La Grande Madre, la mostra a Palazzo Reale

LA GRANDE MADRE – PARTE PRIMA 

Si è conclusa la mostra “La Grande Madre”, curata da Massimo Gioni, ideata e prodotta dalla Fondazione Nicola Trussardi insieme a Palazzo Reale per Expo in Città 2015.


2000 metriquadri di esposizione per 400 opere di 139 artisti, scrittori, articolato in 29 sale di Palazzo Reale.

La madre come iconografia e rappresentazione della nascita, della vita e a volte della morte. Un tema delicato ma forte che vede, nel corso della storia, la donna protagonista di una serie di fatti e cambiamenti di fortissimo impatto politico, sociale e culturale. Com’è cambiato il ruolo della donna nei secoli, ma diremmo anche negli anni. Per non andare troppo lontano – nella prima decade del 900 Marinetti descriveva nel “Manifesto del Futurismo” una donna mentalmente inferiore, debole e dominata dall’istinto – un atteggiamento misogino che oggi farebbe rabbrividire, ma che ebbe consensi dal sesso maschile a partire dallo psicoterapeuta Otto Woinenger, il cui pensiero divideva la stessa in: prostituta o madre. Le stesse donne che hanno poi fatto ricredere Marinetti, debellando l’originario “disprezzo della donna” in un essere coraggioso e virile quanto l’uomo. Insomma molto fumo per cadere poi nell’origine del mondo.



 

Le lotte sono state sanguinarie e numerose per arrivare all’emancipazione; una sala della mostra raccoglie una serie di manifesti che rivendicano la libertà femminile, in un periodo storico, dopo le due guerre mondiali, in cui le leggi federali degli Stati Uniti proibivano la diffusione di informazioni sulla contraccezione. Se le donne figliavano, non avevano nessun sussidio da parte dello Stato, se decidevano di abortire, venivano condannate e arrestate. E’ allora che Margaret Sanger, precisamente nel 1916 aprì la prima clinica per aborti degli Stati Uniti, dietro questi principi: “ I figli devono essere concepiti nell’amore, voluti da madri consapevoli e generati in condizioni che ne garantiscano la salute”.

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L’Erpice di Kafka


Per fortuna non reale ma frutto di una fantasia apparsa sul racconto “Nella colonia penale” di Kafka, l’Erpice si estende in tutta la sua maestà mista a orrore in una stanza semibuia.
L’Erpice è un letto in cui alcuni condannati erano obbligati a sdraiarsi, sopra cui si erge un macchinario dotato di aghi che attraversano il corpo del prigioniero, ignaro del reato per cui è accusato. La scrittura prevede che, durante l’agonia di 12 ore, l’incriminato intuisse la natura della pena inflittagli, una metafora per urlare sulla situazione in cui lo stato deteneva il controllo sulle persone. Crudele.

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The Giantess di Leonora Carrington


Intrisa di nostalgia l’opera di Leonora Carrington, scrittrice e pittrice amante di Max Ernst, ricoverata in un ospedale psichiatrico per esaurimento nervoso quando il compagno fu internato in Francia. Quanto è frutto della sofferenza il quadro “The Giantess (The Guardian of the Egg)” (La Gigantessa – La custode dell’uovo) ? Una creatura femminile che nutre la Luna di stelle, chiusa in una gabbia.

Attraverso il parto, che necessita dolore, nasce un’altra vita, simbolo di gioia e di speranza, è forse indispensabile questo dolore per dare alla luce qualcosa di grande?

 

Camminando sotto le note di “Amazing Grace” della cantante gospel Mahalia Jackson, l’installazione più commovente della mostra è di Nari Ward. L’artista di origini giamaicane, utilizza per le sue opere materiali di scarto, rifiuti – in questo caso 280 passeggini sono protagonisti dell’opera, rappresentazione della povertà, dell’emarginazione, il vuoto che lascia spazio ad un altro vuoto. La morte dei più deboli, degli indifesi, che torna come una voce di coscienza; in una stanza che fa da passaggio ad un’altra, si attraversa l’opera sopra delle maniche antincendio schiacciate, la forza dell’acqua che si è spenta, ma ancora sorregge, noi, i vivi. Un percorso che non può non farci riflettere, sui temi dell’emarginazione, dello smarrimento, della povertà e su quanto di dignitoso ci sia in tutto questo.

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installazione di Nari Ward


Legata a questi temi non poteva mancare la fotografa Diane Arbus, presente con “Self-portrait pregnant” (autoritratto incinta 1945). La Arbus è nota per aver immortalato soggetti ai margini della società, gli scomodi, i diversi, i reietti, tra nani, circensi, prostitute, transessuali, nudisti, con il suo profondo rispetto. Le viene cucita addosso l’etichetta di “fotografa di mostri”, molto in contrasto con l’intento amorevole dimostrato dalla fotografa nei confronti di questi soggetti. Una donna timida, curiosa, ma che la depressione porterà via. Diane Arbus si suiciderà tagliandosi le vene in una vasca da bagno.

 

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Diane Arbus – “Self-portrait pregnant”


 

(…continua)