La rabbia e la ragione

La prima reazione è certamente la desolazione, lo sgomento. 
Poi la rabbia. Profonda.

Colpire Parigi è certamente colpire tutti noi. 
Sono quindi normali anche le prime reazioni, chieste a furor di popolo. Anche venendo meno la capacità di ascoltare e osservare quella dignità profonda, quel senso di comune condivisione che non ha nulla di silenzioso né di arrendevole. Anzi che mostra una forza straordinaria. 
Quella dignità e compostezza che ha mostrato, ancora una volta, dopo il massacro di Charlie Hebdo, il popolo francese.

Un’azione così forte, eclatante, mostruosa, da più parti reclamava un’azione forte. 
E nessun governo, se guardiamo la situazione dal punto di vista di chi governa, poteva sottrarsi a dare al furore del popolo – quello europeo, più che quello francese – una risposta forte, immediata, travolgente.


È un conto che bisogna mettere nell’essere al governo di una nazione quando questa viene colpita con tanta barbarie. E tuttavia la barbarie non giustifica un’azione senza ragione.

Precisiamo. Esiste una responsabilità diretta, specifica, inequivocabile, che ha visto attori e ideatori delle stragi di Parigi nell’Isis e in Siria. Questo è un dato certo.
Ma altrettanto certo – se ci fermiamo a ragionare – è che non è pensabile che quegli ideatori non se l’aspettassero. 
Colpire la Francia, oggi, significa colpire uno dei paesi in cui l’Islam ha le forme forse più moderate e integrate. E significa colpire un paese che dell’integrazione e del rispetto reciproco ha fatto modello di Stato.


Ecco che colpire la Francia è colpire questo modello. È spingere l’Europa verso il baratro manicheo, verso la guerra ammantata di religione, verso un mondo fatto di blocchi contrapposti.
In questo senso il furore di popolo innescato dai terroristi è esattamente il migliore alleato di chi ha interesse e desidera come modello questo scenario. E di chi non accetta la pacifica convivenza, fatta necessariamente di non imposizione di un modello religioso e culturale e di democrazia.

In questo si, è uno scontro di culture. 
Ma proprio per questo la barbarie non può far dimenticare le conquiste di civilità di un Europa che queste barbarie le ha vissute e pagate col sangue dei suoi popoli sino a settant’anni fa, quando altre ideologie alimentavano una visione del mondo fatta di odio, razzismo, ed imposizione di un modello culturale unico e totalitario da imporre con la forza.


Le bombe che in questo momento aerei francesi, con il supporto dell’intelligence americana e logistica russa, stanno sganciando sulla Siria sono lo sfogo di tutti noi, di tutto l’occidente contro la barbarie.
È il “ricambiare con gli interessi di sangue e morte” quel gesto assurdo ed atroce vissuto per le strade di Parigi, che poi sono le nostre strade d’Europa.

Chi mai potrebbe condannarci? Chi mai potrebbe condannare quell’istinto e quella rabbia?

Eppure rivendichiamo il primato della ragione.

Ed a noi e a chi ci governa compete essere oltre la barbarie, proprio rivendicando le nostre conquiste ferite, e le conquiste di civiltà che vogliamo difendere e vendicare.


Colpire oggi la Siria non è colpire l’Isis.
Chi doveva e poteva da Raqqa è scappato.

Ma quelle bombe – per quanto le nostre ragioni ci assolvano – sono l’altra faccia della medaglia di quel terrorismo che ci ha inorriditi due giorni fa.

Sono la benzina che verrà usata per incendiare le nostre strade. Sono le immagini che gireranno per i paesi del mondo arabo degli inevitabili morti civili, donne e bambini usati come scudi umani nelle infrastrutture da colpire.

Quelle bombe occidentali saranno la prova – per qualcuno – della crociata occidentale contro cui combattere e contro cui fare nuovo proselitismo.


Dovremmo rifletterci quando la rivendicazione – fallace, banale, menzognera, apparente, ridicola, opportunistica – del prossimo attentato sarà “per vendicare le bombe di Raqqa”.


Sul muro c’era scritto col gesso
 viva la guerra
 chi lo ha scritto è già caduto.


Sono versi di Brecht. Ma forse questa volta sono meno veri di settant’anni fa.

Perché la sensazione è che quel “vogliamo la guerra” sia stato scritto da qualcuno che è ben al sicuro altrove. Che ha altri interessi, certamente più materiali di una religione, di cui evidentemente nemmeno conosce i precetti, ma di cui si riempie la bocca e riempie la testa di ragazzini manipolabili e plagiati che giocano ai guerriglieri. Nel deserto come nelle nostre città. Come fosse un videogioco della playstation in Belgio.


Ma la ragione – che non appartiene al sentimento del popolo e delle masse – deve (imperativo categorico in questa era sopravvivenziale) guidare le scelte di chi ha la responsabilità di governare.

Deve – per quanto difficile – ricordare tutte le volte, recenti e passate, in cui da azioni di rappresaglia sono sorte guerre che tuttora mietono vittime.

Dovremmo ricordare che dopo l’undici settembre c’è stato l’Afghanistan, e tutti i caduti in quella guerra. E di certo i talebani e Al Qaida non sono stati annientati.

Dovremmo ricordare le bombe in Libia e Iraq. E di certo quei paesi non sono in pace. Ed anzi, che proprio quelle guerre hanno generato nuovi conflitti, nuovi terrorismi e nuovi soggetti. Se possibile ancora più sofisticati nelle loro strategie di terrore ed odio.


Ed è per questo, anche per questo, che chi ha ruoli e responsabilità di governo, oggi più che in altri momenti deve stare nel mezzo tra quella rabbia, e quell’orgoglio cui ci richiamava Oriana Fallaci, bilanciati però almeno altrettanto da quella ragione, fondata sulla storia, che ci insegna anche dove porta dare solo sfogo alla rabbia.
Perchè il migliore alleato di un fondamentalismo è l’altrettanto fondamentalista smarrimento della ragione che non fa contenere la rabbia.

Continuava Brecht nella stessa poesia:


La guerra che verrà non è la prima. 
Prima ci sono state altre guerre.
 Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti.
 Fra i vinti la povera gente faceva la fame. 
Fra i vincitori faceva la fame la povera gente egualmente.
Al momento di marciare molti non sanno che alla loro testa marcia il nemico. 
La voce che li comanda è la voce del loro nemico.
 E chi parla del nemico è lui stesso il nemico.

Cosa sappiamo degli attentati di Parigi?

Proviamo a mettere insieme alcuni pezzi dopo dodici ore. 
Sappiamo con adeguata certezza che non si è trattato di un’azione isolata ad opera di pochi fanatici.

I gruppi di fuoco erano almeno tre. Uno concentrato nella zona dello Stadio, uno al teatro Bataclan e uno nel centro della città, per strada. 
Sappiamo che, in totale e al momento, i terroristi armati e con giubbotti esplosivi erano almeno otto.
 Sappiamo anche dalla simultaneità delle azioni che: si conoscevano, hanno avuto tempo e modo di coordinarsi e di progettare, programmare, effettuare sopralluoghi e studiare i tempi e modi e anche tempi e forme della reazione delle forze di sicurezza.

Sappiamo che per compiere questi veri e propri attacchi di guerriglia paramilitare sono servite ingenti risorse logistiche, organizzative, appoggi, risorse economiche.


Cosa sappiamo degli attentati di Parigi?


Mediamente per ogni gruppo di fuoco almeno altrettante sono state le persone coinvolte, tra logistica e copertura.

Hanno avuto bisogno di rifugi sicuri, di poterli cambiare spesso, di luoghi di incontro sicuri, di autoveicoli per i sopralluoghi, diversi da quelli materialmente usati per le azioni terroristiche. 
Sappiamo che sono riusciti a procurarsi illegalmente un vero e proprio arsenale per la costruzione dei giubbotti esplosivi, almeno otto kalasnikov e altrettante pistole ed un vero e proprio arsenale di munizioni.

Sappiamo quindi anche che è occorso molto tempo per organizzare e realizzare questa azione.

Gli esecutori materiali ma soprattutto chi ha fornito la copertura e la logistica è tuttaltro che un ragazzino invasato e fanatico delle periferie urbane. Ci vuole un enorme addestramento, preparazione, soprattutto per mantenere il sangue freddo in un’azione così grossa e coordinata.


Cosa sappiamo degli attentati di Parigi?


E in tutto questo senza farsi scoprire, intercettare, individuare per mesi.

Abbiamo però altri elementi su cui fare una riflessione. 
Pezzi da mettere insieme e tenere lì come fossero post-it su una lavagna per darci un quadro complessivo più ampio.


Abbiamo almeno altre due “prove generali” di azioni di quersto tipo: l’assalto a Charlie Hebdo del 7 gennaio e quello del 9 gennaio successivo quando un complice degli attentatori si è barricato in uno dei supermercati della catena kosher Hypercacher a Porte de Vincennes, prendendo alcuni ostaggi e uccidendo quattro persone.

Armi, attrezzature, organizzazione, logistica, tempistiche: sono pressoché identiche.
Anzi, in un’ottica più grande e altrettanto macabra quell’episodio può essere visto come una prova generale in grado di offrire elementi di analisi dei tempi e modi e forme di reazione della sicurezza francese in generale e parigina in particolare (sia su un attentato specifico sia su un’azione con ostaggi).


La data non è scelta a caso. 
È lo stesso giorno dell’anniversario (2001) in cui il presidente statunitense George W. Bush firma un ordine esecutivo che permette l’istituzione di tribunali militari contro qualsiasi straniero sospettato di avere connessioni con gli atti terroristici realizzati o progettati contro gli Stati Uniti. 
Non è un caso quindi che nella rivendicazione si parli esplicitamente di un 11 settembre francese.

Ed è anche il giorno prima della conferenza di Vienna sulla Siria.
 Elemento importante perchè da sempre la Francia (uno dei membri permanenti del consiglio di sicurezza dell’ONU con diritto di veto) ha una sua “politica autonoma” e spesso di mediazione tra i blocchi contrapposti Usa-Russia: una contrapposizione che ha spesso impedito un’azione univoca e coordinata contro l’ISIS.
 Il richiamo inoltre al “vostro 11 settembre” serve definitivamente al califfato per candidarsi ad essere l’erede unico e sostitutivo non solo di al-Qaeda, ma anche unificante di tutti i fronti terroristici legati al fanatismo islamista.


Non è stato un attacco del tutto imprevedibile.

Un attacco a un teatro-sala da concerto a Parigi con armi automatiche e cinture esplosive. Era questo l’incarico che avrebbe ricevuto un cittadino francese di 30 anni durante un suo soggiorno “militante” in Siria a maggio di quest’anno. La notizia, con pochi particolari di dettaglio e senza nomi e riferimenti dei protagonisti, era stata data il 18 settembre scorso dal sito franceinfo.fr.
 L’uomo, arrestato dalla polizia francese l’11 agosto scorso, sarebbe rientrato in Francia dopo essere stato ferito in combattimento. Il suo arresto sarebbe avvenuto per una “soffiata” fatta da una “jihadista spagnola” fermata anch’essa al rientro da un viaggio in Siria. 
Il che conferma almeno “da quanto tempo” un’azione del genere era in preparazione.

Tutto questo però conferma anche che è difficile che queste azioni vengano compiute da persone “straniere” inviate in occidente per la prima volta. 
Troppo difficile nasconderle, metterle in contatto tra loro senza destare sospetti o attenzione dei servizi di sicurezza, troppo complicato che si inseriscano nel tessuto logistico e malavitoso locale, che conoscano la lingua nella misura necessaria, nonchè starde, tempi, abitudini.


Almeno per compiere attacchi di questo genere.

E tutto questo riporta al fatto che chiudere le frontiere o attribuire responsabilità all’immigrazione di profughi e richiedenti asilo non ha alcuna attinenza con il contrasto ad azioni di questo tipo.

Difficile anche che i protagonisti candidati per questi attentati siano frequentatori assidui di moschee: di questi tempi verrebbero certamente intercettati, verrebbero notati, rischierebbero un commento sbagliato, di tradire un fanatismo ed un estremismo che potrebbe destare sospetti in correligiosi moderati (la stragrande maggioranza) che potrebbero allarmarsi e segnalarli.

Sappiamo anche, in maniera indiretta, che qualcosa di decisamente grande l’Isis lo stava preparando contro l’occidente. Qualcosa da “propagandare e diffondere” con la massima forza possibile.

Il 9 novembre era stato reso noto che il cyberCaliffato (il team hacker e comunicazione web dell’Isis) aveva hackerato oltre 54mila account twitter, nonchè reso noti i numeri di telefono personali e crittati dei capi di Cia, Fbi, Nsa.


Quest’ultima azione certamente di natura distrattiva, per far pensare ad un attacco “non in Europa” facendo calare quindi l’attenzione su una forma di collaborazione che avrebbe potuto evidenziare informazioni utili alla prevenzione o individuazione di indizi nei giorni immediatramente precedenti questa azione.

Sappiamo, infine, che un’azione di questo genere, per gli elementi sin qui descritti e messi insieme, è estremamente “raffinata” ed enormemente costosa.
 È un investimento enorme non solo di persone ma anche di risorse con una strategia che mostra una sofisticata conoscenza delle ripercussioni di medio termine nelle politiche e nelle economie europee e occidentali in generale.

E tutto questo non è immaginabile sia partorito dalla mente di qualche terrorista esaltato e di non elevata istruzione come quelli che conosciamo essere i teorici capi dell’ISIS in medioriente.
 Inoltre organizzare, pianificare, e soprattutto finanziare un’azione di questo genere è inimmaginabile venga fatto dal territorio siriano o iraqeno.

Un’operazione fatta “a borse chiuse” in cui si dovranno attendere non meno di trentasei ore prima di poter verificare le transazioni e chi ci ha potuto “materialmente guadagnare”, che però si confonderanno in un mare di altre transazioni del lunedì mattina, a livello globale, ed in cui le tracce saranno fatte sparire per tempo, con la medesima sofisticazione.


Se mettiamo insieme tutti questi elementi, senza farci trascinare nè dal populismo dell’opportunismo politico nè da tendenze complottiste planetarie, appaiono chiari almeno due elementi.

Il primo è che questo attacco mostra un livello di sofisticazione del terrore che apparantemente adotta la matrice e la bandiera del califfato come specchietto delle allodole (e cui il califfato presta uomini e simboli nell’interesse diretto di accreditarsi come nemico mondiale unico e solo), ma è chiaro che il livello è decisamente superiore e con una strategia molto più globale. 
Un modello di attacco terroristico che tende a voler dimostrare come ogni capitale europea e mondiale è in sé un possibile bersaglio di un attacco mirato e preparato e finanziato e studiato con mesi di anticipo. 
Il secondo è che le tracce per individuare la regia di queste azioni non passano direttamente in Siria e nel califfato, ma attraverso le transazioni (nomerose, sofisticate, diffuse) di chi gestisce le finaze (enormi) di queste attività. Che passano per le nostre banche, le nostre carte eletroniche spesso anonime e prepagate, che vengono ripulite nei centri di invio di denaro all’estero in centinaia di transazioni al di sotto dei 300 dollari. 
Una rete capace di avere numerosi sostenitori, prestanome, che acquistano cellulari, auto, affittano immobili, mettono a disposizione risorse e coperture logistiche.


Se l’Isis si candida ad essere il marchio – quasi il franchising – del terrore a livello globale, capace di lasciare per lungo tempo uno stato diffuso di terrore nelle popolazioni civili occidentali, è altrettanto chiaro che la guerra a questo soggetto oramai planetario non può che essere efficace solo se la struttura logistica e quindi innanzitutto finanziaria di tutto questo non verrà attaccata.

L’elegante modernità di Domenico Cioffi

ZEELAND –  COLLEZIONE PRIMAVERA/ESTATE 2016 DOMENICO CIOFFI 

L’approccio alla moda di Domenico Cioffi è straordinariamente sperimentale, audace, dal sapore artistico. Abiti come opere d’arte per la collezione Primavera-Estate 2016 ispirata al film “Lezioni di piano” di Jane Campion del 1993, vincitore della Palma d’oro al 46º Festival di Cannes e di tre Premi Oscar nell’edizione del 1994: migliore attrice (Holly Hunter), migliore attrice non protagonista (Anna Paquin) e migliore sceneggiatura originale (Jane Campion).

una scena tratta dal film “Lezioni di piano”


« C’è un grande silenzio dove non c’è mai stato suono, c’è un grande silenzio dove suono non può esserci, nella fredda tomba, del profondo mare »

I costumi d’epoca, l’atmosfera, la fotografia e l’ambientazione diventano il linguaggio con cui Domenico Cioffi realizza i suoi abiti, a partire dai modelli in taffettà di seta e mikado, ampi e rigorosamente black.

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La pelle torna protagonista in crop top finemente arricciati e abiti azzurro polvere ampi che il designer arricchisce di tagli geometrici netti, abbinandoli ad ampie gonne svasate a vita alta in contrasto con capi in vernice nera.
Pieghe che si trasformano in sfrontati profili di piume nere, cucite su organza, richiamo simbolico delle popolazioni indigene Maori, presenti nel film della Campion.

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Romantico, ma lontano dalla dipendenza nostalgica, Domenico Cioffi utilizza materiali tecnici e lavorazioni moderne; nella collezione troviamo dettagli di ruches sulle tasche e sulle spalline, nastri di raso, piume e organza, in antitesi alla onnipresente vernice nera delle gonne e dei top.

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Destinata a un’identità artistica, la collezione spring-summer 2016 si colora di atmosfere Vangoghiane.

Il richiamo all’Olanda è forte in Domenico Cioffi che vive tra Amsterdam e Napoli, la prima, una città dal forte spirito creativo dove nascono collaborazioni tra fotografi, artisti e lo stesso designer.

Dalle immense distese di campi di grano, Cioffi riprende i colori e come su una tela nascono abiti dal taglio seventies in tessuto jacquard, maglie ampie e strutturate, sovrapposizioni di volumi scultorei dando spazio ad eleganti mikado blu Klein, al giallo ocra e al blu elettrico.

Ad una delle più belle campagne nord europee, la Zelanda, Domenico Cioffi dedica questa collezione, dove si riconoscono l’intelligenza emotiva legata all’avanguardistico uso della contrapposizione dei tessuti. Tutto diventa il contrario di tutto, seppur così poeticamente perfetto.

(colonna sonora Michael Nyman – The heart asks pleasure first)



Campo di grano con volo di corvi, olio su tela, 50,3x103 cm, 1890, van Gogh Museum, Amsterdam
“Campo di grano con volo di corvi” Van Gogh 1890


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Guarda tutta la collezione primavera – estate 2016 di Domenico Cioffi: 

La provocazione sfila da Rick Owens

È stata in assoluto la sfilata più discussa e controversa della settimana della moda di Parigi. Ha monopolizzato l’attenzione dei media e ha diviso l’opinione pubblica, tra detrattori convinti ed ammiratori entusiasti. Certo è che in tempi come questi, in cui la spettacolarizzazione è divenuta un valore assoluto da perseguire con tutti i mezzi, la moda sembra essersi adattata a tale meccanismo. Purché se ne parli, sembra essere il mantra dominante; e il confine che separa l’avanguardia artistica dal mero sensazionalismo sembra divenire sempre meno netto.

Dissacrante, alternativa, ermetica, la collezione Primavera/Estate 2016 di Rick Owens è stata protagonista assoluta della fashion week parigina. C’è chi ci ha visto espliciti richiami sessuali, chi non ne ha compreso il significato e chi, semplicemente, ha deciso di godersi lo show, dalle coreografie assolutamente inedite.

Lo stilista statunitense non è nuovo ad audaci provocazioni: lo scorso gennaio fece sfilare uomini fieramente senza slip, destando scalpore, nel segno di quell’unione tra rock e concettuale che da sempre caratterizza il suo stile. Ribelle, anticonformista, Rick Owens è uno che il sistema lo combatte davvero: la sua linea stilistica è talvolta una critica neanche troppo velata nei confronti di certo fashion biz patinato. I lustrini di Los Angeles erano lontani da lui, nella sua infanzia vissuta tra tossicodipendenza e solitudine: da qui la sua moda intellettuale e scandalosa.

Si intitola “Ciclope” la collezione che sfila a Parigi per la Primavera/Estate 2016, e l’ispirazione attinge alla mitologia greca. Una sartorialità decostruita, per capi essenziali e basic. Ma quel che colpisce l’occhio, prima ancora degli outfit che sfilano in passerella, sono le “imbracature umane”: donne che indossano altre donne, per una coreografia forte e provocatoria. Le modelle sfilano a testa in giù, abbarbicate a cavalcioni le une sulle altre. Rigenerazione, solidarietà femminile, fratellanza universale e un pensiero per il grembo materno, a cui si deve la vita: questi sembrano essere i temi dominanti.

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Rick Owens : Runway - Paris Fashion Week Womenswear Spring/Summer 2016

Rick Owens : Runway - Paris Fashion Week Womenswear Spring/Summer 2016

I capi sono essenziali: cappotti dalle linee sartoriali, crop tops, asimmetrie sfilano addosso a modelle che si alternano a ginnaste professioniste. La palette cromatica varia dal grigio al nude, fino al verde e all’arancione. Tra i materiali usati spiccano il nylon, la seta, il cotone e la maglia, alternata alla pelle e al jersey, per interessanti giochi di luce.

Secondo il casting director Angus Munro, Rick Owens è maestro nel raccontare storie che nessun altro vi racconterà: genio del politically uncorrect, il vestito umano sembra essergli stato ispirato da una foto di Annie Leibovitz raffigurante Leigh Bowery, eclettico rappresentante del fashion biz nonché artista concettuale. Non più donne bambole, sembra implorare Owens, ma donne forti capaci di andare oltre le rivalità, in un disegno di fratellanza universale. Il dibattito sulla controversa coreografia resta tuttavia aperto, e sono molti coloro che continuano a chiedersi se se ne sentisse realmente il bisogno.

(Foto copertina Getty Images)


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Il meglio dello streetstyle alla Parigi fashion week

 

Con lo sfavillio e lo sfarzo delle tanto attese sfilate di Parigi, si chiude il mese dedicato alla moda, che ha visto le collezioni della primavera – estate 2016.

Tante le sorprese in passerella, a partire dalla maison Chanel dove l’aeroporto diventa sfondo e luogo in cui donne perfettamente habillé si imbarcano verso una destinazione comune: l’eleganza. Karl Lagerfeld non finisce mai di stupire, districandosi tra passato, presente e futuro. Intramontabile.

Leggerezza e profumo di fiori e fiabe da Ungaro, che con Fausto Puglisi alla guida ci fa rivivere una donna “principessa” in chiave moderna, dallo stile bohémienne con accenti futuristici; mentre con Miu Miu il boyish style e una femminilità retrò ci portano tra gli armadi dei nostri compagni, mariti, fiancés.

Tante le icone del fashion biz presenti alla Parigi Fashion Week: Candela Novembre, Chiara Ferragni, Anna Dello Russo, Gilda Ambrosio, Giovanna Battaglia e tante altre che noi di D-ART abbiamo fotografo per voi in questo speciale:

LO STREET STYLE DELLE FASHION ICONS ALLA PARIGI FASHION WEEK

Qui vogliamo mostrarvi il meglio dello streetstyle durante la settimana di défilés parigini:

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(tutte le foto sono di Luigi Ciaccio – nell’immagine di copertina gonna Domenico Cioffi, bracciale Manurina, borsa Salar)

Due maestri amici: Giorgio Armani sostiene la mostra “Scorsese” a La Cinémathèque Francaise

Giorgio Armani ha annunciato la sua collaborazione con La Cinémathèque Francaise per la mostra Scorsese, che si terrà presso la sede generale de La Cinémathèque a Parigi, dal 14 ottobre al 14 febbraio 2016. Attraverso numerose fotografie, sceneggiature e costumi, l’esposizione illustra l’importante influenza esercitata da Martin Scorsese sul cinema americano dell’era post Nuova Hollywood. Il regista ha così ringraziato Giorgio Armani: “è un maestro che ha rivoluzionato la moda, uno stimato collaboratore ed un caro amico di lunga data: questa collaborazione è un ulteriore gesto di amicizia che mi commuove molto”.

 

Jodie Foster, Robert De Niro e Martin Scorsese sul set di "Taxi Driver"
Jodie Foster, Robert De Niro e Martin Scorsese sul set di “Taxi Driver”

 

Oltre a mettere in luce il suo approccio originale alle questioni estetiche, narrative e intellettuali, vengono analizzate le fonti d’ispirazione e il metodo di lavoro del regista, che vede il coinvolgimento di fedeli colleghi per ogni nuovo progetto. Si tratta della mostra più significativa mai allestita su Martin Scorsese e che comprende oggetti e documenti appartenenti alla collezione privata del regista e a collezioni private di illustri personaggi europei e americani.

 

Abiti di scena esposti alla mostra (foto di Mathieu Gasquet)
Abiti di scena esposti alla mostra (foto di Mathieu Gasquet)

 

La relazione tra Giorgio Armani e Martin Scorsese dura da quasi tre decenni, durante i quali i due hanno collaborato in numerose occasioni, tra cui il documentario sullo stilista girato nel 1990, Made in Milan, che quell’anno chiuse la Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Nel 2001, lo stilista ha assunto il ruolo di produttore esecutivo dell’epico Il Mio Viaggio in Italia con il quale Scorsese rende omaggio al cinema italiano.

 

Giorgio Armani con Martin Scorsese ai tempi di "Made In Milan"
Giorgio Armani con Martin Scorsese in uno scatto ai tempi di “Made in Milan”

 

Nel 2007, Giorgio Armani ha fornito il proprio supporto per il World Cinema Project, dedicato alla conservazione, al ripristino e alla diffusione di pellicole internazionali dimenticate. Nel corso degli anni, lo stile di Giorgio Armani ha giocato un ruolo chiave in molti film di Scorsese, come Fuori Orario (1985), Il Colore dei Soldi (1986) e The Aviator (2004). La collaborazione più ambiziosa ha avuto luogo nel 2013 con il successo di The Wolf of Wall Street, per il quale Giorgio Armani ha disegnato uno speciale guardaroba per il personaggio interpretato da Leonardo Di Caprio.

 

Leonardo Di Caprio in "The Wolf of Wall Street"
Leonardo Di Caprio in “The Wolf of Wall Street”

 

Lo stilista ha affermato di essere sempre stato un appassionato di cinema: “l’influenza di Martin Scorsese sul mio lavoro e sul mio stile è profonda e duratura”. Giorgio Armani ha infatti definito così il regista: “è un vero maestro, e sono onorato di poterlo chiamare amico: il mio supporto a La Cinémathèque Française, uno dei templi dell’arte in Francia, rappresenta un ulteriore modo per dimostrare il mio apprezzamento verso il suo eccezionale lavoro”.

Miu Miu P/E 2016: femminilità boyish

Contrasto è la parola d’ordine che caratterizza la collezione Primavera/Estate 2016 di Miu Miu: Miuccia Prada si rivolge ad una donna dalla personalità forte e dallo spirito anticonvenzionale, che attinge a piene mani dal guardaroba maschile, per un mood quasi transgender.

Quasi timorosa della propria femminilità, o forse costretta dal mondo di oggi a celarla, la donna Miu Miu si districa tra un mood boyish e una sfrontata anima muliebre: perché essere donne a volte può essere la parte più difficile del gioco.

Poli opposti sfilano al Palais D’Iéna, per una donna dall’anima duplice: leziosità e dolcezza nelle sottovesti orlate di bordi frou frou che fanno capolino da austeri capispalla sartoriali dal taglio maschile o da polo rubate all’armadio di lui.

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Sotto una corazza da signorina Rottermeier, la donna che sfila da Miu Miu nasconde un candore infantile, che viene fuori nei dettagli, come il cerchietto indossato da tutte le modelle.

Suggestioni retrò nelle camicette e nel tweed di gonne midi da segretaria, che sembrano indugiare un po’ nella linea a sirena; ma laddove l’anima femminile sembra voler avere la meglio, arrivano la polo maschile e il cappotto oversize dal taglio rigorosamente sartoriale, a bilanciare gli equilibri.

Una dicotomia che diviene il fil rouge dell’intera sfilata: lo styling è forte e ricco, come nelle sottovesti da indossare sopra la camicia. La lingerie diventa protagonista, per audaci trasparenze che in realtà svelano solo l’outfit che si nasconde sotto. Stampe forti, in linea col mood strong, a partire dalle labbra rosso vinaccia.

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Stole dai colori fluo impreziosiscono austere giacche, il rigore si stempera nello chiffon delle camicie da notte fluttuanti indossate come grembiuli sopra i capi. Quasi una schizofrenia, il maschile e il femminile si rincorrono costantemente, tra grintose biker jacket che svelano inediti ricami, stampe metallizzate e argentate e dettagli in vernice su capi rigorosi.

Le scarpe flat un attimo dopo divengono sfiziose francesine dal tacco platform. La palette cromatica non teme di osare e unisce un pied-de-poule viola al verde smeraldo di dettagli che non stonano affatto. Largo a pullover a rombi, pantaloni a sigaretta dai dettagli fluo, giacche oversize e dettagli sporty-chic.


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Lo street style delle fashion icons alla Parigi Fashion Week

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La settimana della moda più attesa giunge al termine, è la Parigi Fashion Week, che ha visto sfilare le collezioni Primavera-Estate 2016 dal 29 settembre al 7 ottobre.

Il mondo della moda torna a lavorare nel backstage, lontano dalle luci dei fashion show, lasciandoci in sospeso fino alle prossime sfilate.

Noi di D-ART abbiamo immortalato per voi i look più belli di questa Parigi fashion week, gli outfit delle icone più seguite della moda.

Eccoli per voi fotografati da Luigi Ciaccio.

 

Anna Dello Russo
Anna Dello Russo
Candela Novembre
Candela Novembre
Chiara Ferragni
Chiara Ferragni
Diletta Bonaiuti
Diletta Bonaiuti
Gala Gonzales
Gala Gonzales
Gilda Ambrosio
Gilda Ambrosio
Giovanna Battaglia
Giovanna Battaglia
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Elisa Nalin
Kristina Bazan
Kristina Bazan

Negin Mirsalehi
Negin Mirsalehi


 

(nell’immagine di copertina Natasha Goldenberg)

 

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Balenciaga P/E 2016: nel segno del bianco

Si chiude nel segno della modernità, con un selfie a fine sfilata, l’epoca di Alexander Wang alla direzione creativa di Balenciaga. È un ragazzo come tanti altri quello che, sorridente e visibilmente emozionato, si immortala ai margini della passerella nell’ultimo inchino come direttore creativo della storica maison -incarico affidatogli nel 2012. Il “divorzio”, annunciato lo scorso luglio, ha suscitato grande clamore e perplessità.

L’ultima collezione firmata Alexander Wang, per la Primavera/Estate 2016, è nel segno del bianco. Total white protagonista assoluto: toni virginali e tripudio di raso di seta per una sfilata in pompa magna, a partire dalla location scelta, il Centre Laennec, fondato nel 1800 da studenti di medicina e gesuiti.

Una Primavera/Estate che profuma di una femminilità velata da sottovesti di raso e ricami: l’antico e il moderno si sposano alla perfezione, e se i corpetti lavorati e il pizzo omaggiano la classicità, le canottiere e i pantaloni cargo in tessuti fluidi tendono invece al futuro, per una donna dinamica e easy.

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I capi che sfilano in passerella ricordano certa lingerie di lusso, che tradisce però l’anima creativa del giovane designer statunitense, famoso per aver assunto nell’olimpo della moda capi apparentemente sportivi conferendo loro un inedito appeal sofisticato.

Nel suo addio alla celebre maison, Wang ne riscopre la storia e l’essenza più intima, votata all’artigianalità e all’amore per una sartoria di qualità.

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Una collezione poetica e minimale, dal grande impatto e dal candore innocente: anche le trasparenze più audaci, derivate dal pizzo portato su pelle nuda, vengono smorzate dalla pulizia del total white. Capispalla oversize per citazioni storiche si uniscono all’amore di Wang per il mood sporty-chic. Una cura particolare per i dettagli, come i gioielli e le espadrillas ricamate nelle tonalità del bianco.

Tra le modelle sfilano anche ragazze comuni, quasi a voler ristabilire un nuovo corso per la moda, lontano da certi schemi imposti negli ultimi anni. Il futuro inizia oggi.


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Il meglio dello street style alla Parigi Fashion Week

Il meglio dello street style alla Parigi Fashion Week


Ed anche la Parigi Fashion Week sta per finire, portando via con sé i mesi dedicati alla moda.
D-ART per le strade ha catturato gli street style più interessanti, fotografati da Luigi Ciaccio.

Eccoli:

 

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Riccardo Tisci per Givenchy: un alchemico bilustro di croci e delizie

Dopo l’amarcord attraverso le emozioni suscitate da John Galliano per Christian Dior qui, D-Art, in occasione del decennale del designer italiano per la maison di moda francese, vi conduce, grazie a 5 video, nel ricordo delle sfilate più memorabili.


Ci si aspettava un designer con una forte impronta italiana, ricco di positivismo e opulenza quando, circa dieci anni fa, Riccardo Tisci debuttò sulle passerelle parigine dell’Haute Couture, lasciando tutti senza fiato.
La Maison Givenchy stava fallendo e l’unica ancora di salvezza era risollevarne le sorti affidandosi a un talento che stava proiettando la sua personale visione sul mondo.
Scoperto alla settimana della moda milanese, nell’autunno 2004, Tisci decise di portare in passerella il lato oscuro della moda, sperimentando materiali innovati e volumi decostruiti, ricchi di riferimenti al mondo dell’arte sacrale e al gotico grottesco. Un anticipatore di tendenze in grado di spianare la strada a quello che sarebbe stato il trend degli anni a seguire.
La melanconia, la forte religiosità, l’infanzia segnata dalla perdita del padre e l’aura della femminilità che pervade le sue giornate, grazie alle otto sorelle, mix esplosivo e fonte ispirazionale costante. Il designer è riconosciuto anche per l’italianismo soffuso, mai invadente, che, però, ha sempre celato una critica al panorama politico e sociale.
E’stato lui stesso a sdoganare il fenomeno “no gender” iniziando, anni orsono, a giocare con l’ambiguità e la varietà razziale.
Sin dalla sua prima collezione, 8:30, The Procession, elaborata come progetto finale per la Central Saint Martins School di Londra, frequentata grazie a una borsa di studio, ha, inoltre, denotato una forte sensibilità per il mondo delle arti.
Proprio per questo motivo, sceglie da sempre la collaborazione di Marina Abramović, Antony Hegarty, Vanessa Beecroft e Erykah Badu.
E grazie alla sue forte identità, i riconoscimenti da parte del mondo dello spettacolo sono cresciuti a dismisura. Maria Carla Boscono, Madonna e Donatella Versace che, nonostante fosse una concorrente, ha posato per una delle ultime campagne Givenchy, solo alcune delle sue estimatrici.
La moda di Tisci, inoltre, è democratica. Basti pensare che, dieci anni dopo il suo ingresso nell’ufficio stile, è diventata anche social: 1200 gli inviti estesi alla gente comune per la sfilata celebrazione a New York, lo scorso 11 settembre.


Una notizia che spiana la strada all’excursus attraverso i 5 show evento che, in questi anni, hanno fatto breccia nella collettività:

Un video inedito per ricordare il debutto per la casa di moda con l’Haute Couture Primavera/Estate 2006.

Il leitmotiv è il leopardato. Una giungla pagana, quella di Tisci, che bandisce la religiosità portando in passerella, per la prima volta, un transgender: Lea T.

Con l’utilizzo dell’iconografia neo gotica dà il via a uno dei trend dell’ultima decade.

E’ Path McGrath, make up artist di fama mondiale, a celarsi dietro ai volti tribali visti in passerella. Una scelta stilistica che, tutt’oggi, identifica gli show Givenchy.

Haute couture e Ready to wear si fondono in un’unica visione. E’ il percorso della casa di moda negli ultimi dieci anni. La femminilità viene mixata agli elementi del guardaroba maschile bandendo il technicolor.