A proposito di giubileo …
È bene ricordare che, come spesso accade, in occasione di grandi eventi si mettono in moto delle energie di varia natura, anche economica, per dare lustro a un ambiente, rinnovare un quartiere, abbellire una città.
È proprio quello che tante volte è successo a Roma in vista dei vari giubilei che, a partire dal 1300, si sono celebrati nella Città Eterna.
Certo, non sempre gli artisti o gli artigiani sono stati all’altezza del compito loro affidato. Oppure non sempre hanno consegnato i lavori nella data convenuta. Non sempre all’inizio di un giubileo tutto era pronto. Anzi, quasi mai lo era (e lo è).
Altre volte, invece, si “approfitta” di un tale evento per portare a conclusione qualcosa che era già stato intrapreso prima e che con la scadenza giubilare di per sé non avrebbe alcuna attinenza. È il caso, ad esempio, di uno dei sommi capolavori dell’arte mondiale di tutti i tempi (scusate la retorica, ma pare proprio che sia così), cioè le tele della Cappella Contarelli nella chiesa di San Luigi dei Francesi.
Il cognome “Contarelli” è la forma italianizzata del cardinale francese Mathieu Cointrel, che, nella seconda metà del Cinquecento, aveva manifestato l’intenzione di decorare la suddetta cappella. L’artista incaricato era Girolamo Muziano, un pittore manierista di un certo calibro e di una certa fama. Ma gli anni passavano e ben poco era stato realizzato, fino a che il cardinale morì. Allora Virgilio Crescenzi, esecutore testamentario del defunto porporato, passò l’incarico a un altro manierista dell’epoca, Giuseppe Cesari detto il Cavalier d’Arpino, di eseguire una serie di affreschi. Il soggetto prescelto era la vita di San Matteo, apostolo ed evangelista, patrono del cardinale che ne aveva portato il nome. Il Cavalier d’Arpino, a sua volta, non era, come si suol dire, “l’ultimo dei Mohicani”, dal momento che era molto famoso e riceveva incarichi su incarichi. Per fortuna il documento della committenza si è salvato. Veniamo così a sapere che le scene da affrescare avrebbero riguardato episodi della vita del Santo. E sappiamo anche come gli eredi del cardinale le volessero: “San Matteo dentro un salone ad uso di gabella con diverse robbe che convengono a tal officio con un banco come usano i gabellieri con libri, et denari”.
Ma chi oggi si reca in San Luigi dei Francesi (e i visitatori sono centinaia di migliaia ogni anno!) vede che la realizzazione non corrisponde ai desideri dei committenti. Le tre scene comprendono i momenti salienti della vita di San Matteo, ma niente delle “robbe” previste dai committenti vi trova spazio. Cosa è accaduto?
È accaduto che nel frattempo il Cavalier d’Arpino, dopo aver affrescato la volta della cappella, era passato a più prestigiosi incarichi, cioè le due opere più importanti in Roma, i disegni per i mosaici della cupola della basilica di San Pietro e la decorazione di alcune stanze del Palazzo Senatorio in Campidoglio. L’esecutore testamentario, allora, si era messo alla ricerca di un ulteriore artista che, ripercorrendo lo stile del Cavalier d’Arpino, potesse condurre in porto i lavori.
Per l’appunto presso la bottega del suddetto Cavaliere era giunto da poco un giovane milanese che incominciava a farsi conoscere in Roma. L’incombenza, perciò, cadde sulle spalle di questo giovane. Ma, ed ecco l’aspetto “giubilare” della vicenda, si era ormai alla vigilia dell’Anno Santo del 1600. Perciò l’esecutore testamentario chiese che, per quell’anno, la cappella fosse completata, in modo da presentarla anche ai tanti pellegrini che sarebbero giunti a Roma, particolarmente ai francesi.
Il giovane accettò e si mise all’opera. Con due modifiche: invece dell’affresco usò la pittura su tela ed eliminò ogni elemento decorativo, da lui ritenuto superfluo e addirittura dannoso ai fini della fruizione di un’opera e del suo messaggio.
Per il giubileo del 1600 i lavori erano compiuti.
Ed eccole là, le tele. A sinistra, la “Vocazione di Matteo”, è a svolgimento orizzontale; a destra, il “Martirio di San Matteo” gioca su linee diagonali. Al centro, sull’altare, al momento c’era una statua di Jacob Cobaert, che non piacque e fu sostituita da una terza tela caravaggesca, “San Matteo e l’angelo”; la quale, a sua volta, nemmeno piacque e venne finalmente sostituita dall’attuale, che si sviluppa verticalmente.
Alla fine di tutta questa baraonda, eccole là, straordinariamente grandiose ed essenziali, drammatiche e coinvolgenti, splendenti e tenebrose, tragiche e brillanti, immediatamente comunicative e abissalmente profonde, dolcissime e violente.
Indimenticabili sono i personaggi che, da un’opacità incombente e trepidante, balzano verso l’osservatore disponendosi su direttrici che giocano drammaticamente con la luce.
Ecco, la luce. La grande protagonista di questi dipinti e di tante altre opere di quel giovane autore.
La vittoria della luce sulle tenebre. E non è forse questo il senso del giubileo?
Quel giovane pittore si chiamava Michelangelo Merisi. Era nato a Milano. Ma, siccome la famiglia era originaria di un piccolo paese della bergamasca, è passato alla storia con il nome di questo paese: Caravaggio.
Così la Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi ancora oggi risplende per le magnifiche tele del Caravaggio.
E scusate se è poco!
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Il Riposo durante la fuga in Egitto di Caravaggio
Strano percorso quello delle opere di Caravaggio: alcune sono ultra documentate, di altre invece sappiamo quasi niente.
Uno dei più grandi artisti di tutti tempi (e oggi in assoluto il più “gettonato” presso l’opinione pubblica) nacque a Milano nel 1571. Il suo nome è Michelangelo Merisi e sarà universalmente noto con il nome della piccola città lombarda, Caravaggio appunto, della quale la famiglia era originaria. In Milano frequentò la bottega del pittore Simone Peterzano, uno degli artisti che in quegli anni collaborava con l’arcivescovo Carlo Borromeo nel proporre un’iconografia secondo le indicazioni del concilio di Trento, da poco concluso.
Intorno all’età di venti anni, il Merisi lascia la Lombardia e si trasferisce a Roma. Qui si farà conoscere e apprezzare per una serie di opere, che gli meriteranno l’incarico di decorare con le Storie di San Matteo la Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi in occasione del giubileo del 1600. A questa importante commessa seguì quella per la Cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo, quella della Cappella Cavalieri in Sant’Agostino e diverse altre.
Ma, come si diceva, mentre i suddetti incarichi sono ben documentati, una serie di altri dipinti non è accompagnata da alcuna testimonianza scritta. Il Riposo durante la fuga in Egitto appartiene a questo secondo gruppo.
L’opera, attualmente custodita nella Galleria Doria Pamphilj di Roma, potrebbe risalire agli ultimi anni del Cinquecento, quando il giovane pittore stava acquistando fama nella Città Eterna. Non si sa niente riguardo al committente né alla destinazione: forse per un altare in una chiesa o per la cappella in un palazzo. A dispetto di questa mancanza d’informazioni, però, ci troviamo davanti a un capolavoro di straordinaria bellezza e di eccezionale immediatezza comunicativa.
Il soggetto raffigurato è un episodio che non si trova nei Vangeli, ma solo negli scritti apocrifi, che sono libri non approvati dalla Chiesa ma che hanno avuto un grande influsso nella predicazione e nell’arte: durante la fuga in Egitto, la Santa Famiglia si ferma per una sosta. Ne parla il cosiddetto Pseudo Vangelo di Matteo, il quale dedica quattro capitoli al viaggio compiuto dai profughi di Nazareth per mettersi in salvo da Erode che voleva uccidere il bambino e, perciò, aveva decretato la strage degli innocenti. Ecco il testo dello Pseudo Matteo:
«Giunti a una certa grotta, volevano riposarsi in essa e la beata Maria discese dal giumento e, seduta, teneva il fanciullo Gesù nel suo grembo. […] Nel terzo giorno di viaggio avvenne che la beata Maria, stanca per il troppo calore del sole nel deserto, vedendo un albero di palma disse a Giuseppe: “Mi riparerò alquanto all’ombra di questo albero”. Giuseppe dunque la condusse premuroso presso la palma e la fece scendere dal giumento» (Ps Mt 18,1; 20,1).
L’arte medievale e soprattutto rinascimentale aveva già magnificamente illustrato l’episodio: basti pensare ad alcuni quadri di pittori fiamminghi o, più vicini al Nostro, i bellissimi dipinti del Correggio (1520) e del Barocci (1573). Anche grazie al confronto con questi illustri precedenti, il quadro di Caravaggio si presenta come una profonda sintesi di arte popolare e arte classica greco-romana. Il pittore riprende i simboli che la tradizione aveva elaborato per descrivere l’avvenimento, ma li rielabora, così da ottenere una scena originale.
La sosta, sembra dire il Merisi, è una pausa necessaria per il riposo: non è né la solenne contemplazione del mistero (come in Correggio) né un gioco a contatto con la natura (come nel Barocci). Sulla destra, infatti, vediamo la Madonna vinta dalla stanchezza, che, letteralmente, crolla in preda al sonno. Sedutasi sotto l’albero, è dolcemente piombata nel torpore: la testa si reclina su quella del neonato e la mano destra scivola in giù.
Allora, per assecondare il riposo della giovane madre e del bambino, un angelo scende dal cielo e inizia a suonare un’armonia divina, mentre San Giuseppe regge lo spartito musicale e l’asino spalanca il grande occhio di fronte a tanta meraviglia. Alcuni studiosi sono riusciti perfino a decifrare la melodia: si tratta di un brano del fiammingo Noel Baldewijn, che era stato pubblicato in Italia nel 1519. Le parole sono prese dal Cantico dei Cantici: «Quam pulchra es et quam decora … Quanto sei bella e quanto sei graziosa, o amore, piena di delizie!». Sono le parole che, nel libro biblico, lo sposo dice alla sposa. Qui, riprendendo un antico simbolismo, è Dio stesso che le rivolge a Maria, sua “sposa” e madre del suo Figlio incarnato.
Caravaggio realizza un ambiente; e anche in questo non fa altro che riprendere uno schema precedente, quello di una scena sacra inserita in un paesaggio. Ma egli sottolinea con vigore il significato simbolico delle piante. Come già altri prima di lui, toglie la palma di cui parlava lo Pseudo Matteo a favore della quercia, accanto alla quale sorge una pianta di alloro; il braccio sinistro di Maria sfiora un cespuglio di spine, mentre ai suoi piedi compaiono il cardo e il tassobarbasso; l’intera scena, poi, appare inquadrata tra uno stelo di grano a destra e una piccola damigiana di vino a sinistra. Questo insieme di particolari crea uno straordinario messaggio simbolico, che allude al mistero della sofferenza di Gesù (le spine e il cardo) e al suo glorioso trionfo nella risurrezione (l’alloro, la quercia e il tassobarbasso), che il mistero eucaristico continuamente rappresenta e ripresenta.
Guardando l’intera composizione, notiamo che da sinistra a destra si evidenzia un cammino qualitativo, che va dagli esseri inanimati (le pietre, il sacco, il vino) all’animale all’uomo all’angelo al divino e dall’aridità della terra alla natura rigogliosa: è il cammino della salvezza.
Tra i personaggi e con l’ambiente si stabilisce una profonda comunione, al punto che quasi non c’è spazio tra le figure.
Al di là del grande valore estetico, il quadro propone un messaggio di straordinaria importanza. Ciò che vediamo è una famiglia, colta in un momento di riposo ma in una situazione di difficoltà. Sembra che il triste inverno della violenza abbia il sopravvento. Ma non dimentichiamo che l’angelo di Caravaggio ha le ali di una rondine: è l’annunzio di una primavera di libertà e di speranza.