Il fumo di una sigaretta offusca l’aria di una gelida notte parigina; due mani si sfiorano, tra risate sommesse e sguardi furtivi, che fanno capolino sotto il make up pesante. Lo smoking lascia intravedere la linea gentile del punto vita, mentre il tacco dodici reclama la sua parte in questo gioco seduttivo; gli occhi di lui sembrano spogliare quei fisici scultorei nascosti sotto veli di chiffon; occhi a mandorla dalle lunghe ciglia sembrano tremare mentre le mani bramano carezze sempre più audaci. La mente vaga senza fermarsi, e l’inaspettato ménage à trois apre la porta a giochi proibiti e segreti inconfessabili. Quella è la notte giusta, la notte in cui osare, in cui la Ville Lumière riserva dolci sorprese e promesse d’amore. Basta un’occhiata complice, e le due donne entrano insieme nel locale dall’aria invecchiata, mentre l’insegna al neon recita un nome indimenticabile.
La collezione haute couture Primavera/Estate 2016 di Jean Paul Gaultier inizia così, con un tributo alla libertà sessuale e allo stile degli indimenticabili anni Settanta, incarnati in Edwige Belmore, regina del punk scomparsa lo scorso anno, protagonista indiscussa della nightlife parigina fino agli anni Ottanta. Le atmosfere audaci rivendicano una voglia di perdizione in chiave patinata, in bilico tra le paillettes e i lustrini di un cabaret e le suggestioni sadomaso di un club privé.
E quale migliore location iconografica se non Le Palace, tempio della musica e della vita notturna parigina, dove, a cavallo tra gli anni Settanta e gli Ottanta, si potevano trovare tutti: da monsieur Yves Saint Laurent, fedelmente accompagnato dalle sue muse Loulou de la Falaise e Betty Catroux, a Paloma Picasso; lì dove Bianca Jagger ballava sui tavoli e Grace Jones improvvisava striptease. Un’intera generazione che non temeva gli eccessi, ricordata come Generation Palace. Jean Paul Gaultier ripropone sulla passerella la stessa atmosfera di promiscuità sessuale, rigorosamente in chiave chic, che si respirava in quella che era la versione francese del celeberrimo Studio 54.
Le mannequin che calcano la passerella aspirano il fumo da sigarette e bocchini anni Trenta, e, tra baci saffici e risate, sorseggiano flûte di champagne. Ambigua e androgina, la donna Jean Paul Gaultier è perfettamente a suo agio nell’atmosfera dei nightclub; un vero animale notturno, ricorda una Katherine Hepburn fasciata in smoking nero impreziosito da fusciacca rigida chiusa da nappine in seta, che diviene quasi una sorta di corsetto ad alto tasso erotico. Misteriosa come le dive dei film anni Quaranta, eccentrica ed iconica, si muove sinuosa tra cristalli e abiti paillettati, che esibisce distrattamente sotto blazer dal taglio sartoriale distrattamente appoggiati sulle spalle. Trionfo di glitter tra jumpsuit e pigiami da sera metallizzati, da indossare sotto trench che ricordano vestaglie. I leggings vengono sdoganati praticamente ad ogni uscita, sia in pelle nera che in fantasie a righe, mentre sono nude le gambe sotto alle piume di marabù bianco; il pinstripe diviene la fantasia prevalente, per capispalla in raso di seta, più simili ad un négligé, mise perfetta per questa diva dell’avanspettacolo in chemisier dorate, strizzata in corsetti e tute in lurex, tra elementi circensi e chinoiserie da bordello cinese.
Polvere di stelle nelle tuniche preziose indossate sotto al biker d’ordinanza dalle suggestioni punk e trompe-l’oeil che fa capolino tra gli omaggi a David Bowie e al glam rock: la donna Jean Paul Gaultier indossa abiti a sirena tempestati di paillettes sotto boleri dai colori fluo e dal piglio ribelle. Nel front row spiccano Fergie, Christian Louboutin, Farida Khelfa e Amanda Lear, che si esibisce alla fine del défilé.
Una immensa distesa di prati verdi su cui si erge solitaria una costruzione astratta in legno scandinavo, che sembra attrarre i raggi di un pallido sole del Nord: si presenta così il Grand Palais di Parigi, per accogliere il défilé Haute Couture di Chanel. Una collezione Primavera/Estate 2016 ricca di suggestioni, in bilico tra opulenza e minimalismo. La luce tenue dei paesaggi nordici si unisce al lusso tipico della maison francese, tra ricami preziosi, gioielli, chiffon e ruches. Ad aprire la sfilata è Mica Arganaraz, la nuova musa di Kaiser Karl, seguita da top model del calibro di Kendall Jenner, Mariacarla Boscono, la burrosa Gigi Hadid con la sorella Bella.
Il tradizionale tailleur in tweed, emblema della maison, si coniuga ad abiti insolitamente minimal, dall’appeal quasi monacale, tra inediti colletti da educanda e maniche balloon: semplicità e pulizia si arricchiscono dell’unico vezzo costituito da un fiocco bon ton. Si continua con bluse e gonne in seta: torna prepotentemente in auge la gonna longuette, con caviglie scoperte, mentre per la sera il mood è sparkling, tra cascate di cristalli, frange, gonne plissettate e oro all over. L’opulenza sembra essere la parola chiave, per un’eleganza che attinge molto dal Sol Levante. Certi capi drappeggiati ricordano i kimono, mentre le linee sembrano ispirarsi ai costumi delle imperatrici orientali. Anche il make up delle mannequin omaggia il Giappone: i capelli vengono raccolti in uno chignon basso con riga centrale, mentre profuma di Oriente il trucco degli occhi, evidenziati da due linee nere parallele.
Neutrale e sobria è la palette cromatica, che predilige avorio, paglia, nude e beige, insieme al bianco, al nero e al blu navy, mentre piccoli guizzi di colore si ottengono con azzurro e rosa shocking che qua e là fanno capolino su tailleur e abiti. Zeppe in sughero sembrano omaggiare la magia dei paesaggi scandinavi, per una moda eco-friendly, che usa materiali quali la rafia.
La donna Chanel è austera come le donne orientali, rispettosa della natura e dei suoi elementi, ma capace di ostentare un lusso quasi barocco, come l’abito da sposa con strascico, che chiude il défilé. Suggestiva e come sempre teatrale la conclusione della sfilata, con le modelle che si raccolgono nella costruzione in legno su due livelli, quasi una casa di bambole dal sapore scandinavo, dove fa capolino anche Karl Lagerfeld.
Ospiti della sfilata Cara Delevingne, una prorompente Monica Bellucci strizzata in inediti leggings, Gwyneth Paltrow, Anna Wintour, l’italianissima Alessandra Mastronardi e la sempreverde Inès de la Fressange, musa storica di Lagerfeld.
Una valchiria in abito da sera è la protagonista della sfilata Atelier Versace, che ha inaugurato l’Haute Couture parigina. Donatella Versace riporta la maison ai vecchi fasti, proponendo una collezione Primavera/Estate 2016 sofisticata e grintosa.
Atletica, sinuosa, sicura di sé, la donna Versace calca la passerella esibendo una self-confidence fuori dal comune: come una dea, tra drappeggi, spacchi vertiginosi e nude look mozzafiato, esibisce fieramente la propria femminilità e le curve. L’intero défilé è un tributo alla bellezza femminile. E tante sono le bellezze che si alternano sulla passerella, da Irina Shayk a Rosie Huntington Whiteley, da Mariacarla Boscono a Gigi Hadid a Joan Smalls. Testimonial della sfilata è Rita Ora, strizzata in un mini abito arancione, che enfatizza il suo fisico scolpito.
Atelier Versace restituisce alla donna il potere derivante dalla seduzione: la femme fatale che sfila in passerella sfoggia colori vitaminici che esaltano le curve vertiginose. La palette cromatica indugia in nuance fluo, dal giallo fluorescente all’arancio al blu cobalto, alternati al bianco e nero optical. Nude look enfatizzano il corpo attraverso sapienti cuciture e intrecci strategici: i virtuosismi non si contano, tra reti traspiranti e lacci bondage, per capi ad alto tasso di seduzione. Come una ragnatela, piccoli spiragli di pelle vengono lasciati sapientemente in vista, mentre lunghi abiti da sera in georgette di seta svolazzante conferiscono alla donna un’allure da diva. Colori accesi anche per i mini dress, mentre i bustier enfatizzano le curve femminili. Una haute couture che si ispira all’atletica e alle uniformi degli sportivi, riuscendo contemporaneamente ad enfatizzare la femminilità. Tra i materiali usati spicca su tutti il silicone, tra micropaillettes e giochi cromatici.
Nel front row della sfilata spiccano illustri colleghi designer, da Alexander Wang ad Anthony Vaccarello, che cura la linea Versus, fino a Riccardo Tisci, che ha recentemente scelto Donatella Versace come testimonial Givenchy.
Tavole imbandite, tovaglie, piatti e porcellane, e, ancora, ortaggi e vivande di ogni tipo fanno capolino da lunghi abiti da sera in impalpabile chiffon di seta. Gusci di uova decorano tailleur bianchi dalle proporzioni a trapezio, in pieno stile anni Swinging Sixties, tra shift dress e stivali. La collezione haute couture Primavera/Estate 2016 di Schiaparelli incanta Parigi, tra ironia e suggestioni surrealiste.
Una sfilata all’insegna dell’originalità, che ha visto un inedito mix di spunti variegati. Il risultato sfiora la genialità, tra fiori e piante che sbucano da tailleurini bon ton, ed altri elementi floreali che decorano lunghi abiti da dea, in cui farfalle volano tra drappeggi e ricami. Eleganza nelle maxi gonne plissettate che completano bluse con fiocco, e dolcezza quasi infantile nelle stampe. Ricami traforati e crochet avvolgono abiti da gran soirée, mentre sul candido bianco di tailleur e lunghi abiti compaiono posate e servizi di argenteria. Il direttore creativo della celebre maison di alta moda, Betrand Guyot, celebra la gioia e l’eleganza dell’atto del nutrirsi, tra uova a la coque e teiere.
Un mood di ispirazione vagamente provenzale, nei tessuti che ricordano le tovaglie, si arricchisce di elementi surrealisti, quali aragoste, conchiglie, cuori e labbra. Colpisce la ricercatezza di ogni dettaglio, fino alle scarpe, i cui tacchi rappresentano i baccelli dei piselli, ma in chiave 3D. Ironia protagonista assoluta di questa sfilata, insieme alla gioia di vivere insita nel cibo, come la stessa Elsa Schiaparelli affermava nel lontano 1954. Un ricettario illustrato di sofisticata eleganza, nelle stampe caleidoscopiche ispirate a Louise Bourgeois, mentre le aragoste omaggiano la celebre collaborazione tra la couturier e Salvador Dalí, che risale al lontano 1937.
Nel front row dell’apprezzatissimo défilé spiccano nomi del calibro di Carla Bruni Sarkozy, Michelle Yeoh, Christian Louboutin, Olivia Palermo, Kate Bosworth e Daphne Guinness, ma anche Pier Paolo Piccioli e Maria Grazia Chiuri, i direttori creativi di Valentino. La palette cromatica predilige tanto bianco, ma anche i toni del giallo e dell’arancio, che vengono sublimati in stampe e fantasie di ispirazione culinaria, per una sfilata tra le più apprezzate.
Ho detto a mia nonna che io non mi sposo con l’abito bianco:
– “E come ti sposi allora?”.
– “Non mi sposo “.
– “Ma che schifo di mondo è mai questooo? E dove andremo a finireee? E il corredo che cosa l’ho comprato a fareee?”.
Ebbene, questa è stata la conversazione avuta con “grandmother” qualche tempo fa. Effettivamente, io non penso al matrimonio nella maniera tradizionalmente concepita, non aspiro a percorrere la navata abbigliata da meringa, non riesco neppure ad immaginare il giorno in cui qualcuno mi chiederà, inginocchiandosi con BRILLANTE alla mano, di sposarlo, per trascorrere insieme il resto dei nostri giorni. Insomma, non so nemmeno se riuscirò a portare avanti fino alla settimana prossima la dieta appena cominciata! Sono sicura che fuggirei come Maggie aka Julia Roberts in RUNAWAYBRIDE, per lasciare il malcapitato all’altare. Dai, non è bello.
Ad ogni modo, nonna era seriamente turbata, la sua drammaticità mi ha fatto buttare giù il telefono che avevo ormai le palpitazioni. E allora ho respirato a pieni polmoni, mi sono tuffata sul letto fissando il soffitto e ho cominciato a fantasticare: “Chiara, sforzati di pensarti IN BIANCO!”.
Lady Diana buonanima indossò un abito in taffettà di seta color avorio e pizzi antichi, con uno strascico di 7,62 metri (dettaglio da non ignorare), valutato all’epoca per circa 9 mila euro. Presentava decorazioni con ricami fatti a mano, paillettes e nientepopodimeno che diecimila perle. Semplice, insomma. E siccome la coppia regale si presentò dinanzi al prete nel 1981, i designer, David ed Elizabeth Emanuel non poterono esimersi dall’aggiungere maniche a sbuffo e gonna balloon. L’abito passò alla storia, Diana era bellissima, ma quello scemo di Carlo si era già infiammato per Camilla e tutti quei metri non trattennero la principessa triste a corte…Il resto lo conosciamo e l’abito lo scartiamo.
Quindi mi è venuto in mente un altro sposalizio celebre, quello di Jacqueline Lee Bouvier con il futuro Presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy. Correva l’anno ’53, i due erano giovani, belli e aristocratici, tutti ne parlavano, tutti ne avrebbero straparlato! Jacqueline doveva essere stratosferica, confermando la sua eleganza:Ann Lowe, stilista afro-americana, già in voga ai tempi nell’aristocrazia di New York, realizzò per lei un vestito in taffetà di seta color avorio, con un’ampia gonna e il corpetto drappeggiato con scollo a cuore. Particolarità della gonna furono le applicazioni di stoffa a formare ampi fiori concentrici e piccoli petali in cera nella parte inferiore. A completare il vestito, il velo in tulle fissato ai capelli con boccioli d’arancio. Sublime. Poi Marilyn Monroe si mise a cantare Happy Birthday Mr. President e le fuitine non si contarono più su una mano sola. E Jacqueline comprese che la classe nontrattiene un fedifrago!
Non mi rimane che ispirarmi a quella donna anticonformista che fu Wallis Simpson. Nel 1934 era l’amante di Edoardo di Windsor, principe di Galles ed erede al trono britannico. Aveva un divorzio alle spalle e uno in corso. E non le scorreva sangue blu. Edoardo divenne re e poi abdicò per sposarla. Che moderno! Il giorno delle loro nozze Wallis si mise sù un abito pensato per lei da Mainbocher, in un color carta da zucchero inventato appositamente dallo stilista come omaggio ai suoi occhi (e infatti fu rinominato Wallis Blue). Le arrivava fino ai piedi, con maniche lunghe, un drappeggio davanti e una fila di bottoni sul il busto. Contemporaneo, raffinato, perfetto. Duca e Duchessa, so glamourous, condussero una vita mondana, furono immortalati sui giornali, non badarono a spese per godersela molto.
Voglio quel vestito e quel marito. E corro a dirlo a mia nonna!
Pulizia, il consueto stile effortlessy-chic e un tocco futurista hanno caratterizzato la sfilata di moda maschile Hermès per la prossima stagione invernale. Véronique Nichanian ha presentato una collezione caratterizzata da un’eleganza disinvolta e rilassata, in linea con lo spirito della storica maison francese. Stile vincente non si cambia, recita un vecchio motto: e in effetti il carattere tipico del brand non viene assolutamente alterato nonostante la designer francese osi, mixando nuance ardite e sperimentando con materiali insoliti.
Nonchalance sembra essere la parola d’ordine per un uomo che, in tempi frenetici e convulsi, sceglie invece di andare controcorrente e rallentare i ritmi: i modelli che si alternano sulla passerella hanno le mani in tasca e indossano comodi pantaloni con elastico in vita. L’uomo Hermès per l’Autunno/Inverno 2016-2017 predilige il parka e i capispalla in pelle. Le silhouette sono gentili, abbondano i colli alti e le sciarpe e la palette cromatica varia dal turchese al mostarda fino al crema, al grigio e al rosa pallido, senza dimenticare l’arancione simbolo della maison, e il cammello. Il nero la fa da padrone, mentre i modelli sfoggiano borse che impreziosiscono la classicità di capispalla come il trench, insolitamente declinati in pelle.
Veronique Nichanian, definita “la sacerdotessa della moda maschile”, coniuga mirabilmente comfort e stile, conferendo all’uomo un tocco di charme moderno e avanguardistico, che non stravolge l’identità del brand. I modelli indossano il consueto foulard d’ordinanza, simbolo per antonomasia della maison francese, mentre ardito risulta a volte il mix & match, specie per quanto concerne la palette cromatica. Inoltre, sempre nel corso della sfilata, è stato presentato il lancio dell’Apple Watch Hermès: dallo scorso 22 gennaio sono disponibili i primi dieci modelli del nuovo nato, con prezzi che variano da 1.300 a 1.780 euro.
Una tempesta di cristalli Swarowski e dettagli preziosi invade la passerella Balmain per la collezione Autunno/Inverno 2016-2017. Un omaggio alla Torre Eiffel e a Parigi, per un défilé ricco di suggestioni. La capitale francese, definita da Olivier Rousteing come “la città della luce”, viene rappresentata in una collezione maestosa e principesca. A calcare la passerella è un vero principe, tra giacche impreziosite da cristalli, arabeschi e bomber dorati.
L’uomo Balmain indossa lunghi guanti in pelle e stivali da fantino, tra stampe e nero all over. Tartan, righe, paisley e rombi esaltano il total black delle uscite. Sulla passerella si alternano modelli del calibro di Jon Kortajarena e Lucky Blue Smith, mentre non mancano top model come Alessandra Ambrosio e Lily Donaldson, che indossano la pre-collezione femminile per il prossimo autunno/inverno.
Opulenza e suggestioni sovietiche caratterizzano la sfilata maschile di prêt-à-porter: tra pantaloni in jersey o suede e giacche che ricordano i kimono, abbondano i ricami e i dettagli preziosi. Il principe della Ville Lumière sfila con fusciacca rigida in vita impreziosita da nappine e stivali e giacche in pieno stile military-chic. La personalità di Rousteing segna un altro colpo, per una collezione altamente evocativa, che intende restituire speranza alla Parigi martoriata dal terrorismo, dopo gli attacchi dello scorso novembre. La palette cromatica omaggia la bandiera francese, mentre certe uscite ricordano molto da vicino Napoleone Bonaparte e i fasti del suo impero. Opulenza è la parola chiave, per un uomo che, come un condottiero, affronta la stagione invernale in uniforme simil militare.
Si è appena conclusa a Parigi la settimana della moda maschile, che ha visto sfilare le proposte moda per il prossimo autunno/inverno. Una collezione all’insegna della libertà, quella presentata da Valentino. Maria Grazia Chiuri e Pierpaolo Piccioli si confermano ancora una volta indiscussi maestri di stile, in un défilé caratterizzato da tendenze eterogenee. Dettagli etnici si sposano al grunge anni Novanta, fino a sfiorare il folk tipicamente Seventies.
Un po’ metropolitano e un po’ bohémien l’uomo Valentino per l’Autunno/Inverno 2016/2017: dal classico vestito nero con cappotto dal taglio sartoriale e dagli ampi revers si passa al denim, per giubbotti impreziositi da decorazioni. Le prime uscite rasentano lo stile gotico: nero all over per capispalla dal respiro classico, per un uomo che sembra incarnare il dandy più autentico. Si continua con loden e giubbotti biker, impreziositi da borchie e decorazioni.
Ma l’uomo che ha calcato la passerella ha un animo folk, è fiero della propria libertà e non teme il contatto con la natura, fosse anche un viaggio on the road, sulla falsariga di Jack Kerouac. Il denim e il tartan ricordano un cowboy, come anche le camicie. Una full immersion tra i nativi americani per le mantelle stampate con motivi aztechi. Stampe simili a coperte Navajo si alternano sulla passerella a giubbotti borchiati, mentre viene sdoganato il poncho come capo principe del guardaroba maschile per la prossima stagione invernale. Suggestioni etniche nei dettagli piumati e nel patchwork di fantasie tribali. La precarietà e l’incertezza che caratterizza i tempi odierni sono state le principali fonti di ispirazione di una collezione che i due stilisti hanno definito esistenzialista. Il mix di stili e tendenze diverse rispecchierebbero infatti un nuovo stimolo per rinnovarsi e trasformarsi. Tra i materiali usati spiccano il cashmere e il camoscio, ma anche la seta e la pelle la fanno da padrone, in una collezione variegata e ricca di fascino. Per un uomo dalle mille sfaccettature.
Il giornalismo di moda perde una delle sue firme più autorevoli: si è spenta a Marsiglia, all’età di 95 anni, Edmonde Charles-Roux. Pioniera della comunicazione di moda e costume e scrittrice di fama mondiale, Edmonde Charles-Roux è stata una storica editor di Vogue Paris ed uno dei padri fondatori della rivista Elle.
Un’infanzia trascorsa tra Roma e Praga, a seguito del padre, François Charles-Roux, ambasciatore membro dell’ Institut de France e ultimo presidente della Compagnia del Canale di Suez, la Seconda Guerra Mondiale la vide servire la patria come infermiera volontaria, prima di prender parte alla Resistenza. Decorata con la Croce di guerra, riceverà anche la Legion d’Onore.
La carriera di Edmonde inizia nel 1946, quando la giovane fu assunta dalla neonata rivista Elle, di cui divenne in breve la firma più celebre. Nel 1950 passò a Vogue Paris, la Bibbia della Moda, assumendo quattro anni più tardi, nel 1954, il prestigioso incarico di editor-in-chief. Talent scout ante litteram, mise in luce il talento di fotografi del calibro di Irving Penn e Guy Bourdin, contribuendo col suo lavoro alla fama di Christian Dior, Yves Saint Laurent ed Emanuel Ungaro. Nel 1966 fu cacciata da Vogue, con l’accusa di aver messo in copertina una modella di colore, all’epoca fatto scandaloso. Nello stesso anno esordì come scrittrice, con il celebre romanzo Oublier Palerme (tradotto in italiano da Rizzoli col titolo di Dimenticare Palermo), da cui nel 1989 Francesco Rosi trasse l’omonimo film. Quest’opera le valse il Prix Goncourt, uno dei premi letterari più prestigiosi.
Seguì la biografia di mademoiselle Coco Chanel, donna che da sempre affascinava Edmonde. È il 1974 quando la giornalista pubblica L’Irrégulière ou mon itinéraire Chanel: della celebre stilista Edmonde amava soprattutto la libertà e l’emancipazione, gli stessi elementi che oggi il ministro francese della cultura, Fleur Pellerin, esalta in lei. Nel 2004 un nuovo volume dedicato a Chanel, dal titolo Le Temps Chanel. Presidente dell’Académie Goncourt dal 2002 al 2014, Edmonde era vedova dell’ex ministro dell’Interno Gaston Deferre, del governo Mitterand. Definita da Didier Grumbach, ex presidente della Federazione della della moda francese, come “la gran dama della moda” e ammirata universalmente per la sua cultura e il suo stile, Bernard Henry Lévy ha detto di lei: “Che stile! Che allure!”. “Per me, la moda non è mai stata una cosa frivola”, scriveva la giornalista nel lontano 1967. Un concetto che fa riflettere, soprattutto se a dirlo era una donna di tale cultura. I funerali di Edmonde Charles-Roux sono stati celebrati oggi nella sua Marsiglia.
C’era una volta la Sardegna, è così che il Far West contaminato dalla ruralità italiana arriva nel backstage di Antonio Marras.
L’excursus di D-Art attraverso i migliori backstage di Milano Moda Uomo approda nel pieno del deserto della Sardegna, a pochi km da Oristano, dove Antonio Marras decide di ambientare figurativamente la sua prossima collezione Autunno-Inverno.
Balle di fieno sparse, polvere diffusa dal vento e borghi disabitati, come quello di San Salvatore di Sinis, diventano la palette cromatica per vestire i colori della terra sarda: dal verde militare al fango, dal petrolio al grigio piombo, dal rosso al senape.
Tessuti ruvidi e infeltriti, giacconi coperta e pantaloni tartan accompagnano il lato rock di ogni bandito, della Vecchia Sardegna, che si rispetti. Colui che indossa beffardo giubbini in pelle e pitone, salopette e grambiuloni in denim ,come indumenti da lavoro, e jacquard floreale per le celebrazione domenicali.
La camicia diventa capo di punta: rattoppata, intarsiata, ricamata e decorata è pronta a accompagnare le furiose scorribande e le notti trascorse ballando al suono della fisarmonica con le donne più belle del saloon Abraxas.
Crinoline e sete preziose alternate a strati di tulle fanno capolino nei sontuosi abiti da sera dal sapore vittoriano, sullo sfondo dell’età del jazz e di una giovinezza scandita dall’ultimo party esclusivo. Una vita fieramente sopra le righe, seguendo il monito di lorenziana memoria di vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo. E Millicent Rogers scelse di vivere la propria vita al massimo. Nota come l’ereditiera della Standard Oil, fondata dal nonno H.H.Rogers e da John D.Rockefeller, Millicent Rogers è stata una brillante socialite, un’icona di stile di squisita eleganza ed una collezionista d’arte.
All’anagrafe Mary Millicent Abigail Rogers, più conosciuta come Millicent Rogers, la futura icona di stile nacque a New York il primo febbraio 1902. Nipote di Henry Huttleston Rogers, magnate della Standard Oil, ereditò quest’impero, divenendo proprietaria in giovanissima età di un’immensa fortuna. La piccola Millicent crebbe tra Manhattan, Tuxedo Park e Southampton, New York, tra lusso e ricchezze. Ma ancora bambina contrasse una febbre reumatica: secondo i medici che la visitarono, la piccola non sarebbe arrivata all’età di dieci anni. La realtà fu fortunatamente ben diversa, ma per tutta la vita l’ereditiera fu cagionevole di salute: ebbe infatti numerosi attacchi di cuore, una grave forma di polmonite e un’artrite che le lasciò il braccio sinistro quasi totalmente paralizzato prima del compimento dei 40 anni.
Negli anni Venti Millicent Rogers divenne famose come socialite, ottenendo servizi e copertine sulle principali riviste patinate, da Vogue a Harper’s Bazaar. Inoltre la sua vita sentimentale costituì per decenni uno dei temi più ghiotti per i tabloid. Sì, perché Millicent Rogers è stata una donna leggendaria: aveva un animo ribelle, quella bionda dai capelli perfetti e dallo sguardo altero, che viaggiava con 35 valigie e 7 bassotti e che non lesinava in capricci, come quando, nel 1937, pretese che la tappezzeria della sua coupé Delage D8-120 Aerosport venisse tinta in una nuance che fosse en pendant con il suo rossetto rosso lacca; lei che ballò il tango nei nightclub europei mentre la perbenista America frugava nei dettagli più scabrosi della sua burrascosa vita sentimentale; lei che, dietro al guardaroba principesco e all’invidiabile vita mondana, nascondeva una grande sensibilità.
Millicent Rogers mostrò fin dall’infanzia grandi doti artistiche, che la madre non perse occasione di incoraggiare. Dopo il suo debutto in società, avvenuto nel 1919 al Ritz di Manhattan, Millicent si affermò per il suo stile, divenendo un’icona immortale. Presenza fissa delle liste delle donne meglio vestite al mondo, inizialmente la sua immagine non aveva ancora l’appeal sofisticato che oggi tutti noi conosciamo, attraverso le foto patinate che la immortalano. Fu quando decise di cambiare la forma delle sue sopracciglia, arcuandole alla maniera in voga negli anni Trenta, che la bionda Millicent iniziò ad essere una vera diva. Statuaria dall’alto del suo metro e settantacinque centimetri, pelle di alabastro e classe inimitabile, Millicent Rogers sembrava avere avuto tutto dalla vita: bellezza, intelligenza, ironia, savoir faire e una valanga di soldi. Ci guarda altera, dall’alto della sua perfezione, nelle foto celebri che la ritraggono. Sempre impeccabile nelle sue mise, Millicent Rogers posò, tra gli altri, per Louise Dahl-Wolfe e Horst P. Horst, oltre che per il pittore Bernard Boutet de Monvel. Tra i suoi designer preferiti vi erano Mainbocher, Adrian, Elsa Schiaparelli e Valentina. Ma un posto speciale occupava Charles James, di cui la bionda ereditiera fu musa incontrastata. Del couturier Millicent Rogers amava l’opulenza, mentre lui dal canto suo trovò in lei la perfetta incarnazione del suo stile. Nessuna sapeva indossare i sontuosi abiti-scultura di James con altrettanto charme.
Esteta e amante della bellezza in ogni sua forma, Millicent Rogers non era né un’oca né una ragazzaccia. Il suo humour mordente era forse ciò che gli uomini più adoravano in lei. “Gli uomini erano solo oggetti che collezionava”: scrive così Cherie Burns, a proposito di Millicent Rogers. “In cerca della bellezza”: si intitola così il volume che la Burns ha dedicato all’icona di stile. Searching for Beauty: The Life of Millicent Rogers, the American Heiress Who Taught the World About Style, edito da Paperback, è una tra le biografie più autorevoli della celebre ereditiera. Vera leggenda americana dalla vita avventurosa e glamour, filantropa e collezionista d’arte, in un’epoca costellata da Hilton e Kardashian si avverte profondamente la mancanza di icone del calibro di Millicent Rogers. Il volume curato da Cherie Burns testimonia la sua incessante ricerca di perfezione tanto nel suo stile personale quanto nella sua esistenza.
La vita sentimentale di Millicent Rogers fu parecchio avventurosa: l’icona si sposò per tre volte e collezionò numerosi flirt, tra cui spiccano l’autore Roald Dahl, lo scrittore Ian Fleming, il principe del Galles e il principe Serge Obolensky. L’ereditiera sposò in prime nozze, nel gennaio del 1924, il conte austriaco Ludwig von Salm-Hoogstraeten, più vecchio di lei di venti anni. Lui era un nobile decaduto e squattrinato, descritto dal New York Times come “un morto di fame”. Il matrimonio fu duramente osteggiato dalla famiglia Rogers. La coppia ebbe un figlio, Peter Salm, prima di divorziare, nell’aprile 1927. Nel novembre dello stesso anno l’ereditiera convolò a nozze con Arturo Peralta-Ramos, playboy e sportivo, proveniente da una ricca famiglia argentina. Dalla loro unione nacquero due figli, Paul Jaime e Arturo Henry Peralta-Ramos Jr. Il matrimonio fu celebrato nella chiesa cattolica del Sacro cuore di Gesù e Maria di Southampton, Long Island, alla presenza dei genitori dell’ereditiera. Il padre diede alla coppia un fondo fiduciario di 500.000 dollari, con la promessa che Peralta-Ramos “non avanzasse alcun diritto futuro sull’eredità di Millicent”, stimata in circa 40.000.000 di dollari. Nei primi anni Trenta Millicent e Arturo costruirono uno chalet a St. Anton, un’esclusiva località sciistica, arredandolo in ricercato stile Biedermeier. Vestiva alla tirolese Millicent in quel periodo, con i costumi tipici e il caratteristico grembiule, che lei mixava con adorabile nonchalance ad abiti Schiaparelli e Mainbocher, stile che fu più tardi ripreso, forse non con altrettanta classe, da Wallis Simpson. Tuttavia anche questo matrimonio naufragò, e la coppia divorziò nel 1935. Il terzo ed ultimo marito dell’icona di stile fu Ronald Balcom, un agente di cambio americano, sposato a Vienna nel febbraio 1936, da cui divorziò nel 1941. La coppia non ebbe figli. L’ereditiera visse in Svizzera fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, ma nel corso della sua vita collezionò appartamenti come si fa con le figurine: da New York alla Virginia al Nuovo Messico, fino all’Austria e alla Giamaica: le dimore dell’ereditiera rispecchiavano il suo gusto, sofisticato e ricercato.
Millicent Rogers sapeva perfettamente come gestire la stampa, verso la quale alternava momenti di amore e odio, come sostiene Gwendolyn Smith, curatrice della mostra “Millicent Rogers: Heiress, Fashion Icon & Her World” . “Conosceva le persone giuste e tutti conoscevano lei”, da buona socialite. Artista, creatrice di interessanti gioielli in oro ed argento, questo fu per lei più un hobby creativo da praticare per la salute delle sue mani affette da artrite, che una vera attività. D’altronde aveva i mezzi per finanziare le proprie opere artistiche. I suoi gioielli rivelano suggestioni arcaiche: il firmamento e le costellazioni sembrano essere la principale fonte di ispirazione per Millicent Rogers, le cui creazioni artigianali ricordano lune e stelle. Collezionista d’arte, spiccano nelle sue collezioni private almeno una dozzina di quadri di Henri de Toulouse-Lautrec, oltre a pezzi di Claude Monet e Paul Cezanne. L’icona di stile amava i quadri di Van Gogh, Degas e Jacob Epstein ma anche l’arte africana e le teiere cinesi. A Manhattan adorava le creazioni di Fabergé.
Colta, elegante ironica, Millicent Rogers parlava correntemente sette lingue, che studiò da autodidatta, durante i suoi famigerati attacchi di febbre reumatica. Si dice che tradusse da sola Rilke solo per divertimento, e che era solita conversare in latino. Non edonismo sfrenato, non mero esibizionismo, ma un viscerale amore per la bellezza, declinata in ogni forma. Oggi il botox sembra essere la parola chiave per le celebrities di ogni parte del mondo, tutte uguali nella loro ricerca di uno stereotipato ideale di bellezza: ma una volta ci voleva almeno un po’ di classe per monopolizzare l’attenzione della cronaca rosa. Bionda, bella, incredibilmente ricca e dotata di un carattere passionale, Millicent Rogers fu molto più di un personaggio da giornale scandalistico: fine esteta dal gusto raffinato, combatté la disabilità con il suo amore per l’arte. Elsa Schiaparelli, sua amica e tra i suoi couturier preferiti, disse di lei: “Se non fosse stata così ricca, con il suo incredibile talento e la sua smisurata generosità sarebbe diventata una grande artista”. I tre mariti e l’intensa vita sentimentale costituiscono solo una delle tante sfaccettature di questa icona di stile dallo charme immortale.
L’eccesso non faceva parte di lei, sebbene l’apparenza talvolta sembrava suggerire il contrario. Millicent Rogers era in realtà una sopravvissuta, e tale si sentì durante tutto il corso della sua vita.“Quando trovi la felicità, acchiappala. Non fare troppe domande” , diceva così Millicent. E la felicità la trovò accanto ad uno dei divi più amati di Hollywood, Clark Gable, che fu forse l’uomo della sua vita. L’ereditiera riuscì ad attirare l’attenzione dell’attore presentandosi ad un party con una scimmietta sulla spalla. L’idillio fu da romanzo rosa. Ma, come tutte le storie d’amore, l’ereditiera soffrì indicibilmente quando il sentimento finì. La proverbiale fama di sciupafemmine non era solo una leggenda metropolitana, nel caso di Clark Gable: quando la Rogers lo colse in flagrante in compagnia di un’altra donna, gli scrisse una lettera d’addio che mandò ad Hedda Hopper affinché quest’ultima la pubblicasse sulla sua rubrica all’interno dell’L.A. Times. La lettera iniziava così: “Ti ho seguito la notte scorsa mentre portavi a casa la tua giovane amica. Sono felice di averti visto mentre la baciavi, perché ora so che hai qualcuno vicino a te…. Spero di averti fatto sorridere ogni tanto; […] di averti dato, quando mi stringevi, tutto ciò che un uomo possa desiderare.”
Nel corso della Seconda Guerra Mondiale l’icona di stile acquistò Claremont Manor, una tenuta risalente al 1750 circa, situata sulle rive del fiume James, in Virginia, a 170 miglia da Washington. Qui la Rogers tentò di ricreare l’atmosfera che aveva respirato in Austria. Lavorò all’interior design di quella casa al fianco di Billy Baldwin, dell’architetto William Lawrence Bottomley e di Van Day Truex, amico di famiglia nonché futuro presidente della prestigiosa Parsons School of Design e design director per Tiffany & Co. Una scrivania un tempo appartenuta al poeta Schiller e ricercati pezzi di antiquariato Biedermeier costituivano i pezzi forti dell’interior design di Claremont. Alle pareti spiccavano quadri di Watteau, Fragonard e Boucher, in una cornice di lussuosa formalità, tra tende damascate e un’eleganza antica. Nel 1946 l’ereditiera si trasferì ad Hollywood, dove abitò nella casa che era appartenuta un tempo a Rodolfo Valentino, la celebre Falcon’s Lair.
Più tardi, nel 1947, la diva decise di ritirarsi a Taos, in Nuovo Messico, dove sperava di contrastare i sintomi della febbre reumatica di cui soffriva fin da bambina. Qui andò a vivere in una tenuta che ribattezzò Turtle Walk. A curare l’interior design della sua nuova dimora non vi fu alcuna figura professionale. Turtle Walk era una vecchia fortezza situata nel deserto di Taos, caratterizzata da un mobilio di stampo coloniale e da una tappezzeria raffigurante elementi tipici della cultura dei nativi americani, la cui arte compariva in abbondanza in quella casa, tra ceramiche, gioielli, quadri. Taos, nel Nuovo Messico, era un’oasi di pace, buen retiro ideale per artisti ed intellettuali delusi dalla vita e alla ricerca di nuovi stimoli. Millicent, col cuore spezzato dopo la fine della sua tormentata love story con Clark Gable, fu invitata qui da Mabel Dodge Luhan. L’ereditiera strinse una profonda amicizia con la pittrice Dorothy Brett, da tempo ivi residente, trasferitasi lì su invito di D. H. Lawrence. Entrambe ricche ed eleganti, le due donne avevano molto in comune. Taos era una località molto gettonata soprattutto da quando, all’inizio del secolo, era stata scelta come nuova patria da nomi del calibro di Mabel Dodge Luhan e Georgia O’Keeffe.
Millicent Rogers si innamorò all’istante di quel cielo blu cobalto, ma anche dei nativi del luogo. Della cultura pueblo adorava le tradizioni e i manufatti. Attraverso le testimonianze che sono giunte a noi sappiamo quanto l’icona di stile trovasse belli i lunghi capelli neri degli uomini e lo stile delle donne. Tra memorie coloniali ispaniche e citazioni del vecchio West si ergeva maestosa la natura, principale fonte di ispirazione artistica. In una lettera al figlio Paul Peralta-Ramos, l’icona racconta del suo amore per Taos. Si sentiva parte della Terra, Millicent Rogers, giunta in Nuovo Messico. L’ereditiera racconta con trasporto di una vicinanza mai provata prima con gli elementi della natura: il sole che brucia sulla pelle, l’odore della pioggia, l’emozione di guardare le stelle e il cielo notturno. Sembra di vederla, questa dama algida e bionda in abiti sartoriali, intenta ad osservare, con interesse quasi etnografico, gli usi e costumi locali, le suggestive cerimonie intertribali, con i danzatori, i cantanti, e, ancora, i mercati tipici, con gli artisti che mettono in vendita le loro creazioni artigianali.
La signora venuta da lontano si sofferma su alcuni gioielli con turchesi. Quelle insolite forme artistiche catturano il suo occhio, così acuto nello scorgere ovunque bellezza. È un vero e proprio colpo di fulmine per quegli orecchini, quei bracciali in onice e madreperla, ma anche per le cinture, le stoffe stampate, i coralli. Mai sottovalutare l’amore di una donna per la moda e per gli accessori: Millicent Rogers adorava i gioielli locali e sviluppò un’autentica passione per i turchesi Navajo, passione che la portò successivamente a svolgere un ruolo predominante nel preservare i capolavori dell’arte amerindia. Millicent Rogers prese molto a cuore la causa dei nativi ispanici e americani che abitavano il Nuovo Messico, ergendosi come paladina della battaglia per il riconoscimento dei loro diritti. Dopo aver collezionato oltre duemila opere realizzate dai nativi americani, con alcuni suoi amici, tra cui gli autori Frank Waters, Oliver Lafarge e Lucius Beebe, contattò dei legali per portare all’attenzione della Casa Bianca il tema dei diritti dei nativi americani.
Lo stile che l’ereditiera adottò dopo il suo ritiro a Taos comprendeva una blusa con le stampe originali Navajo che alternava a una camicia bianca, una gonna a ruota indossata sopra diverse sottogonne che alternava a maxi gonne etniche, uno scialle e piedi rigorosamente scalzi o mocassini di pelle di daino. Questo divenne il look più iconico dell’ereditiera, nonché l’emblema del suo stile. Nel Nuovo Messico la Rogers adottò anche un nuovo stile di vita. “Non era una snob, avrebbe trascorso con i creatori di gioielli locali lo stesso tempo che avrebbe speso ad Hollywood”, scrive la Burns. “Credo che si divertisse nel Nuovo Messico, sperimentando una libertà forse mai provata prima. Aveva un grande spirito di adattamento.”
Millicent Rogers, avventuriera vestita in capi haute couture, morì nel 1953, un mese prima del suo 51esimo compleanno, lasciando debiti per tre milioni di dollari. Poco dopo la sua scomparsa, nel 1956, uno dei suoi tre figli fondò a Taos un museo locale a suo nome, il Millicent Rogers Museum. Il museo conserva un’ampia collezione di arte nativo americana, ispano americana ed euro americana. Dapprima sito in una location temporanea, alla fine degli anni Sessanta il museo venne trasferito in una casa costruita da Claude J. K. ed Elizabeth Anderson, successivamente ristrutturata dall’architetto Nathaniel A. Owings. Millicent Rogers è stata protagonista della mostra American Women of Style, organizzata da Diana Vreeland e Stella Blum nel 1975. Il suo stile continua ad essere inesauribile fonte di ispirazione nella moda: John Galliano ha dichiarato di essersi ispirato a lei per la collezione disegnata per Dior nella Primavera/Estate del 2010. Un nome che resterà immortale nella moda.