“Le Ninfee di Monet” è il film di Giovanni Troilo che ha incantato le sale cinematografiche italiane, registrando in soli tre giorni più di 40.000 spettatori e circa 370.000 euro di incassi.
Girare un film su Monet è sicuramente una grande sfida per un italiano. Da dove nasce la scelta del soggetto?
L’idea di questo film viene da lontano, quando 3 anni fa ho lavorato per Sky Arte ad una serie sui capolavori perduti. Uno di questi era proprio un quadro di Monet distrutto durante l’incendio al Moma nel ’58. http://arte.sky.it/2018/04/serie-ninfee-monet-incendio-moma-new-york/
Questo mi ha fornito un punto di accesso inconsueto e un angolo privilegiato per immergermi nel suo mondo. Quello di un visionario la cui eredità viene colta pienamente solo 30 anni dopo la sua morte, quando l’uomo passato alla storia come il padre dell’Impressionismo viene riconosciuto come uno dei più importanti precursori dei movimenti astratti espressionisti americani.
E’ subito emersa anche l’epica contenuta nella genesi della sua ultima grandissima opera: un uomo ormai più che settantenne, all’apice della sua carriera, in un attimo perde tutto. Perde la sua amata Alice, il suo primogenito Jean, il giardino che aveva costruito con tanta fatica. E persino la sua vista, il suo leggendario occhio comincia a tradirlo. Il giorno delle elezioni, l’ex Primo Ministro George Clemenceau, abbandona la scena politica perché ha una missione più importante da compiere: riportare il suo grande amico alla pittura. Da quell’incontro nasce l’idea dell’ultima grande sfida di Monet, il progetto che porterà avanti nel suo stagno fino alla fine dei suoi giorni, sfidando la vecchiaia, la malattia e la guerra: La Grande Decoration. Ecco, da questa grande storia nasce l’idea del film.
Quali sono stati i tempi di produzione? Quali sono state invece le difficoltà?
L’ultima tranche di riprese è durata circa tre settimane, ma come dicevo la scrittura e parte delle riprese, quelle ricostruite in teatro di posa, sono state effettuate già tre anni fa con “Il Mistero dei Capolavori Perduti“. La sfida più grande era definire un linguaggio, il linguaggio di qualcosa che è per metà un film e per l’altra metà un documentario. Ma che sopratutto dovesse essere fruito prima di tutto al cinema e quindi con un grande impianto narrativo e visivo.
Ci sono degli aspetti che ci teneva particolarmente a sottolineare?
Credo che chi si accinge a guardare questo film debba essere pronto a calarsi nello spazio e nel tempo propri del viaggio, fatto di attese, scoperte e sorprese. Un viaggio immersivo, quasi fisico nei luoghi e nell’elemento prediletto di Monet: l’acqua. Con Elisa, il nostro narratore, partiamo dalla foce della Senna in Normandia e risaliamo il fiume che rappresenta la spina dorsale di Claude Monet, il percorso della sua intera esistenza. Quel viaggio fisico lentamente si trasforma in un viaggio della mente nella vita e nell’opera di Monet, attivando delle scene di totale immersione nel colore.
Quanto è stata importante la scelta del cast?
Portare punti di vista potenti e originali era un elemento decisivo per riuscire a raccontare pienamente una storia così sfaccettata. Elisa Lasowski ha subito dimostrato una straordinaria capacità immersiva riuscendo a cucire uno spazio profondamente intimo in cui il pubblico e la complessa personalità di Monet potessero incontrasi. Con Elisa ci eravamo scambiati moltissime suggestioni visive, sonore, ci eravamo persi in lunghe chiacchierate al telefono, ma ci siamo visti per la prima volta all’alba del primo giorno di set. Etretat si è presentata ai nostri occhi completamente avvolta da una nebbia surreale che sembrava aver paralizzato ogni cosa. Poi, in un attimo, si è dissolta mostrando la straordinarietà di quel set naturale dal quale ha preso avvio il nostro lungo viaggio risalendo la Senna fino a Parigi, passando per Argenteuil, Vetheuil, Giverny. A Giverny scopriamo un’altra preziosa voce, quella di Claire Helene Marron, giardiniera e custode del giardino di Monet. La prima volta che ci sono entrato, ricordo di aver sentito tradite le aspettative. Probabilmente ci saranno stati troppi visitatori in quella che negli anni è diventata la Mecca dell’Impressionismo, ma la magia mi sembrava spezzata. Claire ci ha garantito invece l’accesso inedito all’intimità così fortemente cercata da Monet e così profondamente parte di quel luogo. Abbiamo potuto seguire il lavoro che Claire e i suoi quindici colleghi fanno a porte chiuse all’alba per tenere viva la mastodontica architettura vegetale concepita da Monet come set per i propri dipinti. In quelle ore tutto è cambiato e l’intimità con quel luogo è diventata totale. Se Elisa e Claire ci guidano nel viaggio fisico, a Sanne De Wilde, fotografa e artista, il compito di immergerci nella visione artistica di Monet, per raccontarci la sua ossessione per l’acqua, la scomposizione in pixel (pennellate) dell’immagine. Ma anche per aiutarci a evocare grazie all’uso dell’infrarosso alcune delle profonde aberrazioni cromatiche dovute al deterioramento della vista di Monet e che l’artista decise di rendere parte del suo processo creativo, della sua visione. A Ross King, infine, al suo incredibile lavoro di ricerca e alla sua unica capacità di racconto dobbiamo moltissimo: il suo romanzo “Il mistero delle ninfee“. Monet e la rivoluzione della pittura moderna ha letteralmente spalancato le porte sul mondo dell’artista e soprattutto su quello dell’uomo Monet. Se questi sono i compagni visibili, ce n’è un altro non meno importante, onnipresente ma invisibile che rende unico questo viaggio, Remo Anzovino. In un quasi inspiegabile processo in reverse, le musiche scritte da Remo prima che il film fosse girato, basate su un film immaginato, raccontato, tornano a sposarsi perfettamente con le immagini fino a diventare un unicum praticamente indissolubile.
Che personalità aveva il grande maestro impressionista? Come traspare nel film?
Riuscire a raccontare questo gigante, confrontarsi con la sua arte, con la sua complessa personalità era probabilmente la sfida più grande. La soluzione più corretta ci è parsa quella di riportare il racconto all’uomo per stabilire con chiarezza la grandezza della sua impresa. E il racconto dell’uomo passa attraverso la storia di una grandissima amicizia tra due personaggi dal carattere piuttosto complicato, Claude Monet e George Clemenceau, Primo Ministro e Ministro della Guerra, una delle personalità più controverse della storia di Francia. La “tigre” e il “porcospino”, così erano soprannominati, trovarono in Giverny il riparo sicuro in cui coltivare l’amicizia che seppe resistere a qualsiasi avversità.
Tratteggiato l’uomo, andava definito il carattere eccezionale della sua impresa. Le sfide titaniche che sembrano il motore principale della sua esistenza, costituiscono lo scheletro narrativo stesso del film suddiviso in tre atti. La sfida iniziale fu di fondersi con gli elementi che dipingeva nel tentativo di catturare l’in-catturabile, concentrandosi sull’acqua e la luce, gli elementi più inafferrabili e mutevoli. Quando ritenne che almeno in parte questa sfida fosse risolta, ne intraprese una più grande, quella di costruire un set vegetale, di portare la natura addomesticandola nel suo giardino, deviando un fiume se necessario, cosa che fece ovviamente. E quando dopo il successo tutto sembrava nuovamente perduto si decise di imbarcarsi nella sua sfida più grande, la sua opera definitiva, la Grand Decoration: un’opera titanica concepita e realizzata maniacalmente grazie alla devota ostinazione di un uomo oramai quasi ottantenne. La riduzione cinematografica di una biografia così importante implica delle scelte, speriamo di aver fatto quelle giuste.
Cosa spera di comunicare nelle sale cinematografiche italiane tramite il suo film?
Spero che a comunicare sia il potere della storia stessa. Quella di un grande uomo impegnato tutta la vita nella costruzione di un’idea di felicità, non della felicità stessa, ma della sua idea che potesse ispirare l’umanità. E della tenacia, della fedeltà estrema a quella idea nell’arte e nella vita, chhe diventa un vero e proprio atto di resistenza quando il presente non sembra riconoscerne pienamente il valore o risulta addirittura avverso.
Lei, Giovanni Troilo, è prima ancora un fotografo. Come e quando nasce la sua passione per la fotografia?
Nasce da ragazzo, nello studio di un fotografo del mio paese in cui trascorrevo tutti i pomeriggi dopo il liceo. La fotografia è diventata una compagna di crescita e uno strumento di conoscenza del mondo. Molte cose sono ovviamente cambiate, ma l’atto del fotografare, del riprendere, rimane il modo privilegiato che ho di esplorare e appassionarmi.
Quali sono i registi che ammira particolarmente?
Carlos Reygadas, Bruno Dumont, Michael Haneke, Ulrich Seidl sono registi che ammiro moltissimo. Ma nessuno di loro è connesso in alcun modo a questo film. Nella ricerca di formule di linguaggio per questo lavoro ho cercato orientamento nella semplicità e insieme nella grandiosità del racconto di altri grandissimi maestri come Wim Wenders, Werner Herzog, Abbas Kiarostami.
Prossimi progetti in cantiere?
Da qualche anno sto lavorando ad un progetto complesso, che è stato prima un lavoro fotografico e poi un film documentario sul Belgio e che presto diventerà un film, una commedia nera sul cuore dell’Europa Contemporanea.
Il film è fruibile anche in Canada , ben presto in Russia e a seguire in molti altri paesi anche europei.
http://www.nexodigital.it/le-ninfee-di-monet-un-incantesimo-di-acqua-e-di-luce/?fbclid=IwAR0GKBzR7BTxUq0ZIc4eL3wrR-yGYh83dlmnOAuGjUCAA4qRkDx7X2CPBJE