Volto affilato, sguardo ipnotico e charme da vendere: Anna Cleveland è la supermodella del momento. Una bellezza fuori dagli schemi, la sua, che ha incantato fotografi e designer, lanciando la giovanissima modella nell’Olimpo della moda mondiale. Figlia d’arte, Anna Cleveland ha ereditato dalla madre il fascino androgino: e se tua madre si chiama Pat Cleveland, leggendario volto degli anni Settanta, nel tuo DNA scorre eleganza da vendere.
Vedere la giovane Anna (classe 1989) sulla passerella è un’esperienza quasi onirica: la grazia e l’energia con cui incede sicura la rendono un’icona. Teatrale ogni sua entrata, maestosa come una diva dei tempi andati la giovane monopolizza l’attenzione e in breve tutti gli occhi sono puntati su di lei. Altezza svettante (178 cm) su un fisico sottilissimo, la bellezza particolare di Anna Cleveland già a 13 anni le attira i flash dei fotografi: tante le collaborazioni, a partire da quella con lo stylist Christopher Niquet, fino a Zac Posen, di cui la modella diviene musa a soli 17 anni.
Anna è nata in Olanda, patria del padre, il fotografo Paul van Ravenstein, ma è cresciuta a Stresa, sul Lago Maggiore. C’è tanto di Italia nella sua formazione: la sua era l’unica famiglia straniera a risiedere lì. La giovane, che dal 2015 si è imposta come uno dei volti più richiesti della moda, a soli 2 anni posava per il suo primo editoriale di moda, a 4 anni calcava già la passerella di Moschino, a 13 era da Chanel con la madre e il fratello. Nel 2004 il trasferimento in New Jersey con la famiglia.
Naso aquilino e bellezza atipica, Anna Cleveland ha infranto tutti i tabù, ergendosi a musa iconica di stilisti del calibro di Jeremy Scott, che la vuole come protagonista dei suoi show per Moschino. La classe naturale e lo stile eclettico l’hanno resa una vera icona, prediletta da fotografi e stilisti.
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“Una ragazza aperta, amichevole e una sognatrice avventurosa che vede sempre il bicchiere mezzo pieno”, così Anna viene descritta dagli amici. Una ragazza qualunque, malgrado fin dall’infanzia sia stata proiettata nel mondo patinato delle passerelle: indimenticabile la madre Pat, che negli anni Settanta sfilava per nomi del calibro di Halston e Yves Saint Laurent.
“Tutte le ragazze del paese desideravano venire a casa mia per provarsi i vestiti e truccarsi di nascosto (perché le loro madri non volevano). Il mondo della moda e quello del beauty sono sempre stati i miei rifugi e mi hanno sempre dato un forte senso di autonomia e potere”, così Anna ricorda la sua infanzia. La giovane ama Ballare, recitare, cantare, leggere, viaggiare, esplorare, dedicarsi allo styling o all’arte. Saggia e con una personalità esplosiva, Anna consiglia a tutti di “nutrirsi di pensieri positivi ogni giorno… Non importa quante porte in faccia abbiate ricevuto. Ricordate, quando una porta si chiude si apre un portone. Abbiate fiducia nel tempo e amate voi stessi.”
Mistero, charme e classe da vendere: Antonia Dell’Atte, celebre musa di Giorgio Armani, spegne oggi 57 candeline. Diva contemporanea dall’allure algida e dallo stile sofisticato, la bellissima top model italiana è uno dei personaggi più amati del fashion system internazionale. All’anagrafe Antonia Teodora Dell’Atte, la splendida modella è nata ad Ostuni il 9 febbraio 1960. La sua carriera nella moda inizia alla fine degli anni Settanta: altezza svettante e volto affilato, già pochi anni dopo Antonia diviene il volto più amato da re Giorgio Armani, che si innamora della sua eleganza innata.
Antonia è la perfetta incarnazione dello stile Armani: le foto della campagna pubblicitaria scattata da Aldo Fallai entreranno nella storia del costume restandovi impresse indelebilmente. Immortalata come una manager rampante, androgina e raffinata, la modella ottiene la fama internazionale. Nel 1984 nel programma televisivo cult Drive In viene forgiato un personaggio a sua immagine e somiglianza: una modella aplomb che di tanto in tanto si lascia andare ad irresistibili exploit in dialetto brindisino. Celebre è la frase “Scusate, ho avuto un momento casual!”. Nel 1993 segue la partecipazione al videoclip della canzone Caffè de la Paix di Franco Battiato.
Intanto Antonia è diventata protagonista del jet set internazionale: Helmut Newton ne immortala il lato più sensuale in scatti iconici per il Calendario Pirelli e lei si divide tra sfilate e copertine patinate. Negli anni Novanta vola in Spagna, dove convola a nozze con il conte italo-spagnolo Alessandro Lecquio di Assaba y Torlonia, figlio della principessa romana Alessandra Torlonia di Civitella-Cesi. Dal matrimonio la top model ha un figlio, Clemente Lorenzo conte Lequio di Assaba. Gli anni Duemila la vedono nelle vesti inedite di opinionista nel programma televisivo L’isola dei famosi 7. Nell’estate 2010 è giudice a Velone, su Canale 5, e l’anno successivo veste nuovamente i panni di giudice nel programma Italia’s Next Top Model in onda su SkyUno, condotto da Natasha Stefanenko.
Numerose sono anche le esperienze come attrice: nel 2002 la ritroviamo protagonista della fiction italiana andata in onda su Raiuno “L’altra donna”, accanto ad Alessio Boni ed Anita Caprioli. Antonia Dell’Atte interpreta una donna magnetica e misteriosa, amante perduta del protagonista Boni. La modella, al vertice della fama, è presenza fissa nella tv italiana e spagnola. Ancora splendida e spontanea nonostante la celebrità, Antonia Dell’Atte ama l’Italia e la sua Puglia. Tanti gli eventi che la vedono protagonista, a partire dalle settimane della moda.
È stata celebre modella per fotografi come Helmut Newton e musa di stilisti del calibro di Halston: incarnazione dello stile degli anni Settanta, Elsa Peretti è stata una socialite e celebre firma dei gioielli iconici realizzati per Tiffany & Co. nell’arco di una collaborazione lunga oltre quarant’anni.
Ha ballato con Warhol allo Studio 54, ha abbandonato gli agi di una famiglia blasonata per andare in cerca della propria indipendenza e ha vissuto nella Spagna di Franco e nella New York dell’era disco: Elsa Peretti è un’icona di stile che, col suo carisma e la sua personalità a dir poco esplosiva, ha impresso un segno indelebile nella storia del costume del Novecento.
Bella e sofisticata, il suo stile iconico trova sublime espressione nei capi di Halston: un’amicizia lunga una vita la legò allo stilista, autorevole interprete dello stile Seventies. Largo quindi a lunghi abiti fluidi, impreziositi da drappeggi e tagli audaci, per capi che ricordano i pepli delle dee greche. Un’eleganza unica, che strizza l’occhio all’American Style di cui Halston è stato interprete privilegiato, tra suggestioni disco-glam e virtuosismi stilistici forse mai superati.
E nello stile della it girl non potevano certo mancare i gioielli: Elsa Peretti scoprì di avere un talento naturale nel design del gioiello nel 1969, quando posava ancora come modella. Dapprima disegnò i gioielli per le collezioni di Giorgio di Sant’Angelo e dello stesso Halston, prima di firmare, nel 1974, il contratto per Tiffany & Co., grazie al quale l’icona raggiungerà la fama mondiale: largo a bangles preziosi e allo stesso tempo semplici, per linee essenziali e moderne. Uno stile tutto da copiare, per autentiche dive contemporanee.
C’è chi lo stile lo copia e c’è chi invece lo detta: il nome di Elsa Peretti domina il fashion system da oltre cinquant’anni. Designer di gioielli dal fascino unico, modella, ma anche filantropa ed icona di stile, Elsa Peretti ha influenzato la moda a partire dagli anni Settanta: il suo stile unico e il suo storico sodalizio con Tiffany & Co. costituiscono uno dei pilastri del gusto, pietra miliare nella storia del costume e della moda.
Arbiter elegantiae e trendsetter ante litteram, Elsa Peretti dalla vita ha avuto davvero tutto, complice anche una personalità eclettica ed un carattere granitico: non aveva certo bisogno di denaro Elsa, nata in una delle famiglie più ricche d’Italia. La ribellione le scorreva nelle vene e, anziché portarla ad adagiarsi sugli allori del lusso, la condusse verso orizzonti lontani ed inusitati. La socialite abbandonò le sicurezze e gli agi che le venivano garantiti in Italia e partì da sola alla volta della Spagna, con una valigia piena di sogni e ambizioni. Una tra tutte, trovare se stessa.
Nata a Firenze il primo maggio 1940, Elsa è la figlia minore di Ferdinando Peretti e Maria Luisa Lighini. Suo padre è un ricco industriale, fondatore dell’Anonima Petroli Italiana (API). La giovane studia a Roma e poi in Svizzera, dove dapprima si mantiene dando lezioni di italiano e successivamente lavorando come istruttrice di sci a Gstaad. Nel 1963 il trasferimento a Milano per studiare interior design: qui Elsa lavora per l’architetto Dado Torrigiani. L’anno seguente abbandona la sua famiglia conservatrice e si trasferisce a Barcelona, dove tenta i primi vagiti di una carriera nella moda: sensuale e statuaria, per Elsa si spalancano immediatamente le porte del fashion system. Ma la famiglia, fortemente conservatrice, non approva quella scelta e i genitori non le parlano per anni.
La Spagna all’epoca è sconvolta dalla dittatura franchista. Tuttavia qui Elsa respira una libertà mai sperimentata prima: tutto è nuovo per lei, i marines, le prostitute, i fiori, l’oceano resteranno per sempre impressi nella sua memoria. La giovane si avvicina al movimento della Gauche Divine, la resistenza intellettuale al franchismo. Dopo alcuni anni trascorsi a Barcelona, Elsa vola a New York su consiglio di un agente della Wilhelmina Modeling Agency, l’agenzia che la rappresenta. È una fredda giornata di febbraio del 1968 a fare da sfondo al suo arrivo nella Grande Mela: Elsa arriva a New York con un occhio nero, indesiderato souvenir di un suo amante che non voleva lasciarla andare. Il primo incontro con la Grande Mela è quasi uno shock per lei: uscita indenne dal caos e dagli scioperi che sconvolgono la città, la giovane giunge all’Hotel Franconia, che diviene la sua casa. Elsa non ha un dollaro in tasca ma ha una fede quasi mistica nelle possibilità che a breve le verranno offerte. Nessuno a New York sembra conoscerla e tutti ignorano la ricchezza della sua famiglia di origine: “Sapevamo tutti che Elsa veniva dal denaro ma non avevamo idea di quanto denaro”, dirà Marina Cicogna.
A New York Elsa inizia una carriera di successo: divenuta presenza fissa allo Studio 54, nel suo circolo di frequentazioni spiccano icone pop come Andy Warhol. Elsa è richiestissima come modella. In tanti la immortalano, a partire da Helmut Newton, di cui sarà anche amante: indimenticabile lo scatto che la ritrae sospesa tra i tetti di New York in costume da coniglietta di Playboy. Correva l’anno 1975 e quella foto è entrata di diritto nell’immaginario collettivo, restando impressa indelebilmente come una delle immagini iconiche degli anni Settanta.
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Elsa Peretti fotografata con i suoi gioielli per Tiffany & co. a Sant Marti Vell, Spagna, nell’aprile 1977. (Foto di Hilda Moray)
Elsa Peretti e Salvador Dali’, foto di Oriol Maspons, agosto 1966
Uno scorcio della casa dell’icona a San Marti Vell
Elsa Peretti immortalata da Francesco Scavullo, 1976
Elsa Peretti in una foto di Timothy Greenfield Sanders
La designer con Bobby Breslau
Elsa Peretti, Halston e Katen Bjornson, anni Settanta
Elsa Peretti per Vogue, marzo 1975 (Foto Horst. P. Horst).
Elsa Peretti ad Hong Kong, fine anni Sessanta
Elsa Peretti a Kyoto, Giappone
La designer durante uno dei suoi viaggi
Il decor della casa di Elsa Peretti in Toscana firmato Renzo Mongiardino (Foto Fritz von der Schulenburg)
Elsa Peretti, New York, 1975 (Photo by Michael Tighe/Hulton Archive/Getty Images)
Uno scatto celebre
La sensualità di Elsa Peretti
Elsa Peretti a Sant Marti Vell, Spagna, col suo cane Tomasino, 1976
Elsa Peretti nel 1977, foto di Jack Mitchell
Foto di Hilda Moray
Uno scatto risalente agli anni Settanta (Foto VANITY FAIR)
Elsa Peretti nel 1969 (Foto CORBIS)
Elsa Peretti in uno scatto iconico
La designer
Elsa Peretti è stata una top model ricercatissima
Elsa vive tra eccessi di ogni tipo ed abusa di cocaina: sono gli anni in cui il glam sembra dominare, in un mondo in cui la trasgressione è un must. La giovane adora ballare e frequenta ogni discoteca, dal Le Jardin al Max’s Kansas City al Saint, fino allo Studio 54 e al Paradise Garage. La sua bellezza mediterranea le fa firmare numerosi contratti: la giovane, alta e sofisticata, attrae l’attenzione di designer del calibro di Charles James e Issey Miyake, che la vuole in passerella. Ma solo con Roy Halston Frowick, il primo che Elsa incontra appena arrivata nella Grande Mela, alla fine degli anni Sessanta, sarà amore a prima vista: tra i due nascerà un’amicizia destinata a durare per tutta la vita. Immortalata da nomi illustri, da Newton a Scavullo fino a Salvador Dalí, la ragazza copertina ha una marcia in più rispetto alle colleghe: la sua personalità. “Elsa era diversa dalle altre modelle. Le altre erano grucce, manichini, ma lei aveva stile. Lei faceva suo l’abito che indossava”, ha dichiarato Halston. Tuttavia Elsa odia il lavoro di modella: quasi terrorizzata dalla sola idea di dover posare davanti ad un obiettivo, sfrutta la professione solo per potersi mantenere, dopo essere stata diseredata dalla famiglia d’origine.
A proposito della sua amicizia con Halston, Elsa Peretti dichiarerà: “Ho passato i momenti migliori con lui quando eravamo lontani dalla moda e da quella gente. Poco a poco diventammo amici. A un certo punto la cocaina finì e iniziammo a farci le canne”. Tra i loro amici figuravano lo stilista Giorgio di Sant’Angelo, l’illustratore Joe Eula, Victor Hugo, amante di Halston, ed Andy Warhol. Joe era il più affettuoso del gruppo ed era solito cucinare per tutti. A volte faceva una capatina anche Liz Taylor.
Il primo approccio alla gioielleria risale al 1969: un giorno Elsa confida all’amico Giorgio di Sant’Angelo di voler creare dei gioielli. Per lei è poco più di un hobby, sebbene la passione per i gioielli le scorra già nelle vene. Ad ispirarla nella sue creazioni iniziali sono oggetti apparentemente banali, scorci di una quotidianità che agli occhi geniali di Elsa Peretti sembra assumere i toni di un’epifania pregna di simbolismi arcaici: che sia un vaso di fiori argentato scovato in un mercatino delle pulci o che siano suggestioni prese a prestito dalla natura, quei gioielli creati quasi per gioco ottengono grande visibilità fin dalla prima esposizione pubblica, che ha luogo in una vetrina di Bloomingdale’s. La giovane capisce di avere del talento quando le sue creazioni, presentate durante una sfilata di Giorgio di Sant’Angelo, colpiscono tutti i presenti. Nel 1971 inizia a creare gioielli per l’amico Halston: per quelle creazioni utilizza l’argento, un materiale molto inusuale nell’alta gioielleria, considerato alquanto banale. Quando firma un contratto con Tiffany & Co. come designer indipendente, Elsa Peretti è già stata insignita di un Coty Award (ricevuto nel 1971) ed è già apparsa su Vogue. Sarà proprio Halston, nel 1974, ad accompagnarla al colloquio di lavoro che cambierà la sua vita, con l’allora CEO di Tiffany & Co., Walter Hoving. La designer viene subito assunta ed in breve entra nell’Olimpo: una cover del Newsweek del 1977 la immortala come l’iniziatrice della più grande rivoluzione nel mondo della gioielleria dai tempi del Rinascimento. «Il giorno in cui Elsa è entrata a far parte di Tiffany –ha dichiarato qualche anno fa il presidente e Ceo del brand, Michael Kowalski– noi siamo entrati in una nuova era della nostra storia di innovazione nel design».
Iconici e suggestivi, i suoi gioielli rompono con la tradizione ed inaugurano un’estetica inedita: forme caratterizzate da linee essenziali, che traggono ispirazione dalla natura, ma anche dall’architettura o dalle gloriose vestigia del passato; suggestioni neoclassiche ma al tempo stesso fortemente improntate alla contemporaneità, per pezzi unici divenuti dei classici senza tempo.
L’elemento naturale predomina nelle collezioni Starfish e Bean, rispettivamente ispirate alle stelle marine e ai fagioli; le sue forme sensuali rivoluzionano il design del gioiello ed incantano il mondo intero. Da quel lontano 1974 Elsa Peretti ha creato più di 30 gioielli iconici nelle sue collezioni per Tiffany. Artista magistrale dotata di grande fantasia, Elsa Peretti ha esplorato la natura con la sensibilità di uno studioso e la visione di uno scultore. Le viene inoltre riconosciuto il merito di aver conferito nuova dignità all’argento, dandogli il posto che meritava nel design del gioiello. Convinta che l’eleganza sia sinonimo di semplicità, la designer ha sempre prediletto gioielli adatti ad essere indossati tutti i giorni, sdoganando anche i diamanti: la sobrietà con cui la designer usa il diamante ha rivoluzionato il modo di indossare queste pietre preziose. “Penso sempre che la gente mi faccia complimenti per quel che ero e non per quel che sono adesso. Adesso io sono Tiffany”, dichiarerà molti anni dopo Elsa Peretti. Nel 2012 Tiffany ha rinnovato la collaborazione con la designer per altri vent’anni. Testarda e ostinata, Elsa Peretti ha commentato il rinnovo del contratto come la sua “ricompensa per il passato”. Mai nessuna come lei: la designer fece guadagnare alla maison cifre mai toccate prima di allora. “Le persone vengono dimenticate così in fretta, io voglio sopravvivere”, ha dichiarato durante un’intervista.
La vita d Elsa si staglia sullo sfondo dell’era disco: molti dei suoi amici muoiono di AIDS o per l’abuso di sostanze stupefacenti. Nel 1971 la designer decide di dare un taglio al consumo di cocaina. Intanto al suo fianco c’è sempre il fidato Roy Halston, per il quale disegna la linea di cosmetici e le boccette di profumo: come lei stessa ha dichiarato nel corso di un’intervista, tra i due vi era una tensione sessuale mai consumata. Ma il loro rapporto cominciò ad incrinarsi nel 1978: durante quella che doveva essere una serata tranquilla, Elsa litigò furiosamente con lo stilista, dando fuoco ad una pelliccia che questi le aveva regalato. Rimproverandolo di essere troppo freddo ed interessato solo all’apparenza, Elsa Peretti fece una scenata ad Halston. “Al massimo mi chiedeva che cosa indossassi. Ma a mezzanotte non vuoi certo parlare di vestiti”, dirà la designer. “La tua amicizia per me significa molto più di questa fottuta pelliccia”: queste le parole che suggellarono la fine della loro amicizia. Dopo un silenzio di tre mesi i due si rincontrano allo Studio 54 in una notte di aprile: ma il rancore è ancora lì ed Elsa svuota una bottiglia di vodka sulle scarpe dello stilista. Successivamente, stanca di vivere a New York, città che considera “non adatta alle relazioni”, la designer si rifugia in Spagna: qui si innamora di Sant Martí Vell, un piccolo centro della Catalogna. Qui la designer acquista un vecchio maniero che inizia a ristrutturare. Il castello è circondato da un’aura di mistero dal momento che tra quelle mura molta gente nei secoli passati morì di peste bubbonica. All’apice del successo, Elsa Peretti possiede appartamenti a Roma, New York, Montecarlo, Barcelona e Porto Ercole: qui acquista una casa risalente al Sedicesimo secolo affidando l’interior design al genio di Renzo Mongiardino.
Elsa Peretti non si è mai sposata e la sua relazione più lunga è stata quella con Stefano Magini, incontrato nel 1978 e rimasto al suo fianco per 23 anni. Nel 1977, alla morte del padre, reo di averla diseredata, la designer eredita una fortuna. Schiva e riservata, una delle figure più importanti nella sua vita sarà proprio Halston: i due si riconciliarono due anni prima della morte dello stilista, avvenuta nel 1990. Lui andò a trovarla nel suo sontuoso appartamento di Porto Ercole e insieme telefonarono per scherzo al loro comune amico Joe Eula. “Quello che davvero amavo in Halston era l’incoraggiamento che mi diede. Quando ti piace quel che qualcuno fa, è importante dirglielo”.
Nel 2000 Elsa Peretti fonda la Nando Peretti Foundation, che porta il nome del padre: l’attività predominante della fondazione è quella di proteggere i diritti civili ed umani con particolare attenzione all’istruzione, ai diritti dei bambini, delle donne e delle minoranze oppresse. La Fondazione nel 2015 ha cambiato nome, diventando la Nando and Elsa Peretti Foundation. Nel 2008 il British Museum ha acquistato 30 creazioni di Elsa Peretti, definendo la sua opera “superba artigianalità avente anche significato simbolico nell’epoca moderna”.
Nel 2013 Elsa Peretti è la prima persona non catalana ad essere insignita del National Culture Award dal National Council for Culture and the Arts (CoNCA). La Fondazione che porta il suo nome ha promosso le arti visive e ha protetto il patrimonio storico e artistico della Catalogna. Numerose le opere promosse, come il restauro della chiesa di Sant Martí Vell.
Sublime incarnazione degli anni Settanta, Elsa Peretti è stata simbolo di uno stile divenuto iconico. Donna libera e ribelle, i suoi gioielli e la sua intera vita rappresentano la parabola di uno spirito libero. “Chiunque sia stato ribelle una volta nella vita non può tornare ad essere convenzionale”, ha affermato la designer. I gioielli disegnati per Tiffany & Co. hanno sdoganato un nuovo concetto di lusso, che unisce suggestioni couture alla semplicità di linee essenziali e minimali. Perché l’eleganza è semplicità.
Spegne oggi 70 candeline Patti Smith, cantante e poetessa statunitense e icona musicale. Un carisma unico, intriso di suggestioni bohémien e una voce che, dagli anni Settanta ad oggi, non ha mai smesso di ammaliare. Maudite quanto basta per affascinare, Patti Smith è stata tra le protagoniste del proto-punk e della New Wave.
Inserita dalla rivista Rolling Stone al quarantasettesimo posto nella classifica dei 100 migliori artisti di tutti i tempi, camaleontica e ribelle, la sacerdotessa del rock ha attraversato indenne le mode e i tempi, ergendosi a profetessa, sibilla dall’aura mistica che, già nei lontani anni Sessanta, era proiettata in un futuro ancora incerto, che con la sua musica ha contribuito a concretizzare. Bellezza androgina, il suo amore per la poesia trascende gli angusti confini della nativa Chicago e la porta, ancora giovanissima, a New York. Icona punk, conferì alla musica rock suggestioni prese a prestito da quegli stessi poeti che amava tanto.
Patricia Lee Smith è nata a Chicago il 30 dicembre 1946, un lunedì come tanti, se non fosse per la bufera di neve che sconvolge la cittadina statunitense. Sua madre Beverly Smith era una cantante jazz che per sopravvivere aveva dovuto accantonare le proprie ambizioni lavorando come cameriera, mentre il padre Grant Smith era un macchinista negli impianti Honeywell. Prima di quattro figli, Patti trascorre la sua infanzia in povertà, sullo sfondo di un’America perbenista e bigotta. A quattordici anni la giovane è alta 1,75 cm per neanche 50 chili: presa in giro dai compagni di scuola per quel suo fisico pelle ed ossa, disegna, balla e scrive poesie, mentre trova un primo lavoro in fabbrica.
Appena diciannovenne, nel 1966 Patti resta incinta: il padre del figlio che porta in grembo è un diciassettenne. Troppo immaturo per assumersi le responsabilità di un figlio, il giovane non viene neanche coinvolto da Patti, che nell’anniversario del bombardamento di Guernica partorisce una bambina e la dà in adozione. Sola e senza lavoro, la giovane non può provvedere al mantenimento della figlia: lei, che sognava di diventare insegnante, viene allontanata dal college di Glassboro, New Jersey, e si ritrova senza una meta. “Decisi che non sarei tornata in fabbrica né a scuola. Sarei diventata un’artista. Avrei dimostrato il mio valore”. “Anche se non ho mai messo in dubbio che me ne sarei separata, ho imparato che concedere una vita e poi abbandonarla non è così facile”, dirà a proposito della decisione di abbandonare la bambina. Patti trova rifugio nella poesia, soprattutto nei versi dell’amato Rimbaud.
Nel 1967 decide di partire per New York, con una valigia scozzese gialla e rossa contenente qualche vestito e pochi ricordi. “Nessuno mi stava aspettando, tutto mi aspettava”, ricorderà così il suo arrivo nella Grande Mela. Alcuni suoi amici studiano al Pratt Institute, celebre scuola di arte e design di Brooklyn. Patti spera possano introdurla nel loro ambiente. Ma quando arriva in quella che dovrebbe essere casa loro, trova solo un ragazzo che dorme su un letto in ferro: riccioli bruni e collana di perline sul petto nudo, il ragazzo le sorride dolcemente ma Patti fugge da lì senza chiedergli nemmeno il suo nome. Il ragazzo è Robert Mapplethorpe: i due divideranno la casa e la vita. Ancora ignari del futuro che li attende e del rispettivo successo che otterranno -Patti nella musica e Robert nella fotografia- vivranno un rapporto che travalica l’amore e l’amicizia: anime complementari unite dai medesimi ideali, i due resteranno uniti per il resto della vita.
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Patti Smith è considerata la sacerdotessa del rock
L’artista in una foto del 2003
Patti Smith nel 1976
La cantante nel 1978
Due polaroid risalenti al 1978
Patti Smith nel 1988
Patti Smith in una foto di Richard Avedon, 1998
Patti Smith immortalata da Robert Mapplethorpe, 1978
Patti Smith, foto di David Gahr, 1971
Patti Smith in una foto di Mapplethorpe, anni Ottanta
Patti Smith, foto di Robert Mapplethorpe, 1975
Patti Smith, foto di David Gahr, New York 1971
Foto di David Garh, 1971
Patti Smith e Robert Mapplethorpe, foto di Kate Simon, 1979
Patti Smith e Robert Mapplethorpe, foto di Lloyd Ziff, 1969
Patti Smith e Robert Mapplethorpe, foto di Norman Seeff, 1969
Foto di Kevin Cummins, anni Settanta
Patti Smith, foto di Steven Sebring
Uno scatto risalente agli anni Settanta
La regina del punk-rock è stata protagonista del Calendario Pirelli 2016
La New York di fine anni Sessanta è crocevia di mondi e tendenze: qui si incontrano il rock & roll e il beat, il punk e il glam, in club come il Max’s Kansas City come nel mondo underground del CBGB. Patti scandaglia ogni libreria alla ricerca di un impiego: i libri sono il suo buen retiro, l’unico posto in cui si senta a suo agio. La ragazza non ha un soldo in tasca e vive per strada, dormendo dove capita, che si tratti dei vagoni della metropolitana o degli androni dei palazzi. Sognatrice e idealista, si nutre solo di parole e dei versi dei suoi amati poeti: accanto a Rimbaud, la giovane è ossessionata da Sylvia Plath. Spirituale e testarda, l’artista si è autodefinita “una semplice operaia delle parole”.
Proprio quando sta per arrendersi, è il fato a salvarla: Patti è disperata, vorrebbe tornare a casa a Chicago, ma non ha nemmeno i soldi per comprare il biglietto e sarà solo il fortuito ritrovamento di una borsetta dentro una cabina telefonica a permetterle di restare a New York. Patti, che ringrazierà per sempre quella sconosciuta benefattrice -come dichiara lei stessa in “Just Kids”, sua autobiografia edita da Feltrinelli, libro vincitore del National Book Award per la saggistica nel 2010- trova lavoro come cassiera in una delle librerie della catena Brentano, sulla Quinta Strada: qui vende gioielli etnici e manufatti d’artigianato. Quando un uomo molto più anziano le propone di salire a casa sua, la giovane viene salvata ancora una volta dal destino: “Mi guardai in giro con disperazione, incapace di rispondere a quella proposta, quando scorsi un giovane avvicinarsi. Fu come se uno squarcio di futuro si fosse aperto”. Il giovane bruno che fingerà di essere il suo ragazzo è ancora una volta Robert Mapplethorpe: da quel momento i due saranno inseparabili.
Patti recita poesie al Mercer Arts Center del Village, lavora inoltre come giornalista musicale e vola a Parigi sulle orme di Rimbaud e Verlaine. Nel 1975 nasce il Patti Smith Group: insieme a Lenny Kaye mette insieme una band di musicisti e dà vita ad uno spettacolo in cui unisce poesia e rock, dando ufficialmente inizio alla corrente New Wave della musica, che la vede come sua vestale. Arriva quindi Horses, il primo disco: la foto di copertina, che la immortala in camicia bianca maschile, è stata scattata da Mapplethorpe. “Io avevo in mente il mio aspetto. Lui aveva in mente la luce. Ancora oggi, quando la guardo, non vedo me stessa. Vedo noi”, ricorderà di quella giornata. L’obiettivo di Mapplethorpe, genio trasgressivo, scandirà ogni momento della vita dell’artista. Quando nel 1989 il fotografo muore, per complicanze dovute all’AIDS, per Patti è la fine di un’epoca: “Quando morì mi chiamò Edward. Il fratello minore di Robert. Diceva di avergli dato un ultimo bacio da parte mia, come mi aveva promesso. Sono rimasta immobile, paralizzata; poi, lentamente, come in sogno sono tornata alla sedia. In quel momento Tosca attaccava la grande aria Vissi d’arte. ‘Vissi d’arte, vissi d’amore’. Ho chiuso gli occhi e intrecciato le mani. La provvidenza aveva decretato che in quel modo gli avrei detto addio”.
Oltre ad essere considerata un’icona mondiale della musica rock, Patti Smith nel corso degli anni si è anche imposta come icona di stile: il suo stile apparentemente trasandato, all’insegna dell’effortlessy-chic, l’ha resa uno dei volti più amati dai fotografi di moda. Ad immortalarla, oltre a Mapplethorpe, anche Richard Avedon, Annie Leibovitz e Bruce Weber, solo per citarne alcuni. Quel suo fisico androgino ed esile (il ventre le si squarciò durante la prima gravidanza) e la personalità eclettica fin dagli esordi la resero una it girl ante litteram. Ancora oggi, alla veneranda età di 70 primavere, l’artista mostra fieramente un volto privo di ritocchi e un’eleganza degna di nota: rimandi grunge e suggestioni boho-chic caratterizzano il suo stile, dai capelli, sapientemente lasciati sale e pepe, alle giacche maschili indossate sopra i jeans, Patti Smith ha davvero molto da insegnare.
Si è spenta nella notte all’età di 87 anni China Machado, celebre musa di Richard Avedon e Hubert de Givenchy e prima modella asiatica a comparire sulla cover di Vogue. Considerata una delle più belle donne del mondo, China Machado ha vissuto una vita intensa e ricca di eventi: amica di Picasso e Warhol, ebbe Ava Gardner come rivale in amore ed entrò nella storia come la prima modella asiatica ad essere immortalata sulla copertina di Vogue America.
Nata da madre cinese e padre portoghese, China Machado trascorse l’infanzia a Shanghai, dove visse fino alla Seconda Guerra Mondiale. Numerosi i viaggi in Argentina e Perù: la splendida China ebbe una relazione con il torero Luis Miguel Dominguín, il quale la lasciò per un’altra bellissima, Ava Gardner.
Trasferitasi a Parigi, la bellissima China iniziò a lavorare come mannequin e divenne la modella preferita di Hubert de Givenchy e Cristóbal Balenciaga. La sua bellezza esotica unita ad una verve irresistibile la consacrarono in breve nell’olimpo della moda: China Machado aprì la strada alla nuova generazione di modelle di colore. Musa amatissima di Richard Avedon, fu proprio il fotografo a battersi per lei, andando contro i pregiudizi razziali allora vigenti.
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China Machado è morta improvvisamente nella notte nella sua casa di Long Island, a causa di un arresto cardiaco. Ironica e spumeggiante, dopo una carriera come modella si reinventò fashion editor per Harper’s Bazaar. Nonostante l’avanzare degli anni, China Machado era ancora sulla cresta dell’onda: solo pochi mesi fa aveva lanciato una sua linea di abbigliamento, cheenawear. Il suo nome resterà impresso indelebilmente nella memoria di tutti coloro che ne hanno apprezzato le doti umane e l’irresistibile autoironia.
Eccentrica e teatrale, definita l”irregolare della moda”, Anna Piaggi è stata una giornalista ed un’icona di stile indimenticabile, personalità tra le più eminenti nel fashion biz internazionale a partire dagli anni Sessanta. I suoi outfit mixavano mirabilmente arte e cultura, i suoi capelli blu, che lei stessa definiva “uno splendido errore del mio parrucchiere”, i pomelli arancioni disegnati sulle gote: Anna Piaggi ha incarnato la quintessenza del glamour patinato. Intima amica di stilisti del calibro di Gianni Versace, Manolo Blahnik e Karl Lagerfeld, che ne fece la sua musa, immortalandola anche in diverse Polaroid.
Ora l’occhio e la sensibilità della regista Alina Marazzi fanno rivivere l’icona in un film, che sarà presentato dal 5 al 10 dicembre 2016 presso Spazio Oberdan Milano, Fondazione Cineteca Italiana. “Anna Piaggi: una visionaria della moda” è un biopic dedicato all’icona. Alina Marazzi, regista milanese nota soprattutto per documentari come Un’ora sola ti vorrei e Vogliamo anche le rose, è
riuscita a raccontare la giornalista attraverso l’estetica di quest’ultima, facendo uso di un linguaggio filmico che mixa materiale d’archivio/girato ad hoc/disegno.
Tante sono le testimonianze che ricordano Anna Piaggi, raccontata attraverso le Capitali della moda, Parigi, Londra, Milano e New York: da Rosita Missoni a Manolo Blahnik, da Stephen Jones a Jean-Charles De Castelbajac fino all’amico di una vita Lagerlfeld, che nel biopic afferma, a proposito della teatralità della Piaggi: “Era un’irresistibile composizione grafica che ti veniva voglia di fissare sulla carta”.
La celebre icona rivive attraverso una selezione di immagini d’archivio e di fotografie inedite provenienti dall’archivio di Alfa Castaldi, marito dell’icona e celebre fotografo di moda. Il film è stato presentato in anteprima all’ultimo Fashion Film Festival di Milano. Appuntamento dal 5 dicembre allo Spazio Oberdan di Milano, in viale Vittorio Veneto 2.
Gambe chilometriche su una figura sottile, il viso scarno incorniciato da lunghi capelli biondo platino e uno charme unico: Betty Catroux, valchiria dall’allure androgina, ha incarnato alla perfezione lo Zeitgest degli anni Settanta. Figura di spicco della coterie di monsieur Yves Saint Laurent, la modella dal fascino ambiguo e dallo sguardo enigmatico è stata una it girl ante litteram.
La sua infanzia è avvolta da un’aura di mistero che sembra accrescere ulteriormente il fascino di una delle più amate icone di stile degli anni Sessanta/Settanta. All’anagrafe Elizabeth Saint, detta Betty, la giovane nasce a Rio de Janeiro il primo gennaio 1945, figlia unica di Carmen Saint, socialite di origine brasiliana, ed Elim O’Shaughnessy, diplomatico americano che lei stessa definirà “il sosia di Peter O’Toole”. Trasferitasi con la famiglia a Parigi quando ha appena 4 anni, Betty frequenterà poi la scuola in Inghilterra.
Altezza svettante e fisico esile, la giovane sembra nata per le passerelle: è la baronessa Maggie Van Zuylen ad informare la madre della ragazza che Chanel è in cerca di mannequins. Corre l’anno 1967 e Betty, appena diciassettenne, ottiene subito il lavoro per la celebre maison, salvo poi definire mademoiselle Coco “la vipera più geniale di tutti i tempi”. Ma appare ben presto evidente che sfilare -e lavorare, in generale- non fa per lei, spirito libero amante dell’ozio e dell’edonismo più sfrenato. Eccentrica e ribelle, Betty rifiuta puntualmente i diktat che le vengono imposti dall’esterno, fashion trend compresi: lei, che incarna perfettamente lo stile degli Swinging Sixties, non segue la moda ma la detta. Eppure quell’altissima e dinoccolata ragazza (sembra che superi il metro e ottantatré centimetri di altezza), sotto i cuissardes dall’aria aggressiva nasconde un’indole timida ed introversa. Amante del lusso, vive in modo bohémien e, misteriosa come un angelo azzurro, illumina le notti parigine.
Il 1967 è anche l’anno che cambia irrimediabilmente il suo destino: al Regine’s, fulcro della movida gay parigina, avviene l’incontro con Yves Saint Laurent. Tra i due è amore a prima vista: trattasi di una vera e propria affinità elettiva, un intimo riconoscersi per le loro anime, assolutamente complementari. Entrambi aborrono la quotidianità, entrambi ambiscono a rivoluzionare i codici estetici vigenti. Scandalosi e timidi, sono come due corpi in un’anima e si amano di un amore fraterno e puro. Lui la definisce “la sua gemella” e la considera quasi la sua incarnazione femminile. La loro amicizia durerà per tutta la vita, fino alla morte del couturier, avvenuta nel 2008.
“La prima volta che vidi Betty”- raccontò Yves Saint Laurent, “era al New Jimmy’s, la discoteca del Régine, credo fosse il 1967. Lei indossava una gonna in plastica di Prisunic. Quel che mi impressionò fu il suo stile, l’androginia, il corpo, il viso, i capelli…”
All’epoca lo stilista aveva appena lanciato Rive Gauche, la sua linea di prêt-à-porter, e Betty incarnava fedelmente il suo ideale di donna, con un tocco sulfureo e infinite contraddizioni.
Lei ricorderà quell’incontro così: “Yves era biondo platino, in total look in pelle nera. Ci assomigliavamo. Era così timido che dovette mandare qualcuno al mio tavolo. Poi mi chiede se volessi sfilare per lui. Io dissi di no. Avevo fatto delle foto di moda all’epoca ma non era per me. Era solo un guadagno facile per andare a bere e fare casino”. Betty, che sarà all’unanimità considerata l’alterego femminile di Yves Saint Laurent, lei che ne divenne la musa prediletta, si rifiuterà sempre di lavorare per lo stilista ma lo ispirerà per tutta la vita, ergendosi ad arbiter elegantiae e devota confidente.
SFOGLIA LA GALLERY:
(Foto: Vogue)
Loulou de la Falaise, Yves Saint Laurent e Betty Catroux, foto di Guy Marineau, 1978
Loulou de la Falaise, Yves Saint Laurent e Betty Catroux a Londra, 1969
Betty Catroux il giorno delle nozze con François Catroux, Cap Ferrat, 1967, foto di Horst P. Horst
L’icona in uno scatto di Olivier Zahn per Purple Fashion Magazine, 2010
Betty Catroux in una foto di Horst P. Horst, 1970
Betty Catroux, foto di Irving Penn, Vogue 1969
Betty Catroux, foto di Jeanloup Sieff, 1969
Tra i fumi dell’oppio e le illusioni dell’alcol, Betty e Yves si abbandonano a voli pindarici per evadere dalla mediocrità della vita, in un esistenzialismo decadente che non lesina in eccessi di ogni sorta. I due sono soliti ritrovarsi nell’appartamento di lei, sito nel VII arrondissement, e bere vino bianco; sullo sfondo gli echi di un Sessantotto ancora in fermento, tra la incalzante ribellione giovanile e un tripudio di edonismo declinato in chiave bohémien.
“Tutto il mondo ha bevuto vino bianco con Betty”, dichiarerà lo stilista. “Lei mi rende felice, il suo stile eclissa quello delle altre donne”: secondo Saint Laurent lo stile di Betty Catroux è precursore della modernità. “Nel suo modo di essere, di muoversi, di vestirsi, penso che Betty abbia inventato la modernità”.
La bionda Betty ama bere e trasuda sex appeal, come nelle foto di Jeanloup Sieff, che la ritraggono nuda sul divano, intenta a sorseggiare una coppa di champagne. Dopo la sua ascesa nell’olimpo della moda sarà immortalata dai più grandi, in primis Helmut Newton e Jean-Jacques Bugat. Non mancano gli aneddoti in cui la sua ribellione ebbe la meglio, come quando venne fischiata all’Opéra perché osò mostrare il petto di un giovane musulmano. Inoltre a Betty Catroux si deve la coniazione del termine “rotten chic”.
La venerazione che Yves Saint Laurent nutre per lei la renderà personaggio assai temuto da Pierre Bergé, storico compagno di vita dello stilista. Lei dichiarerà più volte di aver avuto con Yves una vita da favola. Lo stilista sarà anche la prima persona della sua cerchia di amicizie che Betty vedrà morire. Ad investigare il rapporto tra i due anche il film “Saint Laurent” (2014), per la regia di Bertrand Bonello: qui Betty Catroux è interpretata dalla modella Aymeline Valade.
Il ruolo di Betty al fianco del re della moda francese è principalmente quello di ispirarlo: sarà grazie al suo stile che lui creerà alcuni dei suoi capi più iconici. “Pensavo a lei quando ho immaginato il completo pantalone, poi la pelle. Tutti i codici maschili che ho applicato alla donna. Se Paloma Picasso e Loulou de la Falaise ispirano la mia fantasia, Betty ispira il mio fisico rigoroso”, disse Yves Saint Laurent. Betty appare semplicemente perfetta in sahariana e cuissardes, come anche nello smoking indossato sulla pelle nuda.
Grazie ad un innato senso per lo stile, Betty Catroux viene ben presto consacrata ad icona internazionale d’eleganza: ma dimenticate overdressing e coup de théâtre, Betty è un’amante sfegatata del minimal-chic. Incarnazione dello stile parisien per eccellenza, anticonformista ed eccentrica, Betty ama i jeans, i capi in pelle, il colore nero ed i capelli sporchi e ostenta una naturalezza quasi grunge. Disdegnando apertamente lo stile iperfemminile, l’icona, che si è sempre professata per niente interessata alla moda, sfoggia un’intrinseca nonchalance ed un’irresistibile personalità, dichiarando più volte di vestire allo stesso modo da quando è nata.
Fedele per tutta la vita ad un’estetica personalissima e rigorosa, Betty Catroux ha adottato una sorta di uniforme che non ha mai più abbandonato: nel suo guardaroba solo maglie a collo alto, pantaloni a sigaretta neri, blazer neri, raramente abiti da sera. Immancabili gli occhiali da sole neri. Perché per essere chic basta veramente poco, ça va sans dire. Come ammesso più volte dalla stessa Catroux, questa sorta di divisa rappresenta l’emblema del suo stile.
Nel 1968 la modella convola a nozze con l’interior designer francese François Catroux, nipote del generale Georges Catroux. L’icona di stile non si smentisce neanche il giorno delle nozze, sfoggiando per l’occasione shorts e stivali di vernice al ginocchio, sotto ad una pelliccia bianca e nera dalle suggestioni optical. La coppia ha avuto due figlie, Maxime, editor della casa editrice Flammarion, e Daphné, sposata al conte Charles-Antoine Morand.
Grande amante del jazz, oggi Betty Catroux vive tra Parigi e la Provenza. Considerata da più parti la quintessenza della passività, Betty non ha mai lavorato nella sua vita, salvo danzare ogni giorno per quindici anni di fila. “Mi ritengo straordinariamente fortunata perché sono stata regolarmente presa sotto l’ala protettrice delle persone giuste”, ha dichiarato a tal proposito. Il suo stile iconico continua ad ispirare diversi stilisti, da Marc Jacobs ad Hedi Slimane per Saint Laurent, mentre Tom Ford le dedicò la sua sfilata di debutto alla direzione creativa di YSL Rive Gauche.
Ha sfilato nell’ambito dell’haute couture parigina l’ultima collezione Armani Privé. Giorgio Armani si è ispirato ancora una volta alla bellissima Antonia Dell’Atte, sua musa prediletta: capelli all’indietro, viso scoperto e allure d’altri tempi per le modelle che si sono alternate sulla passerella, che ricordavano la top model nei celebri scatti realizzati per Giorgio Armani da Aldo Fallai.
È una donna bellissima quella a cui Re Giorgio si ispira per la sua collezione haute couture Autunno/Inverno 2016-2017: sofisticata, misteriosa, affascinante, la donna Armani sfodera ricercatezza e charme, proprio come Antonia Dell’Atte, musa storica e amica dello stilista. Quotidiani sottobraccio e tailleur d’ordinanza, la bellissima Antonia veniva ritratta da Aldo Fallai in scatti che sono entrati di diritto nella storia della moda: correvano gli anni Ottanta e lei incarnava alla perfezione lo stile asciutto ed essenziale della maison. Una carriera sfolgorante per lei, ultima vera diva contemporanea.
C’è un’aura di mistero nel suo volto dai lineamenti perfetti e nel suo charme, unico nel panorama della moda: la blasonata musa di Re Giorgio (che ha sposato Alessandro Lecquio di Assaba y Torlonia, imparentato con i reali di Spagna), ha collezionato esperienze anche come attrice, cantante e personaggio televisivo conteso dalla tv italiana e da quella spagnola. Ironica ed eclettica, Antonio Ricci la vuole nel Drive In, dove forgia a sua immagine e somiglianza il personaggio dell’algida top model che si lascia andare ad irresistibili exploit in dialetto pugliese: indimenticabile il suo “momento casual”. Intanto Helmut Newton la immortala in scatti ad alto tasso di seduzione e Re Giorgio si innamora del suo taglio di capelli e della sua bellezza, perfetta per incarnare i tailleur pantalone e le giacche maschili, emblema dello stile Armani.
A lei si ispirano le mannequin che si alternano in passerella. Un défilé ricco di suggestioni per una haute couture che torna alle radici della creatività, per toccare vette eccelse che ribadiscono l’abissale distanza che intercorre tra haute couture e prêt-à-porter (qui un pezzo sulla sfilata).
“Qui c’è la mia essenza: sono tornato alla grande alla Couture e ripartito alla ricerca di una donna bellissima che avete appena visto in passerella. Mi ha ispirato una foto d’arte che riproduceva appunto una bellissima creatura. L’alta moda ha le sue regole che non vanno travisate con il prêt-à-porter, seppur di lusso. Qui nell’Armani Privé c’è solo esclusività! Spesso si parla di alta moda con troppa faciloneria, per indossare questi vestiti bisogna anche fare un certo tipo di vita”: così si è espresso lo stilista, a proposito della collezione che ha appena sfilato a Parigi. Una donna sofisticata e composta, chic ed ammaliante, ad ispirarlo, proprio come la bellissima Antonia Dell’Atte.
Certe donne rifuggono con ogni mezzo dagli schemi di un’esistenza banale e riescono nell’arduo compito di forgiare la propria vita secondo i propri parametri e la propria personale gerarchia di valori: la marchesa Casati è stata una figura quasi mitologica, ribelle ad ogni diktat, anticonformista ed iconica. La sua immagine continua ad ispirare intere generazioni, come anche la sua vita, ricca di fasti, onori ma anche ombre e zone grigie: voleva essere un’opera d’arte vivente, Luisa Casati Stampa di Soncino, ed è certamente riuscita nel suo intento, manifesto dichiarato di una vita degna del miglior romanzo decadente.
Considerata l’antesignana del dandismo in gonnella, la Divina Marchesa incarnava alla perfezione il prototipo della dark lady: enigmatica, misteriosa, a tratti inquietante, sempre seducente, amava indugiare sul suo lato oscuro, dai ménage à trois di cui era protagonista, secondo i rumours dell’epoca, accanto a Gabriele D’Annunzio ed Eleonora Duse, a quella sua irresistibile quanto primordiale attrazione per il proibito, che si esprimeva nell’amore per l’occultismo e per il travestimento. Non solo l’adesione alle mode del momento, ma un’esigenza naturale, per lei: il lato torbido di Luisa Amman era estremamente sviluppato e costituirà forse la somma del suo fascino. L’esprit du temps della Belle Époque fa da sfondo alla clamorosa affermazione del suo stile, entrato nel mito.
Luisa Adele Rosa Maria Amman nacque a Milano il 23 gennaio 1881 da una facoltosa famiglia di industriali di origine austriaca: il padre Alberto Amman è un produttore di cotone a cui Umberto I conferisce il titolo comitale, la madre Lucia Bressi era originaria di Vienna. L’infanzia della piccola Luisa, indole timida e fantasia galoppante, trascorre all’insegna della solitudine, tra precettori privati e un amore viscerale per le arti figurative. Rimasta orfana di entrambi i genitori, viene affidata alle cure di uno zio, insieme alla sorella maggiore Francesca. Appena adolescente Ginetta, come viene chiamata affettuosamente, è già la più ricca ereditiera d’Italia. Ma alla ragazza la prospettiva di una vita ordinaria, seppur agiata, appare quasi insostenibile; lei, che era stata iniziata dalla madre alle storie che vedevano protagoniste donne eccentriche come la contessa di Castiglione, Cristina di Belgiojoso, Sarah Bernhardt ed Elisabetta d’Austria, ha già le idee chiare: la sua vita sarà romanzesca. “Bisogna fare la propria vita come si fa un’opera d’arte. Bisogna che la vita di un uomo di intelletto sia opera di lui. La superiorità vera, è tutta qui”: con premesse come queste, c’era da aspettarsi un’esistenza avventurosa.
Altezza svettante su un fisico androgino, i grandi occhi verdi spiccano sull’incarnato eburneo e su un sorriso sibillino: la bellezza di Luisa è sui generis rispetto agli standard dell’epoca e reca in sé un tocco noir e un fascino sulfureo. Occhi bistrato neri con pupilla dilatata ad hoc tramite colliri al gusto di belladonna e frangetta irriverente, appare onirica, quasi spettrale nelle foto di Man Ray, medusa dall’allure intramontabile ed icona di stile per antonomasia.
Nel 1900, appena diciannovenne, convola a nozze con il marchese Camillo Casati Stampa di Soncino, che aveva conosciuto durante un ballo a cui presenziava la crème della società milanese. L’anno seguente nasce la loro unica figlia, Cristina, nome scelto in onore della Principessa di Belgiojoso. Ma il matrimonio sta stretto all’animo inquieto della marchesa, che strega col proprio fascino il Vate per eccellenza del Decadentismo, Gabriele D’Annunzio, di cui sarà amante e musa. Il primo incontro tra i due avviene durante una caccia alla volpe organizzata dal marito di Luisa: subito scatta il coup de foudre e i due iniziano una relazione destinata a destare scalpore. Fu proprio Luisa ad ispirare al poeta il personaggio di Isabella Inghirami in “Forse che sì forse che no”. D’Annunzio la soprannomina Coré, come Persefone, la Regina degli Inferi. E difatti l’universo della marchesa non è poi così lontano dalle tetre atmosfere dell’Ade: le testimonianze di chi la conobbe, come anche la descrizione delle sue abitudini e delle sue dimore, ci parlano di una donna dall’immagine quasi diabolica. Capricciosa femme fatale, perennemente in viaggio tra gli eventi del jet set internazionale, la mente persa nei fumi dell’oppio, la megalomania e le ossessioni riguardanti la propria immagine: la divina Marchesa sembrava incarnare alla perfezione l’ideale femminile del Vate, che ne adorava il trucco disfatto e l’ambiguità sessuale. “Adoro i capricci di questa donna. Quando cerco di immergermi nel suo mondo sento il suo profumo e vedo le sfumature del suo trucco disfatto”, queste le parole con cui il poeta descriveva il suo sentimento per lei.
Nel 1910 Luisa Casati si trasferì a Venezia, dove acquistò l’abbandonato Palazzo Venier dei Leoni, affacciato sul Canal Grande, oggi sede del museo Peggy Guggenheim. Ed è proprio nei giardini di quella che sarà la sua residenza fino al 1924 che Luisa tocca l’apice della sua mondanità e del suo prestigio. La Serenissima non era mai stata così glamour, tra balli in cui la Marchesa esibisce nelle sue dimore lacchè di colore usati quasi alla stregua di schiavi indigeni, sullo sfondo di una Piazza San Marco usata come pista da ballo: si balla il tango, alla corte di Luisa, ballo che intanto era stato proibito nella Capitale per ordine papale. Intanto il suo matrimonio è da tempo naufragato e nel 1914 arriva la separazione dal Marchese Camillo Casati Stampa.
Mecenate e musa di artisti, la Marchesa vive tra opulenza sfrenata ed eccessi di ogni sorta, a partire dagli animali esotici di cui ama circondarsi: usa boa costrittori come collane e porta al guinzaglio scimmie, pavoni e levrieri, come quello con cui la immortala Giovanni Boldini. Eccentrica e fieramente sopra le righe, non era raro incontrarla per le calli veneziane in piena notte, nuda sotto un ampio mantello di pelliccia, mentre portava al guinzaglio il suo amato ghepardo: è così che la immortala Erté. Stupire è la parola d’ordine, nonché il fil rouge di un’intera esistenza. Jean Cocteau disse di lei: “Aveva saputo crearsi un ‘tipo’ all’estremo. Non si trattava più di piacere o non piacere, o tantomeno di stupire. Si trattava di sbalordire”.
Il suo stile spazia dai fasti della Belle Époque, tra pizzi e broccati, alle suggestioni orientaleggianti di capi unici, creati appositamente per lei dai più grandi couturier dell’epoca: largo a pepli e tuniche plissé, suggestioni maschili, copricapi svettanti alternati a turbanti d’ispirazione Twenties, tripudio di animalier e piume all over, con una predilezione per il black and white e per lunghissimi fili di perle. Poi il gusto per le masquerade: la ritroviamo quindi vestita di piume d’airone, o, ancora, con una coda di pavone in testa e il sangue di un pollo appena sgozzato che le scorre lungo il braccio. Camaleontica, la sua visione della moda è istrionica e teatrale, non solo un vezzo ma uno strumento per dare vita ad una vera e propria catarsi, che le permette di impersonare le donne che tanto aveva amato, come Elisabetta d’Austria, salvo poi calarsi anche nei panni di Arlecchino e Cesare Borgia. La marchesa divenne una delle forze motrici dell’haute couture del Ventesimo secolo ed investì esorbitanti cifre di denaro per acquistare le migliori stoffe e i materiali più pregiati. Paul Poiret, Mariano Fortuny, Jean Patou, Léon Bakst sono solo alcuni dei nomi che la vestirono. Celebre il costume passato alla storia come “Queen of the Night” disegnato per lei da Bakst nel 1922, indossato dalla marchesa ad un ballo in maschera a Parigi: furono necessari oltre tre mesi per completare l’abito, interamente ricoperto da una cascata di diamanti. In un’altra occasione, la marchesa si presentò vestita come il martire cristiano San Sebastiano, con un’armatura in metallo con tanto di frecce che si sarebbe dovuta illuminare, grazie ad un presa elettrica a cui era attaccata. Ma un corto circuito quasi la uccise e fu costretta a lasciare il party a metà serata. Tra i gioielli preferiti dalla Marchesa quelli di René Lalique e Cartier, maison a cui ispirò la celebre pantera.
Nel 1919 un’epidemia di influenza spagnola le porta via l’amatissima sorella Francesca. Nello stesso anno lei si trasferisce nella Villa San Michele di Capri, inquilina dello psichiatra svedese Axel Munthe. Nel 1923 decide di acquistare una casa a Parigi: è il sontuoso Palais Rose, da lei soprannominato Palais du Rêve, maniero appartenuto a Robert de Montesquiou. Intanto si rende conto con non poco stupore che le sue risorse finanziarie stanno per esaurirsi. Edonista ed incapace di rinunciare alle innumerevoli manie che facevano ormai parte del suo modus vivendi, inizia a collezionare oggetti appartenuti alla Contessa di Castiglione, eroina della sua infanzia. Nel 1924 prende parte a Les Bals du Grand Prix proprio vestita dalla celebre contessa. Nello stesso anno ottiene a Budapest il divorzio dal marito, entrando nella storia, in quanto prima donna divorziata italiana della chiesa cattolica.
All’età di 50 anni ha accumulato debiti per oltre 25 milioni di dollari: è sull’orlo del baratro, costretta a vendere il Palais con tutti gli arredi, che vengono battuti in un’asta che vede come acquirente anche Coco Chanel. La marchesa decide allora di trasferirsi in Gran Bretagna, dove risiede la figlia Cristina, neo sposa del Conte di Huntingdon e mamma della piccola Moorea. La coppia sostiene Luisa economicamente, ma per la marchesa è già iniziata irrimediabilmente la sua parabola discendente: divenuta la copia sbiadita di se stessa, la nobildonna vaga per le strade di Londra con abiti logori e veletta nera. I cosmetici, parte integrante del suo maquillage, sono ormai troppo costosi, e deve quindi ripiegare sul lucido da scarpe per disegnare il contorno occhi nero, da lei tanto amato.
Il primo giugno del 1957 arriva la morte, a causa di un’emorragia cerebrale. La marchesa viene sepolta al Brompton Cemetery con il suo mantello nero bordato di pelle di leopardo, le immancabili ciglia finte e occhi bistrati, e, ai suoi piedi, l’amato pechinese imbalsamato. La nipote sceglie i versi di Shakespeare per l’epitaffio da incidere sulla lapide. Il commiato dalla donna più iconica del Novecento è affidato alla descrizione di Cleopatra, tratta da “Antonio e Cleopatra”: «L’età non può appassirla, né l’abitudine rendere insipida la sua varietà infinita».
La marchesa nel corso della sua vita fu anche musa di alcuni esponenti storici del futurismo, come Marinetti, Depero e Boccioni. Inoltre un narcisismo senza precedenti la spinse a commissionare una mole incredibile di opere che la ritraessero: dagli scatti di Man Ray, Cecil Beaton e Adolph de Meyer ai ritratti di Giovanni Boldini, Augustus John, Kees Van Dongen, Romaine Brooks, Ignacio Zuloaga, Drian, Alastair, Giacomo Balla, Catherine Barjansky, Jacob Epstein e Alberto Martini, suo ritrattista ufficiale.
La moda le ha dedicato innumerevoli tributi: già nel 1960 il famoso designer americano Norman Norell presentava una collezione interamente basata sul ritratto della marchesa eseguito dal pittore olandese Kees van Dongen. La collezione in questione venne anche immortalata da Milton H. Greene sulla copertina di Life Magazine. Tom Ford ha definito Luisa Casati come “la prima dandy europea del Ventunesimo secolo”, dedicandole la sua collezione P/E 2004 disegnata per YSL Rive Gauche. Ma, in quella che è stata additata come la peggiore in assoluto delle collezioni dello stilista, tra le modelle mezze nude che si alternano sulla passerella, della marchesa resta solo il make up. Prima ancora, c’era stata la sfilata Dior Haute Couture P/E 1998 in cui, sullo sfondo dell’Opéra Garnier di Parigi, John Galliano si ispirava alle mise sfoggiate dalla Divina Marchesa, tra cui il celebre costume di Cesare Borgia indossato nel lontano 1925. Nel 2010 fu la volta di Karl Lagerfeld, che omaggiò la marchesa con la collezione Chanel Resort. Location scelta: il Lido di Venezia, ça va sans dire. E tante sono le donne del fashion biz ad avere reso omaggio alla figura di Luisa Casati, da Georgina Chapman, ritratta nel 2009 da Peter Lindbergh, con tanto di giaguari al seguito, a Carine Roifeld, fotografata da Lagerfeld per il New Yorker nel 2003, fino a Tilda Swinton, che nel 2010 interpreta la nobildonna in un editoriale ad alto tasso di suggestione firmato Paolo Roversi. Della Divina Marchesa restano gli innumerevoli ritratti che immortalano una donna profondamente sola. “Essere diversa significa essere soli. Non amo ciò che è ordinario. Quindi sono sola”, così diceva lei stessa, dall’alto di un’esistenza vissuta in nome dell’estetismo più sfrenato.
Spegne oggi 70 candeline Cher. Star della musica, attrice premio Oscar, icona della cultura pop e musa fashion, Cherilyn Sarkisian La Pierre, più nota come Cher, è l’ultima diva contemporanea.
Nata in California il 20 maggio 1946, Cherilyn trascorre un’infanzia disagiata. Il padre è un rifugiato armeno che lavora come camionista, la madre Jakie Jean Crouch (in arte Georgia Holt) è un’aspirante attrice e modella. Dal ramo materno la futura diva vanta origini Cherokee, Francesi e Inglesi. Quando i genitori divorziano, iniziano grandi difficoltà economiche per lei e per la madre, che dà alla luce Georganne da un’altra relazione. Le due figlie saranno poi adottate dal successivo marito della donna, Gilbert La Pierre, banchiere.
La piccola Cherilyn soffre di una grave forma di dislessia non diagnosticata, a causa della quale è costretta a lasciare la Fresno High School all’età di 16 anni. Nello stesso anno avviene a Los Angeles l’incontro con Salvatore Bono, detto Sonny: il giovane all’epoca ha 27 anni, e lavora per Phil Spector ai Gold Star Studios di Hollywood. La giovane Cher sogna già di fare l’attrice. I due fuggono insieme e vanno a convivere all’insaputa della madre della ragazza. Nel 1964 convolano a nozze e dalla loro unione, il 4 marzo 1969, nasce Chastity Bono, che nel maggio 2010 ha completato il percorso di cambio di sesso.
Nel 1965 arriva per il duo di artisti il primo album e la canzone I Got You Babe diventa una hit internazionale. Lo stile dei due e il loro spirito bohémien si impongono sulla scena musicale ma non solo: i due diventano icone della cultura hippie degli anni Sessanta. Basette lui e lunghi capelli neri e pantaloni a zampa d’elefante lei, posano insieme per Vogue ed entrano nel mito.
Cher arriva per la prima volta in Italia, insieme a Sonny, nel settembre del 1966, dove assiste anche ad un’udienza di Papa Paolo VI a Castel Gandolfo, a Roma. L’anno successivo i due tornano in Italia per partecipare al Festival di Sanremo. La cantante si presenta nella gara canora in coppia con Nico Fidenco. Negli anni Settanta conducono insieme uno show televisivo che sdogana Cher come un sex symbol internazionale: i suoi outfit audaci inaugurano una nuova era dello stile. Inoltre la diva fu la prima donna a mostrare l’ombelico. Il suo stilista Bob Mackie ideò per lei degli abiti che lasciassero scoperte alcune parti del corpo.
Dopo tanti successi, la coppia divorzia nel 1975, dopo 13 anni di matrimonio. Il divorzio ha portato la cancellazione del “The Sonny and Cher Comedy Hour”. Nello stesso anno, Cher sposa Gregg Allman. Dal nuovo matrimonio, il 10 luglio 1976 nasce un figlio, Elijah Blue Allman.
Dopo il divorzio la cantante si concentra sulla propria carriera da solista e passa al cinema, nei primi anni Ottanta. Dapprima è Robert Altman a volerla in “Jimmy Dean Jimmy Dean”, poi in “Silkwood” recita accanto a Meryl Streep e ottiene la prima candidatura all’Oscar. Dopo “Le streghe di Eastwick” e “Presunto colpevole” arriva l’Oscar per “Stregata dalla luna”. Inoltre è stata premiata anche con un Golden Globe e una Palma d’oro.
SFOGLIA LA GALLERY:
Cher è anche un’icona di stile
Cher nel 1964
Vogue, 1969, foto di Richard Avedon
1966
Vogue 1976
Foto del 1966
Vogue 1966, foto di Richard Avedon
Vogue 1966
Cher su Vogue, 1966, foto di Richard Avedon
Foto di Richard Avedon
Cher, Vogue, 1974
Cher su Vogue, foto di Richard Avedon, 1974
Cher su Vogue, 1974
Foto di Arnaud de Rosnay, 1967
Foto di Arnaud de Rosnay, 1967
Cher su After Dark Magazine, 1979
Cher nel 1974
Cher nel 1980, LIFE Magazine
Foto di Herb Ritts
Foto di Harry Langdon/Getty Images
Anni Settanta
Cher nel 1971
Ritratta da Avedon per Vogue, 1972
Cher nel 1986
Foto di Harry Langdon/Getty Images)
Con Nicolas Cage in “Stregata dalla luna”, 1987
Cher e Sonny
Una giovanissima Cher
Anni Sessanta
Foto di Arnaud de Rosnay, 1967
Ritratta da Avedon per Vogue, 1972
Ritratta da Avedon per Vogue, 1972
Ritratta da Avedon per Vogue, 1972
Ritratta da Avedon per Vogue, 1972
Ritratta da Avedon per Vogue, 1972
Ritratta da Avedon per Vogue, 1972
Ritratta da Avedon per Vogue, 1972
Ritratta da Avedon per Vogue, 1972
Foto di Avedon, Vogue 1974
Vogue 1970
Foto di Richard Avedon, Vogue 1971
Foto di Richard Avedon, Vogue, 1972
Foto di Andrew MacPherson, 2010
Foto di Annie Leibovitz, Vanity Fair, 1968
Foto di David LaChapelle, 1996
Foto di Herb Ritts, Vanity Fair, 1990
Foto di Norman Jean Roy, Vanity Fair, 2010
Foto di Harry Langdon, 1978
Foto di David Kirkland, 1975
in “Stregata dalla luna” (1987)
Intanto Cher è diventata un mito: nel 1971 entra nell’International Best Dressed List, grazie ai suoi look iconici. Zigomi alti, lunghi capelli lisci e fisico tonico, la bella Cher unisce in sé il fascino dei Nativi americani e il glamour anni Settanta. Trendsetter ante litteram, la sua impronta fu decisiva per la moda anni Sessanta/Settanta. Cher diviene presenza fissa sulle cover dei magazine patinati e posa per i più grandi fotografi di moda, da Richard Avedon ad Annie Leibovitz, da Francesco Scavullo fino ad Herb Ritts. Icona amatissima dalla comunità gay, nel corso degli anni per inseguire il mito dell’eterna giovinezza si è sottoposta a numerosi interventi di chirurgia plastica.
Con oltre cinquant’anni di carriera, Cher è entrata nella storia della musica, con oltre 100 milioni di dischi venduti nel mondo. Durante la sua carriera, oltre ad un Oscar come miglior attrice, è stata insignita anche con il Prix d’interprétation féminine a Cannes, un Grammy, un Emmy, tre Golden Globe e un People’s Choice Award per i suoi contributi nel cinema, nella musica e nella televisione.
La ritroviamo negli anni Novanta strizzata in bustier super sexy e immortalata da Herb Ritts. Tra i suoi video ad alto tasso erotico, il singolo If I Could Turn Back Time, che viene censurato da MTV. Nel 1999 arriva un successo galattico con Believe: il singolo è il più venduto da una cantante donna in Inghilterra. Nel 2005 l’artista ha concluso il suo Farewell Tour, durato tre anni.