Suggestioni Swinging Sixties hanno caratterizzato la passerella di N°21. La collezione Autunno/Inverno 2016-2017 disegnata da Alessandro Dell’Acqua presenta capi dalla linea militare, che attingono al passato. Il parka diviene protagonista assoluto, in un revival Mod, tipicamente anni Sessanta.
Note colorate per capi in canvas, dall’eskimo al giubbino, per un mood military declinato in chiave chic. Una sfilata all’insegna degli opposti: il nuovo Mod coniuga mirabilmente il lato strong e prevalentemente maschile, evidente nei pantaloni combat, con un’anima eterea e femminile. Un tocco sporty-chic è evidente nei capispalla che giocano con i dettagli, come le grandi tasche, ricamate in un finto trasandato che le fa apparire quasi sfilacciate. Le sneaker ai piedi sembrano parimenti consumate.
Una collezione gentile, per un uomo che attinge spesso e volentieri al guardaroba femminile. Le camicie in seta disordinate sono emblema dell’effortlessy chic, mentre i cappotti furry sono un vezzo rubato all’armadio di lei. Torna prepotentemente alla ribalta l’animalier rivisitato su maglioni pesanti. Il maculato più classico fa invece capolino sui cappotti. Audace sperimentazione nei dettagli e nei materiali usati, come il pizzo che sbuca fuori dalla lana, mentre i cappotti in montone rovesciato aiutano a combattere il rigore invernale.
Dell’Acqua ha pensato proprio a tutto, e l’inedito parka da sera conquista il nuovo Mod. La collezione sembra voler imporsi come un monito per andare alla riscoperta di valori ormai perduti. Basta con l’uomo macho, Dell’Acqua manda in passerella un uomo gentile, che non teme le donne ma le ama. In tempi in cui la misoginia sembra essere tornata prepotentemente alla ribalta, l’uomo gentile è quantomai fashion.
Spaghetti western in passerella da Dolce & Gabbana. La Sicilia rurale del passato rivive nella collezione Autunno/Inverno 2016-2017 del duo di stilisti. Un uomo selvaggio, che non teme la vita all’aria aperta, ben consapevole dell’alto tasso di sensualità che emana.
Mood wild nei pantaloni grunge come anche nelle pellicce, mentre pistole da Far West fanno capolino su cappottini dall’appeal bon ton. Il ferro di cavallo colora felpe casual, con funzione apotropaica, e, ancora, il denim decorato da saloon diviene total look: un mood che sembra trarre ispirazione direttamente dalla Cavalleria Rusticana. Ma l’uomo selvaggio cede il posto al businessman con iPad d’ordinanza, che non resiste alla tentazione di scattarsi un selfie. Il duo di stilisti aveva già sdoganato il selfie nella sfilata donna primavera/estate 2016, dove le modelle si fotografavano ad ogni uscita.
La Sicilia, patria elettiva di Dolce & Gabbana, diviene ora teatro di un inedito western alla siciliana, condito da suggestioni fashion e trend che non mancheranno di monopolizzare l’attenzione nella prossima stagione invernale. Chiude il défilé un dandy con tanto di panciotto e slippers ai piedi: forse un omaggio al Gattopardo.
Atmosfere post industriali per il primo fashion show del designer durante l’ultima edizione del Pitti.
Il trentenne bresciano Vittorio Branchizio, a seguito della vittoria allo scorso Who’s on Next, contest curato da Pitti Immagine, Altaroma e Condè Nast, dedito allo scouting per stilisti emergenti, torna al Pitti Uomo con il fashion show della collezione Autunno/Inverno 2016.
Cresciuto in un ambiente eclettico, dove l’attitudine a interagire con il mondo delle arti visive l’ha contagiato sin dalla tenera età, ha espresso da sempre il desiderio di collaborare con talenti del panorama artistico contemporaneo ai fini di fusioni e ispirazioni reciproche.
Nasce così anche la passione per l’arte del filato e del know how italiano annesso. Le tecniche artigianali e le nuove tecnologie hanno guidato Branchizio nella selezione di cachemire, seta, cotone, lino e lana merino proposti dalle eccellenze del territorio nazionale. Romantica e evocativa la nuova collezione raccoglie le cromie e le trame delle pietre del fiume Arno.
In sincronia con la sfilata, una video proiezione ha guidato lo spettatore nella percezione dell’ispirazione creativa.
Il blu notturno, il rosato e il glaciale delle pietre hanno preso vita sui filati e nella manipolazione dei capi finiti che ricordano, nei loro volumi, le lunghezze mediorientali e lo studio delle proporzioni giapponesi.
Questa volta la sinergia artistica è giunta con l’artista Sergio Perrero e con il designer Uros Mihic, contattati per gli elementi pittorici e lo studio dell’origami.
Concettualmente graffiante e contemporanea la maglieria di Branchizio assume, anche per le prossime stagioni, una connotazione colta e contemporanea in grado di tramandare in modo innovativo uno dei patrimoni artistici italiani.
Occhi puntati sulla Milano Moda Uomo: tra i primi ad aprire la kermesse di moda maschile è Ermenegildo Zegna. È un dandy contemporaneo l’uomo proposto da Stefano Pilati: perfettamente aplomb nei suoi completi dalle linee fluide, che cadono perfettamente esaltandone la figura. La parola d’ordine è una: eleganza.
La collezione Autunno/Inverno 2016-2017 di Zegna elogia il dandismo e il passato, valorizzando una raffinatezza senza tempo declinata in chiave maschile. L’uomo che calca la passerella è un gentleman d’altri tempi, novello Dorian Gray, esteta ed edonista, che col suo incedere sicuro ci aiuta a riscoprire la più autentica tradizione sartoriale italiana.
Grigio melange protagonista assoluto per capi dall’appeal evergreen, ma anche tanto blu, su cappe, mantelle, maglioni ricamati. Ricercatezza nelle passamanerie e grande cura per il dettaglio nelle fantasie jacquard, che talvolta si mixano a dettagli paisley, in un inedito gioco cromatico che sfocia nel patchwork. Trionfo del gessato, per abiti interi ma anche mantelle e cappottini che talora cedono il passo a piccoli dettagli che coniugano perfettamente il comfort e lo stile, come le maniche trapuntate.
La sfilata di Zegna non lesina in suggestioni anni Quaranta, che appaiono evidenti nei volumi e nelle proporzioni: i cappotti sono ampi, i pantaloni svolazzano sulle gambe, per un’eleganza dalle linee classiche e dal sapore antico.
Zigomi pronunciati, labbra a cuore e quel sorriso, semplicemente inimitabile: Kate Moss spegne oggi 42 candeline. Volto storico della moda, icona di stile tra le più copiate, la supermodella è uno dei nomi più celebri del fashion biz. Apparsa sulla copertina di oltre 300 riviste, apprezzata universalmente per il suo stile, che le ha fatto ottenere numerosi riconoscimenti, tra cui quello del Consiglio degli stilisti d’America, che l’ha inserita nella lista delle donne meglio vestite nel mondo, Kate Moss è una vera leggenda vivente.
All’anagrafe Katherine Ann Moss, la modella è nata a Croydon, un sobborgo di Londra, il 16 gennaio 1974. Sua madre Linda fa la barista, mentre il padre Peter è un agente di viaggi. Kate viene scoperta in un aeroporto di New York all’età di 14 anni, dalla fondatrice dell’agenzia di moda Storm, Sarah Doukas. La giovane non rientra in nessuno dei canoni vigenti nella moda: bassa (non arriva a sfiorare il metro e settanta) e ossuta, Kate appare lontana anni luce dai fisici statuari di Claudia Schiffer, Naomi Campbell e Cindy Crawford, le supermodelle degli anni Novanta, perfette ed irraggiungibili. Farle ottenere un contratto sembra una battaglia persa in partenza, ma Sarah Doukas di talenti ne ha visti passare molti ed è convinta che quella smilza ragazza farà strada.
Il primo shoot risale al 1990: è la rivista inglese The Face ad offrire alla nuova modella un servizio fotografico ambientato in una spiaggia a sud di Londra. Incredibilmente le foto ottengono un successo insperato e Kate Moss diviene un volto noto. Considerata un’icona alternativa per il suo aspetto, non conforme ai diktat dell’epoca, Kate Moss viene associata al movimento grunge.
Ma è con la celebre campagna pubblicitaria per Calvin Klein che la modella ottiene la fama internazionale. Scatti bollenti al fianco di Mark Wahlberg immortalano la nuova top seminuda: il fisico acerbo ritratto in topless, le pose ammiccanti e la bellezza acqua e sapone sdoganano Kate Moss come il nuovo volto della moda. Siamo negli anni Novanta, l’epoca d’oro delle supermodelle, algide nella loro perfezione, svettanti su fisici tonici e volti perfetti. Tutto questo venne cancellato dall’avvento di Kate Moss: la rivoluzione Kate fece sì che la nuova modella, bassa e piena di difetti rispetto all’ideale di perfezione allora vigente, si imponesse e spazzasse via ogni residuo del passato. Spartiacque tra le supermodelle e le nuove top, dai fisici sempre più esili, il fenomeno Kate Moss ha portata storica senza precedenti: il fattore preponderante è la personalità, quel particolare lampo negli occhi che fa la differenza in foto, rendendo la Moss un personaggio unico, dall’espressività capace di superare le barriere della carta patinata. Considerata capostipite delle modelle anoressiche, il suo fisico acerbo suscitò aspre critiche e polemiche.
Nel 1995 le foto della campagna per il profumo Obsession di Calvin Klein divengono addirittura un caso nazionale negli States, suscitando polemiche e muovendo persino accuse di pedofilia nei confronti dello stilista americano. Dopo che il dipartimento di giustizia, su ordine dell’allora presidente Bill Clinton, avviò un’inchiesta, la campagna fu ritirata dopo appena tre settimane. Intanto la modella divenne a tutti gli effetti una top model, calcando le passerelle dell’alta moda di Parigi, New York e Milano, e ottenendo le cover dei magazine più prestigiosi, da Elle ad Harper’s Bazaar, da Vogue ad Allure. Kate Moss sfila per tutti i grandi nomi della moda, da Gucci a Versace a Burberry, da Calvin Klein a Dolce & Gabbana, fino a Chanel, Roberto Cavalli, Louis Vuitton, Missoni, Dior, Yves Saint Laurent, Stella McCartney.
SFOGLIA LA GALLERY:
Viso pulito e aria innocente
Kate Moss ritratta da Ellen von Unwerth per Vogue Italia, 1992
Kate Moss in uno scatto di Arthur Elgort
Kate Moss e Mark Wahlberg nella campagna scandalo di Calvin Klein Jeans, 1992. Foto di Herb Ritts
Kate Moss per Calvin Klein, 1993
La magrezza di Kate Moss suscitò aspre polemiche
La top model iniziò la carriera nella moda casualmente
Lontana dagli ideali di bellezza degli anni Novanta, Kate Moss non sembrava adatta alla carriera di modella
Kate Moss è considerata una delle più influenti icone di stile contemporanee
La modella negli anni Novanta
Kate Moss ha sfilato per nomi del calibro di Chanel, Louis Vuitton, Dior, Stella McCartney, Yves Saint Laurent
La modella ebbe una storia con l’attore Johnny Depp
Kate Moss è figlia di una barista e di un agente di viaggio
In pelliccia e abbigliamento casual
Kate Moss in orecchini Christian Dior Haute Couture, fotografata da Annie Leibovitz for Vogue America, ottobre 1999
La top model in passerella negli anni Novanta
Kate Moss nel2012 ha preso parte alla Cerimonia di chiusura dei Giochi della XXX Olimpiade di Londra
Kate Moss durante una sessione di trucco
La modella in passerella
Kate Moss vista dall’artista Allen Jones
Kate Moss sulla copertina di Vogue UK, dicembre 2001, foto di Mario Testino
Kate Moss ritratta da Herb Ritts per il Calendario Pirelli del 1994
In passerella per Christian Lacroix
Una giovanissima Kate Moss
La sensualità di Kate Moss
Foto di Arthur Elgort per Vogue, Aprile 1995
Uno scatto di Patrick Demarchelier
Lo stile di Kate Moss
Kate Moss ritratta da Herb Ritts nel 1994
La top model posa per Juergen Teller, 1998
In passerella per Tom Ford per Gucci
Kate Moss come Faye Dunaway
Cuissardes e minigonna
Vogue America, 1995, foto di Ellen von Unwerth
Kate Moss come Marlene Dietrich, ritratta in Dior Homme da Mert & Marcus per Vanity Fair, 2006
Kate Moss ritratta da Mario Testino
Kate Moss per Peter Lindbergh
Kate Moss su Playboy, 2014
Il matrimonio con Jamie Hince
Kate Moss ritratta da David Bailey per Vogue Paris, agosto 2013
Kate Moss per Mario testino
Kate Moss per Mario Sorrenti, 1993
Kate Moss in passerella per Chloé, 1998
Foto di Albert Watson
Kate Moss all’Hotel Raphael, camera 609, Parigi, 1994, foto di Arthur Elgort
Kate Moss per Vogue UK, dicembre 2014, foto di Mario Testino
Kate Moss per Vogue UK, giugno 2013, foto di Patrick Demarchelier
Testimonial di Rimmel, Bulgari, Versace, Missoni, Balenciaga, Chanel, Burberry, è apparsa ben 24 volte sulla cover di Vogue, ottenendo copertine anche su Vanity Fair, W, The Face e su molte altre riviste patinate. Intanto anche il gossip si scatena sulle sue storie d’amore, a partire da quella con l’attore Johnny Depp. Musa di nomi del calibro di Mario Testino, Mario Sorrenti e Peter Lindbergh, che l’ha inserita nel suo libro 10 Women, nel luglio 2007 Kate Moss viene nominata dalla rivista Forbes la seconda modella di maggior successo al mondo.
Il 2005 è l’anno dello scandalo: nel settembre la rivista britannica Daily Mirror pubblica in prima pagina alcuni scatti che ritraggono la supermodella nell’atto di consumare cocaina, insieme al compagno di allora, il controverso musicista Pete Doherty. Lo scandalo è servito. L’occhio di chi legge l’articolo non può non indugiare sulla foto che ritrae la modella intenta a sniffare; la firma di quel pezzo rivela che sono ben cinque le strisce di cocaina consumate da Kate Moss in appena 40 minuti. Per la top model è il declino; quasi tutti i contratti vengono annullati. Da Stella McCartney a Chanel e Burberry, nessuno sembra più interessato a lei come testimonial. La situazione è difficile, al punto che è la stessa Kate Moss alla fine a chiedere scusa pubblicamente ai milioni di fan e di persone che si ispirano a lei: lo fa in una conferenza stampa in cui ammette pubblicamente le proprie responsabilità.
A schierarsi in sua difesa sono in pochi: le colleghe Naomi Campbell e Helena Christensen, l’attrice Catherine Deneuve, l’ex-fidanzato Johnny Depp e lo stilista Alexander McQueen. Christian Dior continua a volerla come volto della maison e la rivista W le dedica la cover nel novembre 2005, a soli due mesi dalla bufera mediatica scatenata dal servizio del Daily Mirror. Intanto termina anche la relazione con Doherty, che la definisce una “stalker”. La top model viene anche indagata per uso di sostanze stupefacenti. Ma Kate Moss, novella Araba fenice, risorge dalle proprie ceneri: nel novembre 2006 è lei a ricevere il riconoscimento di “modella dell’anno” dal British Fashion Awards. Lo scandalo è dietro l’angolo ma lei è tornata, più forte che mai, e i designer se la contendono: nuovi contratti includono brand del calibro di Rimmel, Agent Provocateur, Belstaff, Dior, Louis Vuitton, Roberto Cavalli, Longchamp, Stella McCartney, Bulgari, Chanel, Nikon, David Yurman, Versace, Calvin Klein Jeans e Burberry. Secondo la rivista Forbes la Moss dopo lo scandalo avrebbe triplicato i propri guadagni, divenendo ufficialmente la modella più pagata al mondo, seconda solo a Gisele Bündchen.
Nel 2014, al compimento dei 40 anni, la top model si è regalata un servizio senza veli per la celebre rivista Playboy, in cui ammicca come coniglietta. Le foto, realizzate da Mert Alas e Marcus Piggott, celebrano il 60º anniversario della rivista. Una rinnovata consapevolezza sul volto e un fisico cui il trascorrere del tempo ha regalato una nuova sensualità nell’esplosione di curve sinuose, Kate Moss appare oggi ancora più bella. Icona di stile dal gusto raro, capace di passare con disinvoltura dallo stile bohémien all’eleganza più sofisticata, onnipresente nelle classifiche delle donne meglio vestite al mondo, Kate Moss è stata anche stilista per la catena britannica Toshop, per cui ha firmato nel 2007 una collezione in esclusiva, mostrandosi come manichino umano nelle vetrine di Oxford al lancio della linea recante il suo nome.
Dopo la fine del matrimonio con il chitarrista dei The Kills Jamie Hince, sposato nel 2011, oggi la modella appare serena e in forma smagliante. Qualche chilo in più che non ne offusca minimamente la straordinaria bellezza, Kate Moss sorride nelle foto che la ritraggono accanto alla figlia Lila Grace, nata nel 2002 dalla relazione con Jefferson Hack, editore della rivista Dazed & Confused.
Icona di stile tra le più apprezzate al mondo, i suoi look ispirano quotidianamente milioni di donne: amante del boho-chic, ha indossato spesso capi vintage. Forte di un fisico capace di esaltare qualsiasi mise, la modella incanta ad ogni uscita pubblica.
Energia e dinamismo sono le parole chiave della nuova collezione Invicta Autunno/Inverno 2016/2017. Un’offerta ancora più ampia e variegata per quanto concerne i tessuti, che dal nylon basic si arricchiscono di tessuti memory e stampe nuove. Una palette cromatica che si arricchisce di colori nuovi, tra cui l’antracite, il bordeaux, il blu scuro, per capi pensati sia per l’uomo che per la donna. Piombo e oro sono le nuances che caratterizzano la nuova collezione presentata al Pitti 89: capispalla, tra cui giubbini, blazer, giacche, cappottini, giacconi, parka, maglieria, ma anche e accessori, come berretti e sciarpe in lana e cappucci multifunzionali.
Comfort e stile nel pezzo forte della nuova collezione, il giubbino trapuntato con cappuccio in nylon full dull water-proof e down-proof, con gilet interno fisso. Il capo, unisex, è caratterizzato da una particolare tecnologia che permette di indossare il giubbino come fosse uno zaino. Al suo interno sono state infatti inserite delle bretelle elastiche personalizzate che permettono di indossare il giubbotto come se fosse uno zaino (elemento direttamente riconducibile al brand e al prodotto, lo zaino, che ha fatto la storia del marchio).
Si continua con giubbini per lui e per lei, ma anche cappottini pensati esclusivamente per lei, con un mix di tessuti accattivanti, per una collezione che coniuga brillantemente il design al comfort e alla funzionalità, da sempre elementi che caratterizzano le collezioni Invicta. Comodità e stile per i capispalla pensati per l’uomo, ma anche per la donna.
Invicta nel 2016 festeggia 110 anni. Il brand nasce infatti nel lontano 1906, con le borse e i sacchi da marina. Successivamente viene acquistato da un artigiano torinese specializzato nella produzione di zaini e accessori per i primi alpinisti. Ma è negli anni Ottanta che Invicta diventa brand di culto per intere generazioni, grazie anche allo zainetto Jolly. Il brand diviene vero fenomeno sociale di moda e costume, il cui stile è giunto fino ai nostri giorni.
Il suo nome ai più dirà poco, ma le sue creazioni sono entrate nella storia: monili preziosi e raffinati, collane realizzate con cristalli di rocca, bangles dalle suggestioni antiche, e, ancora, spille a forma di croci bizantine. Preziose, sofisticate, dall’inestimabile valore e dal gusto inimitabile, le creazioni realizzate da Robert Goossens hanno impreziosito per oltre mezzo secolo le collezioni di moda di nomi del calibro di Chanel, Madame Grès, Schiaparelli, Yves Saint Laurent, Rochas, Balenciaga, Dior. Il grande creatore di gioielli è scomparso a Parigi lo scorso 7 gennaio, all’età di 88 anni.
Nato nel 1927 in una famiglia modesta, suo padre lavorava in una fonderia. Fin da giovanissimo, Robert sviluppò un amore viscerale per le pietre preziose. La sua carriera iniziò a soli 15 anni come apprendista orafo, creando piccoli oggetti per le grandi gioiellerie di Parigi.
Questa familiarità con le pietre preziose sarà più avanti il motore della sua carriera: la sua particolare attitudine lo spingerà infatti a mixare con gusto ed un’eleganza senza pari pietre preziose a pezzi di bigiotteria, pietre artificiali a gemme preziose. Raffinato artigiano dall’incommensurabile sensibilità estetica, Robert Goossens è stato uno dei nomi più importanti nel design di gioielli del XX secolo.
Un’estetica ricercata che traeva ispirazione dai dipinti che Robert aveva visto nei musei parigini, ma anche da opere del Rinascimento e da altre culture, in primis Bisanzio e i suoi mosaici preziosi. Pioniere iconoclasta, viaggiò moltissimo nel corso della sua vita, portando con sé ametisti, zaffiri, rubini, coralli, cristalli di roccia e quarzo, che poi modellò in pezzi di alta gioielleria, insieme al bronzo, alle perle e persino alle conchiglie. Orecchini pendenti, bracciali rigidi, bangles, ma anche collane e girocolli, spille e piccoli dettagli forgiati con una classe rara, che attingeva a culture e popoli lontani. Le creazioni di Goossens fanno sognare e ci trasportano in una dimensione onirica, in cui il lusso è solo una delle numerose sfaccettature di un’arte unica.
Dall’età di 25 anni il suo lavoro iniziò ad essere apprezzato dalle case di moda, e Cristóbal Balenciaga fu il primo a commissionargli un lavoro, ossia la realizzazione di una croce di cristallo di ispirazione bizantina, per una sfilata di haute couture. Nel 1953 inizia il sodalizio con Chanel. Mademoiselle Coco adorava l’arte del maestro orafo, a cui chiese di realizzare i gioielli per molte delle sue collezioni, oltre che mobili e pezzi di antiquariato per la sua casa. Spiccano gli smeraldi e le croci bizantine, oltre ai celebri bangles, nel curioso mix tra pietre preziose e bigiotteria adorato da Gabrielle. Goossens collaborò con la maison fino alla scomparsa della sua creatrice, per poi lavorare con Karl Lagerfeld nel corso degli anni Ottanta e Novanta, sia per le collezione di prêt-à-porter che per quelle di haute couture. Il marchio Chanel acquistò la compagnia di Gossens lo scorso 2005.
Definito “Monsieur Bijou”, dagli anni Settanta iniziò un nuovo prolifico sodalizio artistico con monsieur Yves Saint Laurent, per cui, su consiglio di Loulou de la Falaise, creò collezioni di ispirazione africana. Per la maison francese Goossens realizzò di tutto, dalle trousse per la linea di make up fino alle boccette di profumo in edizione limitata. La collaborazione con Saint Laurent durò fino al 2002, quando la maison chiuse con l’alta moda. Lo showroom Goossens è ubicato in Avenue George V, una delle vie più eleganti di Parigi. Alcune delle creazioni del maestro fanno oggi parte delle collezioni del Muséè des Arts Décoratifs di Parigi. Il maestro lascia due figli e una lunga tradizione nel design di gioielli.
Ieratiche come marmoree sculture, atemporali come le opere d’arte che impreziosiscono un museo, misteriose ed iconiche: le creazioni di Roberto Capucci costituiscono un unicum nel panorama della moda.
Enfant prodige, ad appena 26 anni fu definito da Christian Dior «il miglior creatore della moda italiana»: Roberto Capucci, classe 1930, vanta una carriera a dir poco sfolgorante. Nato a Roma, dopo aver frequentato il liceo artistico e l’Accademia di Belle Arti, dove si forma con i maestri Mazzacurati, Avenali e de Libero, nel 1950, a soli venti anni, inaugura il suo primo atelier, in via Sistina, grazie all’aiuto della giornalista Maria Foschini, che fu per lui Pigmalione ante litteram. L’anno seguente presenta le sue creazioni a Firenze, presso la residenza di Giovanni Battista Giorgini, inventore della moda italiana.
Audace sperimentatore, le sue collezioni riflettono il suo viscerale amore per l’arte. Le geometrie e i volumi arditi e altamente scenografici traggono ispirazione dalla natura, con le sue molteplici espressioni. Il Nove Gonne, creato nel 1956, è forse l’abito più conosciuto del periodo iniziale dell’opera di Capucci: trattasi di un semplice abito in taffetà rosso che si sviluppa in ben nove gonne concentriche con tanto di strascico sulla parte posteriore. Si dice che il couturier sia stato ispirato dal gioco di cerchi concentrici che si sviluppa sulla superficie dell’acqua lanciandovi un sasso.
Nel 1958 crea la Linea a scatola, un’autentica rivoluzione, per cui nel settembre dello stesso anno viene insignito a Boston con la massima onorificenza, l’Oscar della Moda quale migliore creatore di moda, insieme a nomi del calibro di Pierre Cardin e James Galanos. Nel 1961 inizia la conquista della Francia, ove il couturier presenta le proprie creazioni; l’anno seguente inaugura il suo atelier al n. 4 di Rue Cambon, a Parigi. Negli anni parigini la sua ricerca e sperimentazione proseguono fino ad abbracciare materiali insoliti, quali la plastica, le fibre hi-tech, il plexiglass e il metallo.
In quel periodo abita al Ritz, come Coco Chanel, ed è acclamato come una vera celebrità. Le sue clienti vengono soprannominate «le capuccine». Pochi anni più tardi, nel 1968, viene costretto a rientrare in Italia da alcuni problemi familiari. Qui apre un nuovo atelier in via Gregoriana e presenta le sue collezioni nel calendario della moda organizzato dalla Camera Nazionale dell’Alta Moda. Nello stesso anno disegna i costumi di Silvana Mangano per il film Teorema di Pier Paolo Pasolini. Intanto continua a sperimentare e utilizza per le sue creazioni anche paglia, rafia e sassi, che mixa alla seta e all’alluminio, per la realizzazione di capi dal potente impatto scenografico. Ricordano le crisalidi certi abiti-scultura di Capucci, tra corazze di seta plissettata e ali lavorate, in un gioco di ardite sovrapposizioni e giochi barocchi, che modellano i tessuti e le sete come arabeschi, petali e ventagli, per capi che ricordano gli origami. Non semplice moda, non mera creazione di capi legati alla caducità delle tendenze stagionali, ma arte allo stato puro: il suo è un design onirico, caratterizzato da tagli astratti, continua sperimentazione e ricerca di tessuti e forme nuove. Tra i materiali usati spiccano il taffetà, il mikado, il Meryl Nexten, una particolare fibra cava.
SFOGLIA LA GALLERY:
Roberto Capucci al Phladelphia Museum of Art
Abito serpentine in organza tripla, Galleria del Costume di Palazzo Pitti
Una sfilata di Roberto Capucci
Abito Capucci, foto di Philippe Pottier,1962
Abito scultura in taffetà nero e bianco con sovrapposizioni multicolori, presentato nel 1992 a Berlino al Teatro Schauspielhaus.
Una creazione del 1966
Un capo del 1964
Philadelphia Museum of Art
Foto di Barry Lategan, 1982
Un capo del 1965
Restless Sleep (Sham Hinchey e Marzia Messina)
Nel luglio del 1970 presenta per la prima volta il suo lavoro in un museo, a Roma: la location scelta è il ninfeo del Museo di Arte Etrusca di Villa Giulia. Anarchico e scevro da ogni logica di mercato, esteta di antica tradizione, Capucci nel 1980 si dimette dalla Camera Nazionale della Moda e decide di intraprendere un percorso che sia in linea con la propria personalità, divorziando dalle istituzioni per dedicarsi completamente alla sua opera estetica. Il couturier si ritira in una creazione solitaria, avente un solo fine: l’arte. Genio ribelle, aborre le logiche di mercato, come anche le scadenze e il caos tipici delle settimane della moda. Alla base della sua attività vi è una autentica ricerca estetica, per abiti-scultura che sono vere e proprie opere d’arte da indossare. A partire dagli anni Ottanta le sue collezioni non vengono più inserite all’interno di alcun calendario ma vengono presentate come delle personali d’artista. La sua stagione espositiva inizia nel 1990 con la mostra Roberto Capucci l’Arte Nella Moda—Volume, Colore e Metodo a Palazzo Strozzi a Firenze: l’esposizione ottiene un successo senza precedenti e le sue opere vengono contese dai musei più importanti al mondo, tra cui il Kunsthistorihsches Museum (Vienna), il Nordiska Museet (Stoccolma), il Museo Puškin delle belle arti (Mosca), il Philadelphia Museum of Art, la Reggia di Venaria Reale (Torino). Nel 1995 le sue creazioni sono protagoniste della Biennale di Venezia, nell’edizione del centenario 1895-1995. Nel 2005 crea la Fondazione Roberto Capucci allo scopo di preservare il suo impotente archivio, che consta di 439 abiti storici, 500 illustrazioni firmate, 22.000 disegni originali, oltre che di una rassegna stampa completa e di una vasta fototeca e mediateca. Nel 2007 apre il Museo della Fondazione Roberto Capucci presso Villa Bardini, a Firenze. Nell’aprile 2012 la creazione di un concorso, con lo scopo di promuovere i giovani talenti.
Riservato, refrattario ad ogni forma di pubblicità, schivo, Capucci incarna forse l’ultimo dei couturier, i sarti-architetti che, come Cristóbal Balenciaga, hanno elevato la moda ad una tra le più potenti espressioni artistiche. Ribelle ed anarchico, fedele ai valori estetici della vecchia scuola, per Capucci “la moda non esiste”, è un’invenzione, al pari delle tendenze, ed “essere alla moda è già essere fuori moda”. Una personalità forte, che non teme di affermare con forza che, se potesse, abolirebbe lo stesso termine moda dal vocabolario. Maestro di stile, definisce l’eleganza come fascino, mistero, qualcosa che nulla ha a che fare con l’apparenza. Testimone impotente del decadimento dei costumi, giudice inflessibile rispetto alla volgarità imperante nella sua Roma e, più in generale, nella società attuale, Capucci ha più volte ribadito che oggi a suo dire non vi sarebbe alcuna icona di stile.“L’alta moda è morta” —tuonava così pochi anni fa, commentando le sfilate dell’alta moda romana. E proprio lui, che della moda è stato uno dei nomi più importanti a livello mondiale, esordisce spesso e volentieri dicendo: “Di moda non mi intendo affatto”. Gli occhi sagaci rivelano il suo ricchissimo mondo interiore, la sua eleganza è entrata a buon diritto nelle enciclopedie della moda. “Ho un solo vizio: spendo tanto in abbigliamento. Ho 42 cappotti, in tutti i colori, dal bianco al nero e all’arancione”, ammette il couturier in una delle innumerevoli interviste.
Universalmente riconosciuto come uno dei nomi più importanti della moda del XX secolo, Capucci ha vestito teste coronate e star del cinema: da Silvana Mangano al soprano Raina Kabaivanska a Rita Levi-Montalcini, che indossava proprio una creazione del Maestro in occasione del conferimento del Premio Nobel per la medicina del 1986. Nel 2007 è stato inaugurato a Villa Bardini (Firenze) un museo a lui dedicato: «A Roma non c’era posto per me; nessuno m’ha offerto un luogo per la mia Fondazione. Qui, invece, mi hanno steso un tappeto rosso». Commentava così il couturier, la cui attività è iniziata proprio a Firenze, nel 1951. Un nome che, da Roma e dall’Italia, ha conquistato il mondo. “Fai della bellezza il tuo costante ideale” è il monito lanciato da Capucci, summa di tutta la sua attività, dagli anni Cinquanta fino ad oggi.
Uno sciopero di cinque giorni è la misura adottata dal mensile di moda Marie Claire per protestare contro il licenziamento della caporedattrice Alba Solaro. L’azienda, che si è avvalsa della legge Fornero, adducendo alla base del provvedimento ragioni economiche, è al centro di una bufera innescata dalla reazione dei colleghi della Solaro, che denunciano un clima di terrore.
Alba Solaro, caporedattore della testata dal 2007, è stata informata del provvedimento lo scorso 29 dicembre: il licenziamento per giustificato motivo fa riferimento alla legge Fornero e viene motivato con ragioni di natura economica, che avrebbero imposto all’editore Hmi di rinunciare alla figura del caporedattore centrale. Alla giornalista spetterà un indennizzo da 12 a 24 mensilità, ma non potrà essere reintegrata.
La Fnsi, il sindacato dei giornalisti italiani, definisce la vicenda come “un brutto precedente che getta pesanti ombre sul mestiere”. I colleghi della Solaro si sono mobilitati prontamente annunciando uno sciopero di cinque giorni. L’editore Hmi fa parte del gruppo Hearst, che comprende testate come Elle, Cosmopolitan, Gente, Gioia.
È scomparso ieri, all’età di 69 anni, David Bowie. Androgino, trasformista, dandy, iniziatore del glam rock ed icona trasgressiva. The Thin White Duke, Ziggy Stardust, Halloween Jack sono solo alcuni degli alter ego che hanno reso Bowie una vera leggenda. Performer di ineguagliabile bravura, il suo stile ha impresso un segno indelebile non solo nel mondo musicale, ove la sua stella ha brillato per oltre cinque decenni, ma anche nel mondo dell’immagine, rivoluzionando la cultura visiva e la moda.
All’anagrafe David Robert Jones, l’artista era nato a Londra l’8 gennaio 1947. Una carriera incredibilmente variegata lo ha portato a vestire i panni di cantautore, polistrumentista, attore, compositore e produttore discografico. Dal glam rock al folk fino all’elettronica, Bowie sperimentava e osava.
Bellissimo ed efebico, ha giocato sapientemente con la propria ambiguità e con la propria immagine, forte di un talento senza precedenti nella storia. Riservato, schivo, il divo ha vissuto sempre in bilico tra eterosessualità e bisessualità: due matrimoni, con Angela Barnett e con la top model somala Iman, due figli, Duncan e Alexandria “Lexi” Zahra.
Geniale interprete di un’epoca, David Bowie ha incarnato il glam rock e inaugurato una subcultura di moda, che trova nel Duca Bianco mirabile interprete. Il trucco in colori fluo, il celebre lampo disegnato sul viso, e, ancora, i lustrini e le paillettes: indimenticabili le sue mise, tra cui le tutine aderenti di Ziggy Stardust, l’extraterrestre dai capelli arancioni che gli diede il successo a livello mondiale. Suggestive e teatrali le vesti di Aladdin Sane, caratterizzate da volumi oversize, con le tute realizzate dallo stilista giapponese Kansai Yamamoto.
I suoi outfit iconici hanno ispirato innumerevoli shoot e copertine. Kate Moss ha più volte vestito i panni di Bowie: indimenticabile il tributo al Duca Bianco nella cover di Vogue UK di maggio 2003, con la supermodella ritratta da Nick Knight col celebre fulmine rosso disegnato in volto. E, ancora, un omaggio a Ziggy Stardust sulla cover di Vogue Paris di dicembre 2011, in cui Kate Moss veste i panni del celebre alter ego spaziale di Bowie, per degli scatti dal forte impatto scenografico realizzati dal duo Mert Alas & Marcus Piggott. Inoltre la top model nel 2014 si presentò ai Brit Awards per ritirare un premio assegnato al cantante, indossando la stessa tutina di Ziggy Stardust, un capo originale risalente al 1972.
E moltissimi sono gli omaggi e i riferimenti a Bowie, che non ha mai smesso di rappresentare inesauribile fonte di ispirazione per fotografi e designer, a partire dalla collezione di Jean Paul Gaultier, che nella Primavera/Estate 2013 ha dedicato al genio della musica un’uscita del suo défilé.
David Bowie è scomparso prematuramente il 10 gennaio 2016 all’età di 69 anni, dopo aver combattuto un cancro per diciotto mesi: a darne notizia il profilo ufficiale dell’artista su Facebook. Stamane il figlio Duncan ha confermato la tragica notizia. Si susseguono in queste ore innumerevoli messaggi di cordoglio che ricordano l’artista, da Madonna al Vaticano. Ma il suo genio e l’impronta che diede alla cultura pop non verranno mai dimenticati.
Mi chiamo Vivian Maier, sono nata a New York il 1º febbraio 1926. Mio padre Charles Maier aveva origini austriache, mia madre, Maria Jaussaud, francesi. I miei genitori si conobbero proprio a New York, papà lavorava in una drogheria, mamma era da poco giunta in America, avendo lasciato Saint-Julien-en-Champsaur. Si sposarono nel 1919, un giorno di un piacevole maggio e nel 1920 nacque mio fratello William Charles, a cui diedero, sei anni dopo, una sorella, Vivian. Io.
Poi i miei decisero di lasciarsi e non ne ho mai compreso il motivo, il senso di una famiglia è stare insieme. Unita. Per sempre. Invece William andò dai nonni, io rimasi con mamma e insieme trovammo ospitalità nel Bronx, da una sua amica, Jeanne Bertrand, francese anche lei. Jeanne era fotografa per professione e quell’incontro fu per me determinante: mi trasmise la sua passione, che finì per divenire anche la mia. Noi tre, insieme, andammo in Francia, tornammo dove mamma era nata. Lì trascorsi un bel pezzo di vita, la mia infanzia “consapevole”, lì giocavo con le altre bambine, lì parlavo la loro lingua. Ma poi mamma decise di tornare a New York, prendemmo una nave enorme e per giorni le onde ci cullarono, alleviando la tristezza. Ancora una volta radici che venivano sradicate. Io poi ci andai ancora in Francia, una volta a 24 anni, forse 25. Mi era stata lasciata in eredità qualcosa di cui non ricordo, ma era molto importante che la vendessi. Quei giorni mi servirono per “amare” ancora quella terra e un pezzo di famiglia che abitava sempre lì.
Ebbene, raggiunsi New York nel 1951, e con il mio gruzzolo acquistai una Rolleiflex, una macchina fotografica eccezionale. Avevo urgenza di immortalare cose, persone, luoghi. Quindi mi spostai nel Nordamerica. Dovevo viaggiare,dovevo conoscere. Lo feci, nulla mi rendeva più viva. Ma avevo bisogno di soldi, la fotografia era la mia fiamma, ma non il mio cibo. Allora raggiunsi Chicago e qui fui assunta dai coniugi Gensburg come bambinaia, dovevo badare ai loro tre ragazzi, John, Lane e Matthew. Lane mi adorava, le sembravo una tata magica. E in effetti, io compivo qualcosa di magico, in un piccolo bagno della loro casa, che era divenuto per me un luogo prezioso: sviluppavo le mie foto. Quegli anni furono prolifici; andavo nei parchi coi “miei” bambini e scattavo, passeggiavo per le strade e scattavo, andavo a fare la spesa, a svolgere delle commissioni, andavo a pensare, andavo a leggere e scattavo. Una volta, ero sull’autobus, guardavo fuori dal finestrino e d’un tratto vidi una donna di una bellezza sofisticata, portava una collana di perle, aveva delle sopracciglia perfette per un volto perfetto, indossava un soprabito elegante, guardava in un punto, ma sembrava fosse persa. Rubai quello sguardo.
Un altro giorno, invece, ero diretta al mercato della frutta, avevo davvero voglia di frutta… ma mentre camminavo mi superò una coppia, lui portava una cintura in pelle intrecciata, lei era vestita all’ultima moda… un abito a righe, la vita segnata, un bracciale. Ad un tratto lui le prese la mano. Quel gesto mi toccò, mi rapì, lo desideravo. Forse per me. Allora lo volli, me lo portai a casa. E mi dimenticai della frutta.
Ma riecco la brama di luoghi sconosciuti… L’avevo messa a tacere nel frattempo, ora chiedeva di essere soddisfatta. Di nuovo. Era il 1959. Dissi ai Gensburg che avrei dovuto lasciare Chicago per qualche mese, forse accennai loro di una parente ammalata, in Francia… non so. Di certo non avrebbero potuto capire… Comunque ci sarei andata in Francia, certo, ma prima visitai le Filippine, la Thailandia, lo Yemen, l’India, l’Egitto. Fu meraviglioso. Culture a me ignote, popoli lontani, mari e foreste e templi e storie. Dio mio, quanta bellezza. Quando tornai a Chicago, lavorai ancora per i Gensburg, ma presto i miei bambini furono adulti e non ebbero più bisogno di me. Separazione. Mia mamma morì nel ’75. Separazione. Ero sola. Perché i legami importanti finiscono. Sempre. Sopraggiunge la crescita. O la morte. O la fine di un amore, come fu per mamma e papà. Continuai a fare la governante anche in seguito. E continuavo a fotografare. Fu la volta della bambina bionda, con la testa piena di riccioli e un sacco di lacrime a rigarle il volto. Volevo raccontare la sua innocenza e la libertà che solo i piccoli posseggono (per esempio di piangere disperatamente, per strada, non curandosi dello sbalordimento degli altri).
Ma sapete, i bimbi possono essere anche consapevoli. E seducenti. Lo vedete questo ragazzino qui sotto? Quando si accorse che volevo ritrarlo, beh, si mise in posa. Capelli impomatati, maniche risvoltate, atteggiamento da duro. E sguardo ammiccante. Sembrava che volesse dire: “Ehi, signora, ce l’ha con me?”.Un ragazzino che giocava a fare il grande. Lo adorai. E subito perpetuai un pezzo della sua infanzia.
Ovunque lavorassi, portavo con me il mio materiale, le mie foto, i mie negativi. Era tutto quello che possedevo. Lo feci anche quando mi presi cura di Chiara (Bayleander), un’adolescente con handicap mentale. Volli molto bene a Chiara, provai un grande dolore per la sua malattia, lei non sapeva in che mondo straordinario vivesse. Io sì. Per questo usai la fotografia, per immortalare l’incanto di tutto quanto mi circondava. Non m’interessavano le grandi imprese o i grandi uomini, io volevo ricordare per sempre la normalità, la quotidianità degli sconosciuti. La mia era così semplice. E solitaria. Scattai delle foto anche a me stessa. Chissà come mai. Forse che presagivo che avreste voluto conoscermi un giorno? Ad ogni modo sono felice che il signor John Maloof abbia ritrovato il mio materiale e che organizzi mostre che ripercorrano la mia attività. Io non avrei saputo farlo. E la fama non m’interessava poi molto. E sono grata a voi, che apprezzate. Ma sappiate che facevo esattamente quello che fate voi oggi. Andavo per strada e puntavo il mio obbiettivo alla vita.
Viviana Maier si spense il 21 aprile del 2009, in una casa di cura a Highland Park. Qui la sistemarono i Gensburg, i quali ignoravano che nel frattempo tutto il suo materiale fotografico, conservato in un box, era stato messo all’asta, a causa di alcuni affitti non pagati. Fu John Maloof, figlio di un rigattiere, ad acquistare tutto, nel 2007, e capì di avere fra le mani un tesoro. Che decise di condividere con tutti noi.
La mostra “Vivian Maier. Una fotografa ritrovata” è in corso allo spazio Forma e ci rimarrà fino al 31 gennaio.