’è da sapere riguardo la legge sulle primarie

Va fatta una premessa. In nessun paese occidentale si è pienamente realizzato il principio fondante della democrazia moderna: la piena divisione dei poteri.
A seconda dei sistemi questa divisione è più o meno marcata, e più o meno assistita da sistemi di garanzia e di bilanciamento.
È importante chiarire questo punto perché parliamo di legge per elezioni primarie, ovvero per la scelta dei candidati ad essere rappresentanti dei cittadini, dai collegi, nella “unica camera” legislativa, che avverrà se passerà il referendum confermativo di ottobre.
In realtà da noi i “membri del parlamento” non sono semplici “membri dell’assemblea legislativa”, ma concorrono con la fiducia a formare il potere esecutivo, spesso deputati sono anche membri dell’esecutivo stesso senza che vi sia obbligo di dimissioni o incompatibilità. Molte volte in ruoli di governo hanno ampi poteri in ambito amministrativo. E nel caso del Ministero di Grazia e Giustizia abbiamo il caso limite in cui membri del legislativo, sono contemporaneamente parte dell’esecutivo, hanno ruoli di incidenza nell’ambito amministrativo ed incidono concretamente sull’ordine giudiziario.
È importante comprendere questa lacuna nella divisione dei poteri, proprio perché “decidere come vengono scelti gli eletti” non può essere considerato più un fatto “interno e privato” dei singoli partiti, ma incide sull’intero sistema-Stato.
Già la legge Anselmi chiarì, in mancanza di una legge precisa sui partiti, che questi dovevano rappresentare al proprio interno i principi di trasparenza e democrazia interna propri della Costituzione. Articolato del tutto inattuato perché privo di una chiara sanzione.


1) Quali falle il sistema elettorale delle primarie ha manifestato nel corso degli anni (schede elettorali truccate o rese nulle per agevolare alcuni candidati a scapito di altri)?


Le primarie, nelle loro varie forme, da quelle del Pd, a quelle “online” del M5S, a quelle “consultive” occasionalmente introdotte nel Centrodestra hanno tutte le stesse pecche: mancanza di capacità di controllo, verifica, appello, e di organi di garanzia terzi.
Alla fine, sempre, la pecca di fondo è la mancanza di trasparenza e di certificazione terza del risultato. Da qui a imbrogli “veri” o al sospetto di brogli, il passo è brevissimo, e si sono verificati in praticamente la totalità dei casi, con differente intensità.
Il punto tuttavia è che innanzitutto la democrazia è un sistema che deve apparire trasparente, oltre ad esserlo. Ed un sistema che genera polemiche e dubbi non va in questa direzione. Poi, dopo le elezioni “vere” una volta accertato che c’è stato un imbroglio alle primarie interne di questo o quel partito, non è che si può invalidare il risultato elettorale.


2) Può ripercorrere brevemente quali sono stati gli episodi politici più rilevanti che hanno dimostrato quanto il sistema che regolamenta le primarie oggi sia carente?


Alcuni casi eclatanti sono ad esempio le primarie per la scelta del candidato sindaco di Napoli, nel 2012 e nel 2016. in cui non ci fu nessuna verifica, nessun riconteggio, nessun organo nazionale capace di un intervento, se non per cassare o annullare il risultato.
Possiamo citare le primarie per la scelta del candidato presidente della regione Liguria.
Ma su tutte trionfano le primarie nazionali del Pd, quelle “tra gli iscritti”, con numerose segnalazioni di qualsiasi “opacità”: su questi casi la commissione di garanzia nazionale, dopo due anni, non ha ancora chiuso i relativi verbali.
In particolare nell’area di Salerno, città amministrata da De Luca, la Dia ha trovato oltre 2000 tessere false, ed è stato accertato che le primarie che hanno visto la scelta e l’elezione di Bonavitacola (fedelissimo del governatore e vice presidente della giunta regionale attuale) sono state falsate pesantemente.


3) Fino ad oggi le elezioni primarie nascono da un meccanismo interno ai partiti. E’ corretto dire che ad oggi non esiste una legge che garantisce più trasparenza sia nella scelta dei candidati sia nel coinvolgimento dei cittadini?



Esattamente.
Come detto prima sono “processi interni ai partiti” e in mancanza di una denuncia diretta di un soggetto direttamente danneggiato, la magistratura non può intervenire, ed a prescindere non è prevista alcuna sanzione o decadenza.


4) Alla Camera c’è una proposta di legge che pone la necessità di istituzionalizzare le elezioni primarie. Riuscirà nell’intento di rendere chiari sia i criteri di selezione dei candidati sia la partecipazione dell’elettorato attivo e passivo?


Non si possono imporre le primarie come metodo. A meno di non inserirle come “parte” della legge elettorale. E non è questo il caso.
Si può prevedere che “chi le fa, le debba fare in un certo modo”. Ma da un punto di vista del sistema, essendo un processo associativo, non si comprende quale debba essere la sanzione.
Ecco, io nel mio partito non le chiamo primarie ma “pre consultive” e sono fuori da ogni obbligo di legge. Per esempio.


5) Che cosa cambierà (se davvero cambierà qualcosa) rispetto al recente passato se il testo di legge dovesse essere definitivamente approvato? Ci saranno meno opacità nell’intero impianto di costruzione delle primarie?



Diciamo che quello è l’obiettivo.
Indicare una strada. Che preveda delle garanzie e delle tutele e una certa trasparenza anche nei ricorsi. Ma limitatamente a quei partiti che decidano – liberamente ed autonomamente – di far rientrare i propri processi decisionali nell’ambito di quello schema normativo.
Una facoltà, più che un obbligo.


6) Come si svolgono oggi le selezioni dei candidati? I meccanismi sono semplici e comprensibili per gli elettori?




Assolutamente no. Per due motivi. Intanto perchè anche per essere candidato alle primarie l’iter è interno e decisamente “chiuso”.
Quindi alle primarie scegli tra un elenco di persone che comunque qualcuno altrove ha scelto per te.
Secondo perché le regole cambiano di città in città e regione per regione e di elezione per elezione, e quindi non aiuta nemmeno una “prassi consolidata” in questo senso.



7) Quali le tempistiche entro le quali oggi si chiudono le iscrizioni al partito? Anche in questo caso, le chiedo cosa cambierà con questo testo?




Poco o nulla. Perché le iscrizione ad una “associazione-partito” sono sempre possibili, e la legge non può limitare la partecipazione al voto attivo ad un iscritto anche del giorno prima.
E tuttavia la legge non disciplina “i partiti politici” – legge che attendiamo da settant’anni circa – e quindi tanta parte di questa vita è soggettiva, eterogenea, non regolamentata.


8) Il candidato del partito davvero rispecchia oggi le preferenze di voto di chi lo elegge?




No, e non è nemmeno voluto. Basti pensare alla nuova legge elettorale. I capolista nominati, gli altri in lista secondo preferenze in collegi di circa un milione di abitanti. E nessuna norma che – ad esempio – indichi che i candidati debbano risiedere nel collegio o da quanti anni.


9) C’è democrazia partecipata nel rapporto tra i partiti che svolgono le primarie e quelli che non adoperano questa procedura per la selezione dei candidati?




Certamente anche con mille difetti fare consultazioni territoriali – che talvolta possiamo anche chiamare primarie – è occasione di maggiore partecipazione.
Meglio se “in carne ed ossa” più che su una scheda precompilata in un gazebo occasionale o peggio online.
Ma la democrazia partecipata – che significa concorrere concretamente e concettualmente alla formazione di una decisione e di un percorso legislativo – è decisamente ben altra cosa.


10) Il PD è stato il partito che, fin dalle sue origini, ha utilizzato lo strumento delle primarie. Negli ultimi mesi anche il centro destra, seppure diviso, ha cercato di intraprendere questo percorso mettendo in risalto ancora di più le lacerazioni interne. Quali differenze ci sono tra le primarie del Partito Democratico e quelle messe in atto da altri partiti?


Il pd le effettua sul territorio, attraverso sezioni con commissioni elettorali. 
Funziona spesso male, ma la materialità consente anche un teorico riconteggio, una verifica, la trasparenza di poter vedere come vanno le cose. Anche quando vanno male.
Il M5S le fa online: esiste un risultato finale reso pubblico, senza che vi sia alcun sistema di verifica terzo. Ma in questo caso è anche peggio, perché il sistema di votazione online consente a chi organizza la consultazione di sapere ciascun elettore quale voto esprima.
Il centrodestra non le fa, e questo lacera soprattutto anagraficamente chi vorrebbe un rinnovamento ed un ricambio. Il non farle è un modo per mantenere lo status quo e non mettere in discussione “il possesso” interno.
Le vere primarie sono quando il centrodestra si divide e usa le elezioni in genere amministrative per una conta interna. È il caso – da ultimo – di Roma, con il confronto Marchini-Meloni.


11) Il sistema delle primarie italiane può essere per taluni aspetti paragonato al sistema americano? Quali sono le difformità e le eventuali similitudini?


Assolutamente no.
Negli Stati Uniti esiste una divisione dei poteri fortissima. Quello che pochi sanno è che tutte le cariche non direttamente elettive, ma ad esempio di nomina presidenziale in ambito governativo (esempio Segretari di Stato – i nostri ministri – o membri delle magistrature superiori, dalla Corte Suprema in giù a cariche come Capo della Cia o dell’Fbi) vengono vagliate da una commissione del Senato (che rappresenta gli Stati).
In questo contesto le primarie le fanno i due maggiori partiti, ma non tutti i partiti.
E ciascuno dei due partiti le fa in maniera differente, finanche il conteggio dei voti e dei risultati è diverso. Addirittura diverso Stato per Stato.
E tuttavia chiunque, membro di un partito, può partecipare a qualsiasi elezione primaria, senza che la sua candidatura venga – formalmente – preselezionata da nessuno.
Certo, se il partito non è d’accordo avrà vita molto difficile ad accreditarsi, ma non è detto.
I repubblicani hanno addirittura apertamente finanziato una campagna “contro Trump”, che tuttavia ha partecipato alle primarie, le ha vinte, e il partito non può non sostenerlo.

Elezioni Usa, Hillary Clinton è la prima donna in corsa per la Casa Bianca

Con l’inattesa vittoria alle primarie Usa in California, lo stato più popoloso e influente, Hillary Clinton conquista la “nomination” per la corsa alla Casa Bianca, la prima di una donna nei 240 anni della storia degli Stati Uniti. Ieri si è aggiudicata la vittoria in California, New Jersey, New Mexico e South Dakota contro l’avversario di partito Bernie Sanders e avendo superato la soglia di 2.383 delegati è ormai la candidata del Partito Democratico per le elezioni presidenziali di novembre. «Grazie a tutti, abbiamo raggiunto una pietra miliare, e’ la prima volta nella storia della nostra nazione che una donna sara’ la candidata di un partito importante – ha dichiarato alla folla riunita al Brooklyn Navy Yard di New York per festeggiare – Questa vittoria non riguarda una persona. Appartiene a generazioni di donne e uomini che hanno combattuto, si sono sacrificate, e hanno reso questo momento possibile».


Hillary Clinton ha fatto pacate congratulazioni «per la straordinaria campagna che ha condotto» a Bernie Sanders, che pure dichiara di non arrendersi e di sperare ancora che la convention di luglio possa ribaltare il risultato delle primarie Usa. L’attuale Presidente Barack Obama ha già chiamato ieri sera i due candidati del partito democratico, invitandoli ad unire le forze per battere il repubblicano Donald Trump, e a questo scopo vedrà Sanders domani pomeriggio per convincerlo ad appoggiare Hillary. Dal canto suo, anche il magnate ha festeggiato ieri un importante traguardo, cioè un numero record di votanti alle primarie repubblicane. Festeggiamenti che si sono dimostrati l’ennesima occasione per lanciarsi a testa bassa in una serie di invettive contro Obama e i Clinton, accusati di fallimenti ed errori di varia natura e di aver «trasformato la politica dell’arricchimento personale in una forma d’arte per se stessi». Nonostante gli apparenti successi, il suo stesso partito fatica a perdonare il discorso decisamente razzista di lunedì in cui Trump ha messo in dubbio l’attendibilità dei giudici ispanici.


Le spaccature che attraversano sia il partito democratico che quello repubblicano rendono quindi sempre più incerto l’esito delle elezioni Usa del prossimo novembre. La maggioranza degli uomini bianchi dichiara di votare Donald Trump, ma Hillary ha dalla sua sicuramente le minoranze e molti dei cittadini americani più giovani sono stati avvicinati all’ala democratica da Sanders. C’è da dire che la Clinton, considerata per 20 anni consecutivi la donna più ammirata d’America (secondo i sondaggi Gallupp) oggi non gode in toto delle simpatie femminili. Nonostante la portata storica della sua candidatura alle elezioni presidenziali, è infatti accusata di essere “un prodotto della cultura maschilista” e di essersi fatta strada nel mondo della politica grazie alle influenze del marito Bill.

Le primarie in salsa 5 stelle

La notizia riportata dal Roma di ieri va ben oltre un articolo di cronaca politica, semmai locale, e tocca aspetti profondi della società, della tecnologia e della politica.
Intanto la questione primarie.


Il centro destra non le fa, anche se sta comprendendo che forme come i gazebo possono essere quantomeno uno strumento utile per avvicinare i cittadini. Il centrosinistra le fa, come molti sostengono “sono elemento costitutivo del dna del partito democratico”. Semmai le fa in maniera confusa, con una regolamentazione interna spesso ballerina e discutibile. Ma le fa “in carne ed ossa”. E questo è molto importante per la democrazia, perché ad esempio consente quel controllo che la stampa – quando davvero indipendente – può esercitare nell’interesse comune: fare cronaca e documentazione, e nel caso denuncia. È un interesse di trasparenza collettivo, che non riguarda semplicemente “la vita interna e privata” di un partito – come taluni sostengono – perché poi i candidati e gli eventualmente eletti, e comunque “i selezionati”, toccano tutti noi, anche quelli che di quel partito non fanno parte e gli elettori di tutt’altro schieramento.
Questo principio di trasparenza, di possibilità di verifica, di denuncia, di controllo, di ricorsi se ve ne sono le condizioni, è alla base di qualsiasi consultazione elettorale tesa alla selezione delle classi dirigenti e degli eletti.


Il Movimento 5 Stelle, preso dal furore del cyber-utopismo più estremista, le sue consultazioni, iscrizioni, discussioni, le fa a mezzo web. Questo comporta certamente dei vantaggi, come rendere accessibile l’incontro e la partecipazione a distanza, poter avere libertà di orario e tempo di riflessione. Ma il delirio di onnipotenza del web è anche nella faciltà con cui enormi bufale assurgono a verità solo perché molto condivise o commentate, che se lo dice la rete sarà vero, nonché la sottile vigliaccheria di celarsi dietro l’anonimato di profili social falsi e blog amatoriali per diffamare, attaccare, inventare notizie. Peggio se tutte queste patologie della rete finiscono con entrare nel processo decisionale democratico. Peggio ancora se dalle votazioni online dipende chi viene candidato, espulso, eletto.

Quando le cose, in passato, sono andate male per evidenti errori di programmazione interni, Casaleggio parlò di “hackeraggio” esterno. Mai dimostrato. Era il tempo delle quirinarie. Prima era stata la volta delle parlamentarie (quasi condominarie) dove sono stati scelti per essere eletti (in liste bloccate) fratelli, figli e fidanzate di qualche attivista della prima ora vicino a Grillo. Anche con appena 17 voti. Oggi la somma non varia di molto, e si viene scelti per essere candidati sindaco, presidente di Regione, parlamentare, o espulso, con poche decine o qualche centinaia di voti. Ma possiamo davvero chiamarli tali? Chi e come può verificare se non ci siano doppi o tripli profili? Peggio, chi può dare la certezza che quei risultati “totali” siano effettivamente “i totali corretti”? Perché le schede – quelle vere – le puoi anche ricontare. I click di certo no.


E se il candidato sindaco viene scelto con 270 voti, e in poche decine si piazzano i competitor, allora quelle “espulsioni” di 38 persone a Napoli impedendo a militanti storici di votare e decise d’imperio da Milano (senza consultazioni online, senza streaming) pesano, e parecchio. Soprattutto se poi quel favoloso numero di 5.400 partecipanti al meet-up di Napoli in realtà sia costituito dall’80% di profili “falsi” o doppi o tripli. E poi, chi ha deciso che davvero sono solo 580 (circa) gli iscritti aventi diritto a Napoli?
Tutto questo riapre la questione ben più seria, meno “di parte” e meno legata alla cronaca, che riguarda quale modello di democrazia vogliamo, se davvero affidarsi senza limiti alla tecnologia senza possibilità di verifica esterna sia la forma migliore per i nuovi processi democratici. Soprattutto senza riflettere su forme di controllo autentico. Perché da questa considerazione dipenderà quale sarà la società del futuro.