“Vera”, il film su Vera Gemma disponibile su MUBI

Il film è la sintesi dell’ossessione sulla verità. “Vera”, vita vera, come il nome della protagonista Vera Gemma, che interpreta nessun altro al di fuori di se stessa.

Vera Gemma, figlia del grande attore e stuntman Giuliano Gemma, quello bello che faceva roteare pistole come fossero carte da gioco tra le mani, quel padre famoso che ogni figlio non vorrebbe, perchè il peso della notorietà grava sempre su chi lo segue. Solo i non famosi lo sognano, appesi all’illusione che il cinema e la celebrità regalano, nascondendo la polvere sotto il tappeto. In questo film tutto lo sporco salta fuori; con una secchezza e un minimalismo quasi da Nouvelle Vague, i registi Tizza Covi e Rainer Frimmel fanno sfilare le presenze venali e superficiali che circondano il mondo di Vera, dall’agente al fidanzato che chiede, dietro la finzione dell’amore, denaro.
Sarà sempre Vera a pagare, per il compagno, per una famiglia a cui si lega, vittima di un imbroglio.

Vera con Manuel

Vera viene rappresentata così com’è, eccentrica nel vestire, indossa sempre un cappello da cowboy, tacchi vertiginosi, gilet di pelliccia, e un trucco da trans. “Mi ispiro alle trans. Più somiglio a una trans e più mi sento bella. Da piccola ero innamorata pazza di Eva Robin’s.

Lo sguardo è sempre imbronciato, un po’ triste, amareggiato dalla vita, a volte rassegnato quando si parla di lavoro e di persone.
Vera è la figlia d’arte che potrebbe avere le porte spalancate, e invece le si chiudono in faccia, con una ferocia e una noncuranza che la porta a dire “basta”. Basta casting, basta film, buttandosi senza paracaduta nella vita vera.

È qui che si scontra con il padre di Manuel, disperato vedovo che vive nella borgata di Roma che tira a campare aggiustando motorini, vivendo nella casa dell’anziana madre (costretta a riempire secchi d’acqua alla fontana pubblica) e fingendo incidenti con il figlio per racimolare qualche spiccio dalle assicurazioni.
È così che si guadagna da vivere, così che irretisce Vera, arrivando a drogarla e derubarla di tutti i gioielli regalatole dal padre, nella sua piccola casa a Trastevere. Vera, combattuta se denunciarlo o no, preoccupata di quel figlio senza madre che potrebbe ritrovarsi a vivere pure senza un padre, rinuncia per compassione, come quando capisci che nella vita tutto ha un inizio ed una fine, e non puoi farci nulla se le regole sono queste, puoi solo accettarle, puoi solo accogliere la sofferenza o crogiolartici.

Vera Gemma con Asia Argento

È nella scena con l’amica di sempre Asia Argento, che si legge un momento di complicità e leggerezza, quando Asia la porta al cimitero acattolico di Roma, a vedere la tomba del figlio di Goethe. Una tomba senza nome, solo il “figlio di”, come si sentono le due donne, le figlie di Dario Argento e di Giuliano Gemma. Si chiedono se qualcuno ha pensato mai ai dolori di quel ragazzo, se hanno mai parlato dei suoi sogni e delle ambizioni, se lo hanno mai chiamato per nome. Qui Vera accenna un sorriso, quei sorrisi amari che si svelano solo nella complicità, come quando due animali braccati si annusano e si riconoscono; e così anche il dolore ha lo stesso odore.


Quanti avranno pensato che Vera Gemma sarebbe stata così talentuosa? Il film è stato premiato al Festival di Venezia 2022 Sezione Orizzonti con due premi: migliore attrice femminile e migliore regia.

È il pregiudizio ad averci fregato, come confessa lei con grande onestà, “non ho mai la faccia giusta, non sono mai abbastanza bella come mio padre, sono sempre sbagliata“, un viso segnato dalla chirurgia, pratica iniziata alla tenera età dalla madre.
Perchè ha voluto rifarci il naso?” – chiede Vera alla sorella mentre riguardano delle diapositive “erano così belli“.

Una ricerca ossessiva della bellezza, quella bellezza esteriore che ci mette tutti sotto torchio, sotto esame, dalla Barbie che ci regalano da bambine, alle mode che cambiano repentinamente. Eppure, la bellezza che vediamo in questo crudo e trasparente documentario, come attraverso un cristallo, è quella più pura, l’empatia più sacra, la genuinità più integra, la generosità più calorosa.
Vera è l’amica che vorrei.

Vera è Disponibile su MUBI.





Grand Hotel, una Greta Garbo un po’ troppo drammatica

Lirismo del divismo, “Grand Hotel” illumina nonostante l’età. è il ’32 quando il regista Edmund Goulding raccoglie i più grandi divi del cinema Hollywoodiano e li piazza davanti ad una camera per girare quello che sarà premiato agli Oscar nello stesso anno, come miglior film a MGM, e pellicola scelta per essere conservata nel Nation Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti. 

Teatro di scena è il Grand Hotel di Berlino, non cercatelo perché non esiste, il set è stato interamente ricreato negli Studios purtroppo, peccato per gli appassionati di cinema che si sarebbero fiondati nelle sontuose stanze dei protagonisti.

Gente che va gente che viene, un tram tram di clienti che fa da sottofondo alle storie che si intrecciano tra i personaggi di diverso ceto sociale. Abbiamo il barone Felix von Geigern ( John Barrymore) che si rivelerà essere un ladro gentiluomo, molto amato per i suoi modi e il suo buon cuore, la ballerina russa, madame Grusinskaya (Greta Garbo), una diva viziata caduta in depressione al calar della carriera, il contabile Kringelein, un uomo dai giorni contati perchè malato di cuore, che decide di vivere i suoi ultimi momenti nello sfarzo totale, l’industriale Preysing, un arrogante panzone e la sua dattilografa, Flaemmchen, la grande Joan Crawford che ruba la scena alla bella Garbo forse a tratti troppo drammatica e teatrale per uno spettatore del 2023.

Wallace Beery e Joan Crawford in una foto pubblicitaria del film

La missione del ladro barone sembra andare in fumo, entrato nella stanza della ballerina per rubarle i collier di perle, assiste di nascosto alle angosce della povera donna in procinto di suicidarsi. Colto da compassione sbuca fuori dalle tende e la implora di fermarsi, confessandole di essere entrato furtivamente nella stanza perchè innamorato perdutamente di lei. E nella trappola dell’amore ci finirà sul serio, rischiando così di essere ammazzato dalla malavita che pretende quelle perle promesse. Ma il barone è troppo debole nei confronti del gentil sesso, e cercherà di ottenere quel denaro altrove. Si imbatterà nel povero Kringelein a cui ha regalato la sua amicizia, quell’uomo così solo e così desideroso di vivere; ruberà il cuore alla dattilografa che non ricambia, ormai pronto a scappare segretamente in Russia con la bella ballerina, che miracolosamente ha ripreso a brillare come i vecchi tempi e che vede il Sole in ogni angolo della stanza in bianco e nero.

Grand Hotel è un film romantico che ci ricorda quanto l’amore sia il vero salvatore, un film che denuncia i comportamenti degli anni ’30 nei confronti dei differenti ceti sociali, un film che apre gli occhi sulle vere identità delle persone (la timida dattilografa si scoprirà essere una calcolatrice pronta a vendersi al suo datore di lavoro per soldi, ma presa da compassione accompagnerà il signor Kringelein a Parigi, per gli ultimi suoi giorni di vita e di gloria.

Greta Garbo e John Barrymore (Photo by MGM Studios/Courtesy of Getty Images)



Edmund Goulding ci fa amare il buon ladro, così galante, di rara eleganza e calma, e così prodigo a salvare la vita di una star a fine carriera, ci conduce nelle stanze 170, 164, 168 sbirciando dalle fessure le storie segrete dei clienti d’albergo, ci appassiona con le telefonate d’amore e ci attanaglia trasformando il dramma in un thriller, perchè alla fine, qualcuno muore. Chi?

La similitudine (con Sergio Rubini)

Il Festival del Cinema di Venezia è finalmente iniziato, lo omaggiamo con questo cortometraggio prodotto da Snob Srl, interpretato dal grande Sergio Rubini, e scritto e diretto da Peppe Tortora.

Un maestro di scuola elementare, dopo essere stato preso in giro dal direttore, davanti alla classe, decide di raccontare ai suoi bambini il significato della parola “Similitudine“. Lo fa con la storia di un uomo di nome Pernillo, un ignorante ma furbo che decide di aprire una scuola per maiali.
Sergio Rubini è l’attore protagonista che interpreta il maestro, Roberto Ciufoli interpreta il direttore.
L’ambiente è essenziale per dare importanza solo alla narrativa; la musica è composta da Alberto Bof come accento alla narrazione.

Tratto da un racconto di Angelo Tortora
Scritto e diretto da Peppe Tortora
Il maestro: Sergio Rubini
Direttore della scuola: Roberto Ciufoli
Bambino: Romeo Ciufoli
Aiuto Regia: Jacopo Rosso Ciufoli
Direttore della fotografia: Valerio Di Lorenzo
Musica originale di Alberto Bof
Press Agent Rubini: Saverio Ferragina
Supervisione Costumi: Tommaso Basilio
Aiuto Costumista: Paola Ragosta
Acconciature: Concetta Argondizzo @simonebelliagency
Operatore: Andrea D’Andrea
Aiuto Operatore: Vittorio Penna
Correzione Colore: Claudia Pasanisi
Grazie al centro Anziani San Felice di Roma

Una produzione di SNOB Srl
Direttore Responsabile: Miriam De Nicolò

“Don’t look up” siete voi



Snervante quanto delle unghie che stridono su una lavagna, personaggi irritanti quanto un’orticaria, il regista di “Don’l look up” ha esasperato le caricature che più che macchiette diventano surreali.

La dottoranda in astrofisica Kate Dibiasky (Jennifer Lawrence) scopre che una gigantesca cometa colpirà il Pianeta Terra entro sei mesi provocandone l’estinzione; insieme al docente dell’Università del Michigan Dr. Randall Mindy (Leonardo Di Caprio) decidono di correre dalla Presidente degli Stati Uniti (Meryl Streep) per comunicare la tragica notizia. Ad accoglierli, Janie Orlean, una Presidente molto più attenta alla pantomima politica piuttosto che alla salvaguardia del pianeta.
In questo contesto il capo di Gabinetto è ovviamente il figlio, impreparato alla carica, ignorante, superficiale e idiota da superare “Scemo & più Scemo” (tema le classi privilegiate che mandano avanti prole e parentado al comando?), un responsabile della comunicazione che stila discorsi politici prendendo a prestito frasi dai film tipo “Il Soldato Ryan”.

Al cospetto di tanto scempio e di fronte ad un teatrino che più che la Casa Bianca sembra una commedia di provincia, i due scienziati sono furibondi perchè inascoltati, beffeggiati e messi alla porta.
Sono gli unici sani al centro di una totale perdita d’intelletto dell’intero paese.



Cosa dilaga? Stupidità, la coppia di astronomi si rivolge poi ad un programma televisivo nella speranza che le autorità possano ascoltarli e intervenire per salvare il mondo, invece sbattono contro due personaggi, i presentatori, complici della nullità imperante. Lei, una Cate Blanchett fastidiosa come una strombazzata in pieno mattino, ridacchia alla notizia, trasforma tutto in battuta, paragone cristallino ai media americani, ma diciamo anche italiani, inglesi, giapponesi, trasformando così la giovane astronoma in uno zimbello del web, un meme virale su cui scagliare la propria ignoranza e frustrazione.

L’unica preoccupazione sembra essere l’indice di gradimento del web, una massa informe di teste vuote interessate solo a sapere se una pop star tornerà insieme al rapper che l’ha appena cornificata (hanno affibbiato il ruolo ad Ariana Grande, bella voce però – ma su corna e tira e molla del web, in Italia ne abbiamo da vendere). Nessuno si preoccupa ancora della cometa che impatterà sulla Terra, fino a quando la cometa sarà visibile a occhio nudo nel cielo.
La popolazione a quel punto si divide, c’è chi urla tradimento al Presidente che mente (riferimento ai No Vax?), c’è chi sostiene la donna perchè “non è una bomba sexy?” spinge il figlio durante l’elettorato.


I ruoli sono confusi, chi dovrebbe informare pensa solo all’ospite sexy, chi dovrebbe dirigere pensa solo a coprire gli scheletri nell’armadio (foto nude e scappatelle – riferimento a Clinton?). La scienza è messa alla porta, taciuta, spogliata del ruolo (la ragazza finisce per essere zittita, costretta a firmare l’abbandono alla missione e si ritrova a fare la commessa in un piccolo supermercato di periferia. Quante volte abbiamo sentito questa storia? Medici che scoprono antidoti a malattie mortali, scomparsi nel nulla, esiliati, morti in circostanze sospette).

Il professor Randall Mindy cede alla vanità della popolarità, si lascia trascinare dal turbinìo facile del denaro, mentre la moglie lo invita ad una passeggiata fuori lui è impegnato a rispondere alle critiche sui social network, cede alle avances della conduttrice scema che in un momento di intimità gli confida “sono stata a letto con due ex presidenti, sono nata dannatamente ricca, ma ho tre lauree e ho acquistato due Monet”, come se questa confessione fosse il più nobile dei pensieri, la più profonda dichiarazione di sé (ricorda vagamente la bella Isabella Ferrari de “La Grande Bellezza” quando dopo una notte d’amore si interessa di mostrare all’amante i suoi selfie). In risposta, il professore, per raccontarsi: “Quest’anno è morto il nostro cane e non c’è momento più doloroso che io ricordi”. (questa frase è indice che per il personaggio c’è ancora una speranza di salvezza).

Tra challenge idiote, capi della NASA ex anestesisti, masse di pecore che vivono sui cellulari, salta fuori la mente informatica, il fondatore dell’azienda ipertecnologica Bash, Peter Isherwell (Mark Rylance), magnate macchietta di un Steve Jobs, Bill Gates o Zuckerberg, ideatore di uno smartphone che capta il tuo umore e ti proietta “animaletti musetti” per farti sorridere. (ma sono davvero utili i cellulari? Cosa ci hanno regalato e cosa tolto? Le relazioni umane non sono forse sbriciolate da quando la tecnologia ha preso il sopravvento? Noi umani queste domande ce le poniamo, al contrario di questi esseri problematici, sociopatici, che sembrano avere solo risposte.)

E’ solo intorno alla tavola imbandita, famiglia raccolta, moglie con cui si è riappacificato, che l’astronomo comprende il valore della vita, gli affetti: “Noi abbiamo veramente tutto, se ci pensate”.


Le intenzioni erano buone, la deriva del nostro tempo, la pochezza palese sui social network, l’assenza di emozioni, l’esplosione dell’ego, la corsa al denaro, la presunzione dell’ignorante, peccato che Adam McKay abbia impegnato un cast colossale in parti di davvero poco conto (come al povero Timothée Chalamet a cui vengono affidate due battute inutili alla trama).



Don’t look up” è un filmetto con tanti bei faccioni, ma temo ce ne dimenticheremo.

Claude Sautet vi racconta la donna in “Nelly e Monsieur Arnaud”

Nelly e Monsieur Arnaud”, un film di Claude Sautet


Nelly vende baguette, è di una bellezza dolce e sensuale, di quelle bellezze che vestono chi non sa d’esserne portatrice, difatti Nelly, come molte donne inconsapevoli, ha sposato un fannullone, un uomo che passa le giornate sul divano a guardare la tv, in attesa che la mogliettina torni a casa e adempia pure ai suoi obblighi da coniugata. 

Nelly presto riceve, da un conoscente di una sua cara amica, la somma di denaro che coprirà tutti i suoi debiti, come dono, come un regalo, un gesto di quelli che, anche alla più ingenua delle donzelle, lascia il punto di domanda e molti puntini di sospensione.

Il gentiluomo è un ex magistrato che ha avuto fortuna negli affari immobiliari, le proporrà di fargli da dattilografa, offrendole una fissa retribuzione, dettandole il libro che avrebbe sempre voluto scrivere e avendo così l’opportunità di starle accanto ogni giorno. Troverà il tempo di sedurla con lo sfoggio del potere, con le parole, con cene sontuose, con l’eleganza di un uomo d’altri tempi.

Alla bella Emmanuelle Béart hanno consegnato un copione bianco con moltissimi “OUI” e “NO”, detti a labbra serrate, alla francese, ma forse a lei basta presenziare in questa pellicola di Claude Sautet, che lascia alla donna il ruolo misterioso e magnetico, persuasivo e sfuggente.

Non uno dei suoi film migliori, ma di Sautet sappiamo che il silenzio è una componente onnipresente, nei suoi personaggi distaccati, introversi, guardinghi, come in Stéphane, il liutaio di “Un cuore in inverno”. 

Piuttosto noioso se non fosse per il magnetismo della Béart che ci attacca allo schermo a seguire ogni suo movimento, e per una scena rivelatrice che Sautet descrive in maniera eccellente: 

Una sera Nelly e Monsieur Arnaud cenano insieme in un ristorante stellato, l’età media della clientela è molto alta e la ragazza non passa certo inosservata accanto all’anziano signore, che tutti conoscono per fama. Lei indossa un tubino nero, degli orecchini di perle e un disinvolto chignon (ça va sans dire); l’alcool, uno Chateau d’Yquem del ’61, fa il suo gioco, e i due si ritrovano a flirtare scherzosamente per le insistenti occhiate dai tavoli vicini: tutti pensano che lei sia una prostituta e questo la diverte. 
Salutato Monsieur Arnaud, Nelly chiama in piena notte l’uomo che da tempo la corteggia, l’editore di Arnaud, a cui, fino a quella sera, non si era mai concessa, e si lascia andare ad un gioco che era già stato iniziato da un altro uomo.

Ecco, questa scena descrive perfettamente la donna dal punto di vista della donna, le bugie, le contraddizioni, i capricci, i desideri. Nelly sa che può trovare un corteggiamento antico, maturo ed elegante da Mr Arnuad e sa che può rivelare il suo lato istintivo con Vincent, l’editore, che l’accoglierà con l’ardore di un giovanotto. Nelly, dopo aver lasciato il marito, prende tutto, ma dovrà fare i conti con i sentimenti, quelli che fanno radici con lo stesso silenzio con cui lei si burla degli altri, per poi fare rumore quando sta per perderli.