La riforma elettorale del 1912 introdusse in Italia il suffragio universale maschile, che portò gli elettori da meno di tre milioni ad oltre otto milioni e mezzo. Quella riforma elettorale era il prezzo che Giolitti aveva dovuto pagare ai socialisti di Bissolati per l’appoggio ottenuto durante la guerra italo-turca. Una legge che indubbiamente favoriva i partiti di massa rispetto alle elite che avevano fatto e governato l’Italia per oltre mezzo secolo.
Giolitti mise a disposizione una nutrita quantità di seggi per i candidati cattolici. Da parte sua, Gentiloni fu incaricato di passare al vaglio i candidati liberali per garantire il sostegno cattolico ai candidati. Dato il sistema elettorale uninominale maggioritario, il vincolo di appartenenza partitica era molto debole e il patto consisteva in un elenco di sette punti considerati irrinunciabili per ottenere il sostegno degli elettori cattolici.
Quel patto, denominato appunto Gentiloni, tenne e mantenne l’Italia in quello stato di limbo attraverso la prima guerra mondiale sino all’arrivo prorompente del fascismo.
Una classe dirigente vecchia generazionalmente, stantia politicamente e incapace di interpretare un’Italia che stava cambiando velocemente verrà travolta da un movimento di massa che nella retorica e nell’irruenza della sua pubblicistica costituì il prototipo del populismo.
Cambiano i secoli, letteralmente, e un altro Gentiloni si trova ad essere protagonista – per scelta, opportunità ed anche suo malgrado – di una fase italiana del tutto simile.
Paolo Gentiloni è certamente un politico di lungo corso, con esperienze ampie di gestione della politica romana, e tuttavia non è certamente un esponente – per leadership e comunicazione – di primo piano, almeno non tale da mettere in ombra Matteo Renzi.
E questa – più che ogni altra motivazione politica – è la ragione principale per cui Renzi, da segretario e premier uscente, ha fatto il suo nome, come unica proposta, non potendosi permettere che un qualsiasi altro esponente, anche del suo stesso partito, usasse Palazzo Chigi per una scalata politica e mediatica.
Per Gentiloni la consegna è una, semplice e diretta: attendere la decisione della Corte Costituzionale sulla legge elettorale e farsi promotore di scriverne “una ad hoc” in tempi rapidi per uno scioglimento delle camere a maggio e un voto prima dell’estate (e già si parla del 4 giugno).
Lo schema di Renzi prevede tre passaggi: costruirsi una sua nuova “verginità” lontano dai palazzi, anche a costo di sparare contro il governo del suo amico Gentiloni. Questa la premessa per vincere la partita delle primarie Pd di febbraio. A questo punto potrebbe avere la forza per obbligare la maggioranza trasversale a elezioni anticipate: quel partito di oltre 400 parlamentari di prima nomina che punta ad arrivare al primo ottobre 2017 per portare a casa il vitalizio. Tra questi una piccola pletora di deputati e senatori che sapendo di non essere candidati né rieletti punterà ad arrivare alla fine della legislatura (febbraio 2018).
Il patto con Gentiloni pare essere questo, su più o meno questi punti: candidatura e ministero garantiti a patto che resti lì non oltre maggio, a costo di farsi “sparare addosso” dal suo segretario ex-premier, che on lo oscuri, che accontenti ogni componente del Pd purché appoggi una cavalcata trionfalistica di Renzi, e soprattutto approvare una legge elettorale ad hoc per garantire alcuni punti. Che Renzi sostanzialmente si scelga i candidati, che si limitino tutti i rischi di ballottaggio (che favorirebbero i cinque stelle), e questo anche a costo di cedere qualcosa in termini i premio alla coalizione.
Punti su cui ci sarebbe la convergenza di ampia parte del centro-destra, almeno di quella parte che non vuole le primarie e che vede una chance proprio nella forza di una coalizione piuttosto che di “premi al partito”, nell’eterno scontro per la leadership tra Salvini, Berlusconi e Meloni.
Il primo patto Gentiloni, tenne e mantenne l’Italia in quello stato di limbo attraverso la prima guerra mondiale sino all’arrivo prorompente del fascismo. Una classe dirigente vecchia generazionalmente, stantia politicamente e incapace di interpretare un’Italia che stava cambiando velocemente verrà travolta da un movimento di massa che nella retorica e nell’irruenza della sua pubblicistica costituì il prototipo del populismo. Un secolo dopo la storia sociale si ripete, in condizioni fortunatamente meno devastanti della prima guerra mondiale. Ma questi patti di palazzo tengono sempre troppo poco conto del mondo (e dei pericoli) che “stanno la fuori”.