Postmelodici, il servizio di Oliviero Toscani in esclusiva per SNOB


PHOTOGRAPHY OLIVIERO TOSCANI
Text Federico Vacalebre
Fashion Editor Tommaso Basilio

A metà anni Novanta cercavo di definire in qualche modo la nuova canzone popolare che impazzava a Napoli, tra radio e tv di quartiere. Su un saggio di Peppe Aiello trovai la parola «neomelodico», me ne appropriai, la iniziai ad usare per raccontare del mucchio selvaggio che impazzava in quel momento: Gigi D’Alessio, Franco Ricciardi, Tommy Riccio, Maria Nazionale, Ciro Ricci, Ida Rendano, Stefania Lay, Luciano Caldore, Lello D’Onofrio… Ogni giorno usciva una nuova star del “basso” accanto, si moltiplicavano i sottogeneri, le sottodefinizioni.

Nel 1999, per iniziare il primo libro mai scritto sul fenomeno, usavo queste parole: «Neomelodico. Do you know what I mean? Sai che voglio dicere? Neomelodico spiega poco, comporta il concetto di uno stile veteromelodico da distinguere da quello neomelodico, è una definizione come le altre… assunta per descrivere un complesso e stratificato fenomeno subculturale napoletano, arrivato negli ultimi anni anche sotto il cono di luce dei mass media nazionali, alla ricerca di una propaggine verace delle tendenze neoromantiche di stampo internazionale. Comunque ricordiamolo: parlare di musica è come ballare l’architettura».

Il discorso regge ancora: vent’anni, e passa, dopo, Gigi D’Alessio è una star nazionale, Franco Ricciardi fa sold out allo stadio Diego Armando Maradona mentre nuove stelline e divette impazzano sui social, insieme attratti e respinti dal movimento. Per qualcuno, anche per mezza Napoli, sono volgari, brutti, sporchi e cattivi, quando non collusi con la camorra. Per qualcun altro, mezza Napoli compresa, sono la colonna sonora preferita della giornata, un fenomeno antico e moderno, frutto di una globalizzazione che ha travolto la melodia classica partenopea come il raï ha fatto con quella maghrebina.

Musica etnica, dunque? Anche. Musica urban, come suggeriscono le sempre più spinte contaminazioni con i suoni rap, reggaeton, elettronici? Certo. Glocal pop? Ma anche sintomo di un cambiamento profondo di normalizzazione (sotto)culturale. In una famosa intervista ad Antonio Ghirelli Pasolini vaticinava di una Napoli destinata ad estinguersi, come certe tribù Tuareg, per la sua volontà ostinata e contraria, anti-storica, resistente, cazzimmosa. Le feste di nozze, ma non solo, che un programma come «Il castello delle cerimonie» porta in tutto il mondo mostrano da un lato quella resilienza, dall’altro l’adeguamento agli stilemi più kitsch del mainstream internazionale, la superfetazione del trash, dell’estetica dell’inorganico.

Gli eredi di Nino D’Angelo, di Gigi Finizio, di Patrizio (ex bambino prodigio morto di overdose di eroina) cantavano una Napoli che era difficile farsi piacere, che viveva sul crinale del malaffare. Ogni canzonetta, anche quella sulla più innocua storia d’amore, lasciava tracce di un disagio profondo, feroce. Mamme di quindici anni, maschi-padroni, vite di strada, corna, sesso veloce e senza precauzioni, tradimenti, auguri per una «presta libertà» appartengono alle cronache di ordinaria marginalità di una città passata dal rinascimento bassoliniano al rimorimento successivo, come nella condanna vichiana dei corsi e ricorsi storici. Il successo di D’Alessio ha spinto i suoi emuli a cantare in italiano, ad annacquare melodie e testi, a confondersi con l’«intronata routine del cantar leggero» (copyright Pasquale Panella per Lucio Battisti). Ma non tutti sono D’Alessio, anzi, lo sdoganamento nazionale non è arrivato, il mercato, che si era fatto fiorente ha vissuto con l’arrivo del nuovo millennio una crisi di identità: il sogno era Sanremo, non più la Piedigrotta.

Dopo Gianni Fiorellino sono arrivati Rosario Miraggio, Gianluca Capozzi, e poi ancora Alessio, Tony Colombo, Marco Calone ed altri si sono fatti largo, tra canzoni e storie kitsch da raccontare in tv. Hanno conquistato la periferia romana, sfondato in Puglia, in Sicilia, a Modena, a Milano… Mentre a Napoli l’emergente generazione postmelò trovava nel web il sostituto di radio e tv locali, ormai in debito di ossigeno, e nelle sonorità emergenti della trap e del reggaeton pane per i propri denti. Un’alleanza post femminista metteva insieme una protagonista della prima ora come Stefania Lay con le nuove star Giusy Attanasio e Nancy Coppola, mentre dietro le regine storiche Maria Nazionale e Ida Rendano spuntava il sex appeal di Marika Cecere. Mentre Francesco Merola manteneva in vita la tradizione melodica di papà Mario Ivan Granatino e i Desideri cercavano di uscire dal ghetto neomelodico, di parlare ad un pubblico più ampio, senza rinnegare, per quanto possibile, le proprie origini.

Tra radici e ali, identità e omologazione, il discorso è aperto e la domanda resta la stessa dell’inizio. Postmelodico. Do you know what I mean? Lo sai che voglio dicere?

La canzone neomelodica, neoromantica, postmelodica, postromantica, urbaneomelò o chiamatela come volete, è canzone verace d’amore per antonomasia. Ma che cosa è l’amore, e che cos’è l’odio? E chi amare e chi odiare nella Napoli in pieno hype del momento? Lo abbiamo chiesto ai magnifici otto ritratti da Oliviero Toscano in una Napoli mai stata di moda come adesso.


IDA RENDANO

Dress Lea Damiano
Hair Lorena Sazio
Make up Raffaella Pezzella

Ida Rendano è, con Maria Nazionale, la reginetta della canzone neomelodica sin dal primo momento, dagli anni Novanta. Ha cinquant’anni, ma non li dimostra, anzi. È napoletana del quartiere di San Giovanni a Carbonara, è cresciuta nel rione Miracoli ed oggi vive a piazza Cavour. Ha iniziato ragazzina, incidendo il primo disco a 7 anni. Le hanno dato una mano i duetti con Nino D’Angelo e Gigi D’Alessio, ma anche i testi di Salvatore Palomba e Peppe Lanzetta. Ha cantato con i 24 Grana, recitato Viviani in teatro, scritto un’autobiografia…

Cos’è per te l’amore? E chi/cosa ami di più?

«Sono fatta d’amore, che è sicurezza, fiducia e stabilità per l’anima, tutte cose che cerco sempre di dare a mia figlia, a mia madre ed a mio padre: mia figlia perché è stato il dono più bello che abbia mai avuto, mamma perché mi ha fatto nascere, papà perché mi ha trasmesso l’ amore per la musica. E poi amo gli abiti glamour, il trucco, le scarpe esagerate, mi piace sentirmi femmina».

E cos’è per te l’odio? E chi/cosa odi di più?

«L’odio è la mia risposta al male che ricevo, alla falsità, all’invidia, al perseverare nell’errore. Errare è umano, continuare in quella direzione diabolico».

FRANCESCO MEROLA

52 anni, napoletano, residente a Calvizzano. «L’unico Merolone in una selva di merolini», diceva di lui papà Mario, pensando ai possibili eredi canori. Francesco ha la sua voce scura e verace, il suo portamento ed è stato svezzato con le canzoni di Bovio e quelle di giacca. Ha duettato con il padre, con Gigi D’Alessio, con Valentina Stella. Ha riportato a teatro la sceneggiata ed ha organizzato una crociera nel nome di Mario Merola: a bordo, tutto, dal menù alle canzoni, dai talk show alla passione per il gioco d’azzardo, riporta al culto verace del genitore.

Che cos’è l’amore per te? E chi/cosa ami di più?

«L’amore è mia mamma che mi riporta sempre nella casa di Portici. E lì l’amore è naturalmente papà: tutto intorno mi parla di lui, mi ricorda lui, ammesso e non concesso che me ne dimentichi per un attimo. Amo la mia famiglia, mia moglie Marianna, la musica, la canzone napoletana, quella classica ma anche quella moderna, a cui cerco di contribuire quando trovo un pezzo adatto: faccio un mestiere che mi piace, sono un privilegiato».

E che cos’è l’odio per te? E chi/cosa odi di più?

«Non odio nessuno, o quantomeno mi sforzo di non odiare nessuno, di non trasformare la rabbia per chi ci vuole o ci fa male, per chi non ci considera come meritiamo, in qualcosa di più profondo, pericoloso, violento. Nella sceneggiata sono abituato a mettere in scena l’odio, ma l’ho cancellato dalla mia vita».

GIANNI FIORELLINO



Quarant’anni, di Mugnano, ha vissuto a Giugliano ed ora abita a Portici. Sta girando un docufilm sulla sua vita e carriera, con particolare attenzione alla periferia/provincia napoletana in cui è cresciuto, fiero che vi siano nati anche talenti come Giambattista Basile e Sergio Bruni. Ha iniziato a cantare a 9 anni, è stato Masaniello in un musical e due volte a Sanremo cantando in italiano e collezionando tra le Nuove Proposte un quarto ed un quinto posto, poi ha deciso di tornare al napoletano.

Che cos’è per te l’amore? E chi/cosa ami di più?

«L’amore è l’orologio buono del mondo, senza mi sentirei mancare ogni protezione, vivrei senza un rifugio. Amo mia moglie, i miei figli, naturalmente: solo loro la mia protezione ed il mio rifugio. Poi il mio cane: non mi ha mai tradito, anche se non vive più con me. E il mio pianoforte: mi ha indicato la strada, mi salva quando mi perdo, mi esalta quando mi ritrovo».

E cos’è per te l’odio? E chi/che cosa odi di più?

«L’odio è la peggiore attività dell’uomo. Genera violenza, frustrazioni, cattiverie, malvagità, vendetta, violenza, guerra addirittura. Io detesto tanti, ma non li odio, pur non sapendo porgere l’altra guancia. Odierei me stesso se provassi odio per qualcuno, anche se può sembrare un controsenso».

MARCO CALONE

28 anni, è nato a Pozzuoli e vive a Caserta. Tra i giovani che contano della nidiata postmelodica, ha duettato con Guè in «Tu si’ particolare» ed un suo pezzo del 2020, «T’aggio purtato ‘na rosa», è entrato nel circuito indie grazie alla cover incisa, durante la clausura da pandemia, da Roberto Colella, leader della band La Maschera, che l’ha sdoganato presso un nuovo pubblico.

Che cos’è per te l’amore? Chi/cosa ami di più?

«L’amore per me è vedere la serenità negli occhi di mia madre. Mi stanno a cuore gli amici, Carlos, ovvero il mio figlio peloso a quattro zampe, e la musica: senza di lei non potrei vivere».

E cos’è l’odio per te? E chi/che cosa odi?

«Odio la falsità, che ho compreso strada facendo. La popolarità che ho conquistato non ha cambiato me, ma chi mi stava intorno, per fortuna non ha intaccato le mie amicizie storiche. Odio l’ipocrisia, l’invidia, l’opportunismo. E alcune persone che incarnano questi difetti alla perfezione».

MARIKA CECERE

Ventisei anni, napoletana della Sanità, sex symbol postmelò, appartiene a quella nuova generazione esplosa in rete, attentissima alla comunicazione sociale, quasi una local influnecer.

Che cos’è per te l’amore? Chi/cosa ami di più

«L’amore è bene puro, è il trasporto per la famiglia, è il desiderio del partner, è l’affetto per gli amici. È rispetto, soprattutto. Mia madre, mio padre e mia sorella sono le persone fondamentali nella mia vita, nella mia personale classifica subito dopo metterei la musica, il palco ed il pubblico».

E cos’è l’odio per te? E chi/cosa odi di più?

«La miglior risposta ad un brutto comportamento sarebbe un sorriso. Da buona napoletana questa sono io. Buona, educata, ma non mi faccio passare la mosca sotto il naso e se devo reagire, alla fine reagisco. E inizio a odiare le persone cattive, non solo con me, non sopporto le ingiustizie».

I DESIDERI

Salvatore e Giuliano Desideri hanno rispettivamente 26 anni e 25 anni e sono nati a Marcianise, in provincia di Caserta, dove vivono. Figli d’arte, il papà è Nico, cantante veteromelodico, sono stati lanciati da una collaborazione con Clementino, hanno provato la strada di Sanremo Giovani e visto crescere le loro visualizzazioni sulla strada di un pop sempre più urban. Il prossimo album sarà quello con cui proveranno a conquistare il mercato nazionale.

Che cos’è per voi l’amore? E chi/cosa amate di più?

«È il motore della vita, ciò che ci spinge ad affrontare tutto. Non importa se sia amore per un uomo o una donna, per la famiglia, per le amicizie, per gli animali. Non esiste vita senza amore. Siamo fratelli e compagni di lavoro, l’amore ci cementa e anche per questo le nostre canzoni hanno un sapore speciale. Amiamo nostra sorella, mamma, papà: la famiglia è il luogo dove cerchi conforto quando le cose non vanno bene».

E cos’è l’odio per voi? E chi/cosa odiate?

«Sincerità, umiltà e generosità sono i tre valori nei quali ci rispecchiamo. Non riusciamo a proviamo odio anche se sappiamo che esiste, lo sentiamo anche attorno a noi. Se proprio dobbiamo chiudere i ponti con qualcuno usiamo l’arma dell’indifferenza».

IVAN GRANATINO

IVAN GRANATINO

Ivan Granatino ha 38 anni, è nato a Caserta e vissuto in provincia, tra Aversa e Trentola Ducenta, dove ora vive con la moglie ed i suoi due bambini. Nella sua produzione tiene insieme la temperie postmelo con rap, urban, pop, reggaeton. Visto a «The voice of Italy» ha collaborato con Clementino, Club Dogo, Luchè, Enzo Dong, Franco Ricciardi e Tullio de Piscopo, il suo ultimo singolo è un duetto con Pietra Montecorvino. Attore al cinema per i Manetti bros, presente nella colonna sonora di «Gomorra – La serie, ha milioni di visualizzazioni online. Tra i suoi pezzi anche una versione in napoletano di «Obsesion», hit latino degli Aventura.

Che cos’è per te l’amore? E chi/cosa ami di più?

«L’amore è il motore dell’esistenza. Nessuno può vivere senza amare o essere amato. E’ quel sentimento che fa passare ogni difficoltà e che aluta a fare ogni cosa con leggerezza. E. poi, l’amore è fondamentale nell’arte e nella musica per comporre. Il mio va innanzitutto alla mia famiglia, che mi regala radici e un porto sicuro».

« E cos’è per te l’odio? E chi/che cosa odi di più?

«Diciamo che è un sentimento troppo forte, che non conosco e non mi appartiene. Più che altro non sopporto i cliché, il pregiudizio e gli stereotipi, ma nulla di questo può spingermi ad odiare».

“INCLUSION” con Daniel Lismore a Napoli – Un incontro tra moda e arte

La moda è arte? Per troppo tempo questo argomento ha tormentato opinionisti e filosofi senza mai arrivare a soluzioni univoche. Lo IUAD, Accademia della Moda di Napoli, ha deciso di andare oltre parlando di “Inclusion” tra Arte e Moda.

È, difatti, proprio questo il titolo della mostra presentata presso il PAN di Napoli, promossa dall’Assessorato alla Cultura e al Turismo del Comune di Napoli. In questa occasione gli studenti dell’accademia hanno potuto incontrare Daniel Lismore, artista che ha suggerito il tema dell’esposizione e che ha ispirato la realizzazione di opere che hanno reso possibile questo importante incontro inclusivo.

Il Palazzo delle Arti di Napoli ha così ospitato non solo le innovative creazioni degli studenti, ma anche un’esposizione composta dalle creazioni dell’artista londinese, opere che non possono in alcun modo passare inosservate. Raccogliere oggetti, abiti e materiali vari provenienti da ogni parte del mondo per poi riassemblarli realizzando opere strutturalmente complesse, è questo in poche parole il processo creativo di Daniel.

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Come si è potuto constatare in conferenza stampa, l’artista ha fatto della sua arte un vero è proprio status dal momento che non si limita ad esporre le proprie creazioni, ma vive a pieno ogni sua opera. Tutte le sue composizioni sono veri e propri capi d’abbigliamento con i quali si veste.

Questa sua estrosità non viene di certo da un esclusivo bisogno di attenzioni; come più volte ripetuto durante i talk con l’artista, ogni sua creazione nasce da un profondo bisogno di esprimersi senza determinati freni o calcoli pre-decisionali. Verrebbe da definire il suo un “flusso di coscienza” che riesce a far coesistere l’arte e la moda senza punti e senza virgole. 

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I viaggi, le diverse culture e la diversità delle persone che ha avuto l’opportunità di incontrare vivono all’interno e all’esterno di ogni sua creazione. Una stratificazione antropologica di materiali che dialogano fra loro in un connubio perfetto di identità e convivenza.

Il valore dell’universalità è diventato per lui un tema manifesto e ricorrente. Come dichiarato da Daniel Lismore “Penso che viviamo in un periodo storico in cui c’è molto fraintendimento e molta ignoranza, credo sia buono condividere le culture e far sì che vengano apprezzate”.


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Questo processo che l’artista trova spesso non intenzionale e piuttosto naturale è in realtà un invito ad aprirsi a conoscere il mondo che ci circonda e ad esplorare la nostra individualità dal momento che ognuno di noi è la composizione intrinseca di varie culture e informazioni, proprio come le creazioni di Daniel.

Tutto questo è stato possibile grazie all’innovativo lavoro che sta facendo l’Accademia della Moda di Napoli, una realtà nata negli anni Sessanta grazie al maestro d’arte sartoriale Domenico Lettieri.


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Oggi lo IUAD con presidente Michele Lettieri, conta due sedi, molteplici corsi che spaziano dal design di moda a quello di interni, coprendo tutti i settori di abbigliamento e calzatura. Un luogo in cui vengono formate nuove menti che, grazie alla forte consapevolezza dell’importanza storica e artistica che viene trasmessa dai docenti, si volgono verso un futuro nel quale l’inclusione diventa la pietra angolare del grande mondo della moda.


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Le t-shirt di Dolce & Gabbana ispirate a Napoli

Si ispirano alle magliette fake vendute nelle bancarelle dei mercatini partenopei le t-shirt di Dolce & Gabbana viste sulle passerelle della collezione Primavera/Estate 2017. Il capo passepartout per antonomasia si tinge di ironia: Napoli diviene ispirazione privilegiata per la collezione, in vendita da dicembre.

“Io c’ero” è la scritta che accompagna ogni t-shirt, accanto al logo della maison: tradotta in tutte le lingue del mondo, rappresenta un omaggio allo spirito cosmopolita che da sempre anima il duo di stilisti e al mood della collezione per la prossima primavera/estate.

Capo più copiato per eccellenza, la t-shirt con logo stavolta stupisce tutti: con geniale ironia Domenico Dolce e Stefano Gabbana lasciano l’hashtag #DGlaveracopia. Le iconiche t-shirt sono in vendita da dicembre.

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La t-shirt bianca con logo e scritta ha rappresentato il finale della sfilata SS17 Donna: le 91 modelle che hanno calcato la passerella di Dolce & Gabbana sfoggiavano infatti l’iconica maglietta tradotta in tutte le lingue del mondo ed impreziosita da cristalli, logo e fiori ricamati. Largo a rose rosse, papaveri e margherite, in un omaggio alla primavera.

Referendum, tra auto sfondate e cataclismi annunciati

Avevamo avuto tutti la sensazione che questa campagna referendaria fosse – un po’ a tutti – sfuggita di mano. Se ne serviva una (ennesima) occasione, Napoli, mai parca di partecipazione a queste sfide di “campagne oltre ogni immaginazione”, ce ne ha offerta una.


Il caso dell’auto del sottosegretario Lotti viene così commentato sul web “Sfondate le auto private del sottosegretario Luca Lotti e del consigliere Madonna durante una affollatissima manifestazione sul Referendum a Napoli. I leoni da tastiera iniziano a prendere coraggio ma restano dei vigliacchi.”
Cos’è avvenuto? Che l’auto (una Audi A4 nera) era stata parcheggiata in un posto isolato alla Doganella con uno zainetto in piena vista. La cosa non giustifica l’atto in sé in alcun modo, anche in zone in cui i furti in auto sono all’ordine del giorno. Forse qualcuno degli accompagnatori del sottosegretario avrebbe potuto anche mostrargli semplicemente qualche premura in più suggerendogli un posto meno appartato e di non lasciare lo zainetto in piena vista. E non c’è alcuna ghettizzazione “di quartiere” in questo. A mia madre lo stereo in macchina lo hanno rubato sfondando il vetro a via Crispi e in pieno giorno.


Ma cosa ha a che fare questo atto, criminale e deprecato quotidianamente dai cittadini comuni tutti i giorni, con il Referendum? Assolutamente nulla. Esattamente come quel Massimiliano Fedriga, deputato della Lega Nord, che arriva a sostenere che “con il Si avremo nuovamente casi di sangue infetto” (probabilmente di origine meridionale?) a causa della sottrazione di alcune potestà in tema di sanità alle regioni. O come il “bisogna votare No contro l’immigrazione”.


Così come ovviamente niente hanno a che fare coloro che il giorno della lotta alla violenza sulle donne, prima si mettono il logo sui social network e poi insultano la Boldrini e la Boschi sulle loro pagine. Sì, anche questa è violenza. Ma qualcuno non glielo ha spiegato.


La verità è che ormai viviamo in un clima generale di comunicazione tossica in cui vince chi grida più forte, chi la spara più grossa, chi è – sostanzialmente e bipartisan – più violento.


Abbiamo catastrofi annunciate da entrambi i fronti, da decenni di futura ingovernabilità se vince il No, a derive autoritarie se vince il Si. In realtà la governabilità deriva dalla classe politica eletta, e quindi è qualcosa che attiene più alle leggi elettorali ed ai cittadini che non all’esito del referendum. In realtà la deriva autoritaria è qualcosa che attiene più alla gestione ed alla vita dei partiti ed alle leggi elettorali che non a questa riforma.
Ma qualcuno ha scelto – per semplicità e incompetenza – che i cittadini debbano essere spaventati. Eppure – come ci ricordano spesso analisi, studi, sondaggi e statistiche – il popolo italiano è fatto di una maggioranza silenziosa e moderata. Che in definitiva, col senno di poi e a mente fredda e bipartisan, comunque vada, sceglie sempre con adeguata saggezza un panorama di eletti che rappresenta, comunque, il paese reale. E che ha votato “fuori dagli input di partito” nei casi in cui contava davvero. Come per l’aborto, il divorzio e la Repubblica. Che piaccia o meno a quelli delle “derive autoritarie” o dell’ingovernabilità.


Forse sarebbe il caso di parlare – con pacatezza e moderazione – e spiegare le ragioni nel merito a quel popolo (enorme) di moderati silenziosi e indecisi. Ma pare di chiedere troppo a chi si bea, ormai, di parlare solo a se stesso ed alle proprie (sparute) folle osannanti.


Per approfondire meglio proprio il tema della comunicazione referendaria, ho intervistato Mauro Cristadoro della TWIG – azienda specializzata nell’analisi dati e nella comparazione dei risultati.


Ascolta La social reputation del #ReferendumCostituzionale” su Spreaker.


I loro dati parlano chiaro: due mondi che si contrappongono, che non si parlano, che non dialogano, in cui ciascuno ormai parla solo al proprio pubblico.

Marella a Napoli, opening party del nuovo store con Luca Argentero

L’abbigliamento femminile di Marella, brand nato come collezione nel 1976 e come società autonoma nel 1988, si sposta in un nuovo store con sede a Napoli.

Il marchio facente parte di Max Mara Fashion Group, apre il suo nuovo flagship store in via Toledo, a Napoli, nel cuore della città.
Lo storico negozio di via Scarlatti non è più solo, è accompagnato da un nuovo punto vendita di 160 metri quadrati su due piani.

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L’idea strutturale dello store ricorda le forme, il colore, l’aspetto e il calore di una casa, di un contesto familiare e genuino. Il rosa è il protagonista della nuova immagine retail del brand assieme al grigio dei pavimenti, al rame e alle strutture in plexiglass.
Il concept store interpretato e firmato dallo studio CLS Architetti di Milano, emana un gusto e un sapore italiano glam chic.
Andrea Simonazzi, direttore Generale di Marella da aprile 2015, ha commentato: “Il retail diretto fa parte della nostra storia. Il nostro obiettivo è quello di aumentare il numero di store di proprietà nei prossimi anni, ad oggi circa 160 in tutto il mondo“.

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L’aumento dei punti vendita ha favorito l’aumento delle vendite stesse anche grazie al rinnovo del sito web che possiede una nuova e diversa impronta editoriale.
Inoltre, tra le città toccate dal brand, anche Treviso: è in corso l’apertura di un nuovo store con affaccio su Palazzo dei Signori, proprio nel cuore della città.

L’opening party esclusivo nel cuore della città di Napoli, ha visto la partecipazione di blogger, giornalisti, gente dello spettacolo e attori come Luca Argentero.
Tra uno scatto e l’altro, Marella ha presentato le sue collezioni.

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Se le aziende del digitale investono in Italia

Gramellini ci è andato giù duro.
“Dopo la campagna pubblicitaria sul Fertility Day che avrebbe tolto la voglia di fare figli persino al ministro Delrio, la comunicazione del governo segna un altro significativo passo avanti verso il ridicolo. Nella brochure del famoso piano Industria 4.0 (credo significhi: Industria 4 – Italia 0), che dovrebbe indurre gli stranieri a investire da noi, si legge testualmente: «L’Italia offre un livello di salari competitivo che cresce meno rispetto al resto della Unione Europea e una forza-lavoro altamente qualificata». Cioè, ci si vanta del fatto che da noi quelli bravi costano poco. L’impoverimento del ceto medio non è più una catastrofe epocale, ma un’astuta strategia per invogliare gli stranieri a derubricarci alla voce «Terzo Mondo» e farci la carità di portare qui un po’ di lavoro. A mo’ di esempio attrattivo, la brochure esibisce, gonfiando il petto, la parabola esistenziale dell’ingegnere italiano medio, che guadagna 38.500 euro all’anno contro i quasi 50.000 intascati dal suo omologo europeo (e infatti emigra appena può).”


Che la moda della comunicazione porti a mettere numeri sempre più alti è ormai condizione nota.
 Ancora non ci siamo messi d’accordo su una definizione univoca di web 3.0 che già qualcuno guarda al 4,5,6.0 in qualsiasi cosa. Cosa voglia esattamente dire non è dato sapere, ma suona bene.
Così come suona benissimo dire “Apple investe a Napoli e creerà 600 nuovi posti di lavoro d’eccellenza”.
Lo slogan – perché di questo si tratta – fa il paio con Ryanair. Quella che era “brutta e cattiva” sei mesi prima quando aveva dichiarato che con queste regole pensava di ridurre le tratte nel nostro paese, e giù lo sdegno “se la compagnia low-cost vuole può anche andar via”. 
Sei mesi dopo – in concomitanza con la Brexit – la stessa compagnia annuncia un piano industriale che vedrà leasing per circa un miliardo di dollari (per nuovi aerei) e nuove tratte, tra cui anche l’Italia. Immediatamente il messaggio è diventato che “Ryanair investiva un miliardo in Italia” e di colpo da “compagnia low-cost che poteva togliere il disturbo” è diventata “giovane e hi-tech company che investe in Italia”.
È la comunicazione bellezza. (Ma verrebbe da dire “anche no”).
Tornando ad Apple – che ha un contenzioso in Europa per circa 3 miliardi e in Italia ha chiuso per 600milioni (pare), agli slogan stanno seguendo i fatti, e di questi fatti si parla ben poco.
In concreto Apple si appoggerà all’Università di Napoli ed alle sue strutture, per fare sostanzialmente un corso post laurea di formazione, per insegnare a giovani e brillanti laureati “come fare app da poi vendere sulla sua piattaforma iTunes”.
Il che in sé non è una cosa negativa, anzi. Uno stimolo ed una formazione alta e qualificata.
Ma niente a che vedere con investimenti (a stento 200 mila euro per strumenti, docenti propri e spese generali). Men che meno con posti di lavoro. A ben vedere parliamo di una quindicina di persone, semmai stabilizzate che già erano nel mondo universitario.
Parliamo di opportunità: giovani che avranno e se avranno buone idee impareranno come trasformarle in app per Apple, che guadagnerà il 50% da ogni download a pagamento. E parliamo di competenze che questi ragazzi se vorranno, sapranno, e con capitali propri, potranno trasformare in aziende che offriranno sul mercato un servizio: creare app per Apple.


Perché Napoli e il sud? Perché abbiamo menti, cervelli, giovani con poche prospettive altrove e nel settore, e perché chiediamo poco o nulla pur di avere qualche eccellenza. E poi si, siamo bravi, creativi… e come diceva Gramellini – e come afferma il Governo “un ingegnere italiano medio guadagna 38.500 euro all’anno contro i quasi 50.000 intascati dal suo omologo europeo”.
E si, siamo bravi, ma in più costiamo meno.
Magra consolazione.
Speriamo non sia questo il senso del 4.0.

L’importanza di Napoli in queste amministrative

In queste elezioni amministrative ci si sofferma molto sull’analisi del voto di Roma e Milano.
Il tema è corretto sotto sue punti di vista. Intanto perché sono le due maggiori città italiane. 
Poi perché presentano due caratteristiche che “piace” commentare. 

A Milano si fronteggiano socialmente alla pari due candidati speculari nel classico centrodestra-centrosinistra. Ciò avviene per altri due motivi. Il primo che Milano è sostanzialmente una città amministrata bene e che funziona, e quando c’è la politica non c’è spazio per l’antipolitica.
Del resto dove c’è, a Milano l’antipolitica è già rappresentata dal duo Salvini-Meloni integrati nel centrodestra. Il secondo che la popolazione milanese è sufficientemente matura dal votare anche con un voto di protesta, ma di non cedere la propria città all’improvvisazione. Avrebbe, semplicemente e scientemente, troppo da perdere.


A Roma si fronteggiano il Pd – rappresentato da Roberto Giachetti, che è un profondo conoscitore della politica romana dai tempi dei Radicali, e della macchina comunale dai tempi di Rutelli – e Virginia Raggi, di un Movimento Cinque Stelle che a Roma è forte della maggioranza dei volti noti grillini dalla Taverna, a Di Battista alla Lombardi, e che trionfa grazie ad un – finanche dichiarato – voto di protesta di centrodestra. Una sfida che vede per la prima volta un candidato M5S al ballottaggio in testa, e di parecchio. Una sfida che qualcuno malignamente vorrebbe la Raggi vincesse per far capire quanto non siano poi capaci di governare. Ma questo è un altro pezzo del politichese.


La sfida torinese appassiona poco, e male. La Appendino va al ballottaggio con un Piero Fassino che dovrebbe vincere, e di molto. E lei rappresenta il volto pulito dell’impopolare centrodestra torinese (basterebbe leggere il suo curriculum personale e la sua biografia), che non a caso si presenta frastagliatissimo in almeno cinque candidature dichiarate, alla conta di quanto conta ciascuno individualmente, nell’incapacità di presentare un progetto comune.


A me invece – e non per campanilismo e provenienza – ha appassionato e interessato molto più la sfida di Napoli. Che tutti danno per scontata, che tutti analizzano con gli errori in casa Pd, ma che – come spessissimo è accaduto – in pochi analizzano nel profondo e comprendono sul serio.
Perché Napoli – e in questo la scarsa memoria nazionale non aiuta – da sempre è stata uno straordinario laboratorio politico che ha anticipato di anni le vicende nazionali. E la sua vicenda amministrativa ha molto da illustrare e far comprendere per avere un vantaggio su quanto sta avvenendo e avverrà altrove.
In parte per le brevi considerazioni fatte su Roma, Milano e Torino. In parte per sue connotazioni di originalità che sarebbe il caso affrontare seriamente, e con meno superficialità.


Mentre nella stagione ’91-’92 in piena tangentopoli nasceva la stagione dei sindaci “civici”, a Napoli Antonio Bassolino faceva nascere “i progressisti”, compattando ed allargando l’idea del centrosinistra. E mentre i progressisti si presentarono alle prime elezioni politiche nei collegi uninominali, a Napoli nasceva la prima idea di Ulivo. E mentre l’Ulivo di Prodi mostrava tutti i segni delle sue fragilità, è stato a Napoli che si è sfaldato ed è crollato. E quando Berlusconi vinse la seconda volta, fu propio a Napoli (ed in Sicilia) che prese quel pieno di voti insperato che lo fece tornare a Palazzo Chigi. Esattamente come fu a Napoli – simbolicamente – che dovette abdicare con quell’avviso di garanzia consegnato durante il G8.
A Napoli si vince e si perde. Con segnali ampi in politica nazionale con qualche anno di anticipo. E le amministrative anche in questo caso, a leggerle bene, hanno mostrato una modernità – e un banco di esame mancato da tutta la politica – con cinque anni di anticipo.


Nel 2011 crollavano a Napoli e in Campania i grandi nomi del centrodestra, che prima qui e poi in tutta Italia mostrarono la fragilità del progetto del PDL senza primarie e forme di ricambio generazionale. E il 2013 lo ha stabilito elettoralmente senza incertezze.
Nel 2011 la politica ha ceduto il passo al mondo eterogeneo dell’antipolitica, con un ballottaggio tra De Magistris e Lettieri che appariva – sino al giorno prima – fantascienza.
Cos’era accaduto? Un centrodestra sfasciato aveva trovato in Lettieri un candidato apparentemente civico dietro cui potevano stare tutti i colonnelli privi di esercito.
Il centrosinistra nella presunzione di vincere comunque – dopo vent’anni di governo regionale, provinciale e cittadino – non curante dell’esempio Guazzaloca, alla bagarre interna ha dato come risposta Morcone. Accede al ballottaggio insperatamente e per pochi punti percentuali Luigi De Magistris. Con una campagna anti-casta, anti partiti, detta “rivoluzione arancione”. In modi e forme ben diverse da un Pisapia a Milano e un Marino poi a Roma passati da primarie e regole interne.


Si è pensato – in modo miope e cinico – che fosse un fenomeno che sarebbe passato da solo, che si sarebbe spento, che sarebbe confluito nei ranghi di questo o quel partito, con un invito al voto, e tutto riconnesso nel solito vecchio inciucio di palazzo.
Potevano essere cinque anni utili a capire, ad analizzare, a cercare soluzioni alternative.
Ma proprio la via scelta qui, a Napoli, anche quella ha anticipato i tempi di cinque anni.
Invece di costruire leadership forti attorno cui costruire un nuovo consenso ed una progettualità comune, i partiti “strutturati” hanno scelto di trasformarsi in comitati elettorali, divisi in fazioni, spesso in componenti decise a fronteggiarsi in ogni campagna elettorale per consolidare e spartirsi e ricollocare ciò che restava del potere ormai personale e individuale di qualcuno.
Ed ancora una volta, dopo cinque anni, si è dato per scontato che un consenso nazionale avrebbe ribaltato una percezione ed una situazione locale.

Fare questa analisi su Napoli non serve dunque solo a commentare l’esito elettorale di ciò che avviene ed è avvenuto nella terza città italiana, ma va ben oltre, se ci togliamo tutti i paraocchi.
È l’esempio concreto di ciò che può avvenire a Roma, a Milano, a Torino, in tutti i partiti e in ogni città se si seguirà – ancora – questa strada.
Se si considererà ancora una volta la vicenda napoletana come un’anomalia, un unicum, da lasciare a se stessa, e non come invece la storia ha dimostrato essere quello che è. Uno straordinario laboratorio politico in cui tentare, costruire, sperimentare, soluzioni politiche e sociali ed economiche utili al paese, e quindi anche alla salute della politica.


Napoli oggi più che mai è un monito nazionale che dice con chiarezza che se i partiti immaginano di continuare la guerriglia interna a caccia di potere allora abdicheranno al proprio ruolo e trionferà – e giustamente – l’antipolitica, con tutte le conseguenti derive del caso.
Napoli mostra con chiarezza che se i partiti non diventano luogo centrale di incontro, unificante, di progettazione e tra i cittadini, ma resteranno piccoli comitati elettorali personali, per altro frammentati e in guerra tra loro, a trionfare sarà l’antipolitica, non più localistica e localizzata, ma generale e nazionale.
Così come Napoli mostra che serve un centrodestra credibile, che però lo si costruisce aprendo, lasciandosi alle spalle un partito padronale, e immettendo nel dibattito politico energie nuove e un forte ricambio generazionale.
Poi si, si possono fare tutte le alchimie delle leggi elettorali del caso, ma più che elemento e momento di innovazione e governabilità, queste si mostreranno per ciò che sono: l’ultima carta per l’auto-conservazione di un ceto politico a difesa di se stesso ed autoreferenziale. Avviandoci tutti ad una lenta eutanasia che non fa bene al paese.

Il PD e il munaciello

Mancava solo la ciliegina finale su una torta che sempre più si mostra come un vero e proprio pasticcio, e nemmeno tanto dolce. Le accuse, i dubbi e le indagini di voto di scambio sono ciò che mancava ad una campagna brutta, demotivante, personalistica, che ha caratterizzato questa tornata elettorale in casa Pd da ben prima delle primarie. In una sorta di continuazione della lunga bagarre interna in cerca di posizionamento delle varie bande (non chiamiamole correnti) in cui si è lacerato il Pd.


Da cinque anni, da quelle primarie Cozzolino-Ranieri consumatesi nel fango e nel sangue, dall’imposizione di Morcone come candidato e dal non accesso nemmeno al ballottaggio. Cinque anni in cui non solo non si è costruita un’alternativa se non credibile almeno possibile. Una guerriglia interna per piccoli interessi di parte che si è protratta per due congressi nazionali in cui chiunque almeno una volta ha cambiato casacca. Per finire alla resa dei conti della resa dei conti in occasione delle primarie per la Regione. Al tentativo di rivincita (di chi? su chi? per fare cosa?) in queste primarie finite nel ridicolo.


“La cosa incredibile è che per la prima volta abbiamo avuto primarie corrette, con tutti i rappresentanti che hanno firmato i verbali la sera stessa. Poi è uscito un video strano dopo 24 ore” sono state le parole di Vincenzo De Luca a Lira TV. Inquietante che nessuno ha chiesto conto di questa affermazione, che implicitamente afferma che tutte le altre primarie corrette non siano state. E se lo dice uno come lui, per vent’anni sindaco, che nelle primarie nazionali e regionali è sempre stato più che determinante c’era da stare tutt’altro che sereni. Già perché a Salerno ne abbiamo viste di tutte i colori: dalla Dia che sequestra 2000 tessere false alle primarie nazionali, alle parlamentarie “tarocche” che hanno visto favorire Bonavitacola.


E un Pd attaccato a livello nazionale sulla questione morale che pensa bene di fare? Nell’ordine: non accoglie un solo ricorso, non fa una sola verifica, non annulla un solo voto, non fa rivotare in una sola sezione, e ricandida quel consigliere che distribuisce monetine visto da tutta Italia, e che ha dichiarato (anche questa notizia passata in sordina) “se vengo sanzionato dico tutto”. E nessuno che si sia nemmeno posto il problema “dice tutto cosa?”.


Poi è stata la volta di ministri in vera e propria processione partenopea, mentre contemporaneamente nessuno vedeva che non si riusciva a fare mezzo accordo nemmeno sui presidenti di municipalità, rischiando sino all’ultimo che il pd non presentasse le liste a Barra e Fuorigrotta. E poi è stata la volta di accordi con Ala e qualche nome in più in lista, che non si capisce le sia stato deciso dal Pd napoletano, regionale, nazionale, dalla candidata sindaco o da qualche alieno in visita notturna. A Napoli per tradizione parleremo della “manella del munaciello”.


Ripercorrere queste tappe è importante. Perché non vorrei si facesse l’errore di pensare che oggi si attacca una dirigenza regionale e cittadina impeccabile come capro espiatorio della sconfitta elettorale. Perché qui non si tratta né di cercare agnelli sacrificali, né di dare la caccia a munacielli in giro per i corridoi di Napoli sotterranea. 
Si tratta di dire con chiarezza che chi fa il dirigente ha responsabilità per azioni, ma anche per omissioni, mette la firma sui compromessi, ne risponde personalmente. Questo fa un partito serio. E dato che noi di commissariamenti ne sappiamo qualcosa a Napoli, corriamo il serio rischio che ci fu quando un altro esterno venne qui, e in due anni Andrea Orlando – ottima persona – ci ha messo solo la faccia, lasciando che crescesse non una nuova classe dirigente, ma un sottobosco di bande che in questi due anni hanno mostrato il meglio del peggio. Risultati e inchieste alla mano.


Siamo a Napoli, e con la tradizione del munaciello noi abbiamo secoli di storia di “conquistatori esterni” che partono con le migliori intenzioni di “cambiare tutto” per poi venire fagocitati a che “nulla cambi davvero”. È la forza di Napoli, che oggi si manifesta come la sua più grande debolezza. Se ne guardi il nuovo commissario, soprattutto da chi si circonderà, da chi lo consiglierà, e da organi di garanzia che ancora una volta non saranno efficaci, perché espressioni di componente, e non certo di persone specchiate e indipendenti capaci di un rigore morale di cui questo partito e questo momento storico hanno davvero tanto bisogno.

Il PD e il disastro di Napoli

“Il bug è la città di Napoli. Non esiste un problema Campania. Esiste un problema Napoli. Il Pd a Napoli non riesce a vincere. Nella prossima direzione del Pd dopo i ballottaggi, farò una proposta commissariale molto forte per Napoli”. 
È questo il commento di Matteo Renzi, premier e segretario del Pd.
Verrebbe da chiedersi tuttavia dove sia la novità, visto che il dato era ampiamente previsto. Da molti, ma non da tutti. Ancora una volta non da quei dirigenti che vedono Napoli da Roma, con i filtri delle proprie percezioni, troppo spesso confuse con i propri desiderata.
E infatti negli ultimi giorni si era rincorsa la voce del sorpasso, dell’accesso di Valeria Valente al ballottaggio, e finanche di un calo di De Magistris.


La realtà, quella vera, racconta invece una classe dirigente in balia della guerra tra bande tra fazioni e capibastone che ha faticato non poco a sciogliere il nodo delle candidature nelle municipalità e che per un soffio ha evitato la debacle di non presentare liste in quartieri come Barra e Fuorigrotta, roccaforti democratiche, se ha ancora un senso dirlo.


Oggi si parla di voto di opinione, senza ammettere che si è tentato quello che è riuscito a De Luca: mettere insieme tutto, anche quello che insieme non sta, pur di strappare quel guizzo di voti per arraffare un ballottaggio. Quel De Luca – che Cozzolino avrebbe dovuto battere sino a due giorni prima alle primarie – che ha vinto non di quei millantati otto punti percentuali, ma di circa 40mila voti. Come a dire grazie alla lista personale di Michele Pisacane, per esempio.


Operazione non replicata in una città in cui il Pd è sempre stato tra il 16 e il 20% e che anche stavolta è riuscito a frammentare in tante civiche parte del proprio patrimonio elettorale, scivolando all’11%. Più che partito della nazione siamo ai livelli una lista civica qualsiasi.
”Il PD a Napoli mostra di essere un corpo del tutto estraneo alla città. Fatto di dirigenti semi sconosciuti, politici seguiti solo dai loro fedelissimi ed un nugolo di candidati arruolati nella speranza di una impossibile affermazione. Un Partito dopo cinque anni di inerzia totale, tenuto insieme a forza e senza alcun progetto.” questa l’analisi, tanto impietosa quanto lucida di Enrico Pennella. E non si può non condividere l’idea che non possono pensare di candidarsi a ricostruire il Pd napoletano quanti sono stati i responsabili di questo disastro. 
E tuttavia andrebbe anche chiarito, definitivamente, che questo Pd, così com’è, più che ricostruito va rifondato dalle basi, perché si connota sempre più come un contenitore di piccoli interessi localistici e bacini di voti di basso cabotaggio in balia di interessi particolari di pochi soggetti, che francamente ormai contano pochissimo. Meno di trentamila preferenze. Avere ancora un inutile timore reverenziale a “tenerli dentro” senza censure è masochismo più che scelta politica.


Ed è un Pd che non è nemmeno utile alla città, perché conta poco, rappresenta pochissimo, elegge chi ha dato un contributo irrisorio, e spesso non qualificante, anche se lo valutiamo nel semplice ruolo di consigliere. Critiche che spesso muoviamo ai cinque stelle e che quando accade andrebbero mosse nello stesso senso a tutti.


Il colpo di grazia lo darà la scelta tra le tre possibili, e tutte tombali, indicazioni: appoggiare De Magistris dopo e nonostante le tante cose dette; appoggiare Lettieri, altrettanto dopo le tante scelte politiche dichiarate, o peggio di tutte il “non dare indicazioni”, abdicando definitivamente qualsiasi idea di possibile leadership. Un cul-de-sac in cui il Pd ci si è messo da solo, e che l’attuale dirigenza non può esimersi da assumere su di sé.


I miracoli sono altrove. In quel Lettieri che riesce a non perdere nonostante tutto e nonostante se stesso e lo sfascio nazionale del centrodestra. In quel De Magistris che riesce a tenere insieme voto di protesta (rubandolo anche ai cinque stelle) voto a sinistra, i vari delusi dalla scarsa offerta politica altrui, e voto di governo. Chapeau.

Dolce & Gabbana a Napoli per celebrare i trent’anni del marchio

Alle pendici del Vesuvio, glamour e couture faranno da cornice ad una serie di eventi (quattro per la precisione) organizzati da maison Dolce & Gabbana per elargire il lusso Made in Italy attraverso una serie di gala blindatissimi e, soprattutto, per celebrare i trent’anni dalla fondazione della griffe.

 

"Pezzi di storia": il servizio fotografico Dolce & Gabbana scattato nel centro storico di Napoli (fonte Dolce & Gabbana)
“Pezzi di storia”: il servizio fotografico Dolce & Gabbana scattato nel centro storico di Napoli (fonte Dolce & Gabbana)

 

 

Napoli, straordinaria, verace, barocca, ricca di storia: la scelta di Domenico Dolce e Stefano Gabbana è stata accurata.

Una location ineguagliabile, perfetta per raccontare la storia di una maison che ha contribuito ai fasti del Made in Italy nel mondo. Le serate, ricche di fascino e di sorprese, vedranno avvicendarsi alta  gioielleria, la collezione moda donna e il savoir-faire sartoriale dei costumi maschili.

 

Servizio fotografico Dolce & Gabbana scattato a Capri per Vogue Japan 2014 (fonte country-magazines.blogspot.com)
Servizio fotografico Dolce & Gabbana scattato a Capri per Vogue Japan 2014 (fonte country-magazines.blogspot.com)

 

 

L’appuntamento è ormai stato fissato: dal 7 al 10 luglio 2016, Napoli splenderà di una nuova luce, accoglierà diverse e centinaia di celebs e clienti milionari, pronti ad ammirare e ad omaggiare il marchio nostrano.

 

 

Fonte cover reportmagazine

De Magistris e la sua lista dei desideri

Siamo in piena campagna elettorale verso le amministrative, e come sempre miracolanti candidati – specie quelli improvvisati dalla società civile – esibiscono miracolosi programmi elettorali. L’ultima è di Bertolaso, che a Roma assicura “Tevere balneabile entro cinque anni”. 
A rivangare il passato ce ne sarebbero da raccontare, soprattutto – è bene ripeterlo – da quei tanti che aspirano al massimo a entrare in consiglio comunale, senza preferenze personali, e quindi “candidati sindaco” di immaginifiche liste civiche.
Tra i tanti, e non per partito preso, vorrei ricordare il sindaco pentastellato di Civitavecchia, che promise di risanare il bilancio con una cartolarizzazione di beni pubblici (sic!), ed oggi la sua città è pressoché in fallimento.
Lo dico – e queste cose le ricordo – perché è bene ricordare che le elezioni amministrative non sono suppletive di elezioni politiche, secondi tempi, vendette, ma momento di scelta di quegli amministratori e di quelle amministrazioni da cui dipenderà la qualità della vita nel nostro quotidiano.
Mentre ricordiamo tutto questo, dovremmo chiedere ai candidati di far lavorare di più, meglio e con maggiore dignità i dipendenti pubblici, di pensare a strade, parchi, verde, asili, trasporti, e mentre “promettono” ci dicessero anche dove e come trovano le risorse.
Ebbene a Napoli la sfida è inesistente, con un De Magistris la cui sconfitta sarebbe non vincere al primo turno, visto che “gli altri” in questi cinque anni non hanno saputo costruire alcuna alternativa credibile, presi (tutti) da conte interne e da ottuse battaglie per leadership di bassissimo cabotaggio.



Nel gruppo Facebook “cittadinanza attiva in difesa di Napoli” (con circa 15mila iscritti di ogni partito, storia e pensiero) Pierluigi Trise si è preso la briga di fare archeologia politica e ripescare un pezzo raro: il programma “2011 Luigi de Magistris Sindaco” da cui citiamo :
1) no ai grandi eventi, occasionali e particolarmente costosi;

2) potenziamento dell’Istituto per gli studi filosofici;

3) creazione di un Museo per le arti e le tradizioni popolari;

4) niente più buche nelle strade;

5) differenziata al 70% entro sei mesi;

6) eliminazione dei cassonetti dalle strade;

7) l’istituzione di uno sportello anticorruzione presso ogni municipalità;

8) accesso facilitato al microcredito per giovani e le donne;

9) rete di trasporti pubblici efficiente, puntuale e organizzata oltre che economica;

10) istituzione di un biglietto low cost al prezzo di 50 centesimi per un viaggio di 20 minuti, e l’estensione dell’orario del trasporto pubblico servizio fino alle 00.30 e tutta la notte nel week end;

11) modifica degli STIR in TMM con estrusore;

12) introduzione di un sistema a tariffa per i rifiuti che premi economicamente chi si comporta correttamente;

13) vendita di prodotti alla spina e recupero dei prodotti freschi invenduti della distribuzione commerciale per cederli ai più bisognosi;

14) sviluppo e l’istituzione di impianti che sfruttino energie rinnovabili;

15) abbattimento delle vele di Scampia e la costruzione di nuovi alloggi di edilizia residenziale pubblica;

16) collocare l’università e uno studentato a Scampia;

17) promuovere contratti di comodato, soprattutto per immobili in attesa di essere riattati, a favore di artisti, per farne atelier e sale musicali;

18) lanciare un’agenzia comunale per il microcredito specializzata nel sovvenzionare attività ad alto tasso di creatività ed innovatività, per giovani e creativi;

19) convocazione del consiglio comunale allargato alla cittadinanza nella gestione dei beni comuni;

20) realizzazione del progetto “Casa delle donne” attraverso la costruzione di quattro strutture;

21) portare gli edifici pubblici ad una maggiore efficienza energetica, puntando, al risparmio e all’utilizzo delle energie rinnovabili (pannellizzazione degli edifici pubblici non sottoposti a vincolo artistico-architettonico);

22) potenziamento della dotazione di telecamere;
23) sfruttare il Forum delle culture 2013 per un grande rilancio di Napoli.



C’è un solo problema in questo elenco, ed è quella sottile linea rossa tra ciò che dice e la realtà della città. Tra ciò che è facile scrivere come intenzione, ed avere la cognizione di ciò che ci si appresta a fare. Come a dire “sapere di che si parla”. Perché amministrare è molto più complesso che scrivere una lista di desideri.
p.s. Però sono curioso di leggere il programma 2016.