Si fa un gran parlare di populismo, populisti, spesso accompagnando il ragionamento con il concetto di fake-news. Perché i “fomenta popolo”, coloro che parlano alla pancia della gente (intesa come massa) esaltandone le doti e le qualità demagogicamente, hanno necessità sistematica di “attrarre pubblico”, semmai sbandierando e millantando verità oscure e complotti strani. Semmai essendo loro stessi quelli che si spacciano per “i giustizialisti” che danno voce al popolo e mettono alla gogna i potenti, di per sé colpevoli di ogni male e nefandezza. Vera o presunta.
Costoro sono tra noi, in bella vista: personaggi pubblici dal sorriso ammiccante, dal linguaggio facile e nazional popolare. E tutti hanno alcune caratteristiche comuni.
Tra queste, essere i paladini del “contro la casta”, acerrimi avversari di pensioni d’oro e rendite di posizione. Signori incontrastati della coerenza (altrui) che spesso hanno cambiato casacca, maglia, camicia, datore di lavoro, ideologia politica, valori, e finanche posizione e dichiarazioni.
Uno studio presentato alla Camera da Alberto Brambilla evidenzia le pensioni calcolate con il metodo retributivo.
Lo studio offre l’opportunità di verificare gli importi medi degli assegni pensionistici e dei relativi redditi di riferimento (l’ultimo stipendio) categoria per categoria.
Dopo i Notai, la categoria che ci aspetterebbe trovare trovare in cima alla classifica sarebbero politici, sindacalisti, commercialisti, avvocati, e invece no. Al secondo posto figurano i Giornalisti. Nel caso-tipo riportato con un reddito 2013 annuo lordo di 67.370 euro percepirebbero una pensione 2013 pari a 57.510 euro.
Molto – ma molto al di sotto – tutte le altre categorie.
La difesa è nota, ed è quella difesa che i libri di Mario Giordano (ma anche i Feltri, i Salvini, i Belpietro) non concedono a nessuno.
Dice la Corte di Cassazione: “I diritti acquistati e gli importi pensionistici già maturati non possono in nessun caso essere messi in discussione. Le Casse non possono ricorrere ai prelievi di solidarietà, istituto che esula totalmente dalla loro sfera di autonomia decisionale”.
Peccato che in nessun libro di Mario Giordano – i cui titoli ho precedentemente riportato – tra vari Vampiri, Pescecani e Sanguisughe figuri un solo nome di un solo giornalista. Men che meno di un solo direttore di testata o di tg.
Già perché se facessimo due conti tra Vampiri, Sanguisughe e Pescecani dovremmo annoverare anche i Salvini, i Belpietro, i Feltri, i Giordano e i Paragone, che andranno in pensione con un metodo retributivo secondo solo ai notai, e con pensioni di oltre 200mila euro.
Almeno gli altri non lucrano sulla rabbia della gente e non chiamano “gli altri” Spudorati, Quelli che si riempiono le tasche alle spalle del Paese che affonda.
Perché le varie pensioni dei signori suddetti le pagherà – come dice bene Mario Giordano – l’unico fondo Inps davvero in attivo, ovvero quello dei giovani precari, che la pensione (per davvero) forse, non la vedranno mai.
Nel paese che non ha memoria, ne scelgo qualcuno a caso. Di noto e popolare. Ed è bene partire da curriculum e biografia.
Gianluigi Paragone
Nato da famiglia di origine sannita ha iniziato la carriera giornalistica al quotidiano La Prealpina. In quel periodo viene incaricato, come giovane inviato, di seguire Umberto Bossi, Roberto Maroni e altri membri del partito nei loro comizi e incontri. È stato direttore del telegiornale di Rete 55, emittente locale della provincia di Varese, e del quotidiano La Padania. In seguito è approdato al quotidiano Libero di cui è stato vice-direttore. È stato anche conduttore di Malpensa Italia, talk show politico in onda in seconda serata su Rai 2 dal 22 gennaio 2009
Dal 1º agosto 2009 ha sostituito per un breve periodo Vittorio Feltri alla direzione del quotidiano Libero. Il 5 agosto 2009 Paragone è stato nominato vice direttore di Rai 1 e quindi ha abbandonato la direzione di Libero: l’elezione ha visto il voto contrario del presidente del CDA della RAI Paolo Garimberti con la motivazione secondo la quale la nomina di Paragone non risponderebbe alla “tradizione” che “consiglia” alla RAI di ricorrere il meno possibile a professionisti esterni all’azienda.
Matteo Salvini
Matteo Salvini nasce a Milano da genitori milanesi.Nel 1985, a 12 anni, partecipa a Doppio Slalom condotto da Corrado Tedeschi su Canale 5 e nel 1993, a 20 anni, a Il pranzo è servito condotto da Davide Mengacci, all’epoca in onda su Rete 4. ed è stato il primo ad attaccare Matteo Renzi per una partecipazione alla Ruota della Fortuna.
Si iscrive alla facoltà di Storia dell’Università degli Studi di Milano, fermandosi, secondo quanto riportato sul suo sito, a 5 esami dalla laurea; dichiara nel 2008, che sarebbe arrivata «prima la Padania libera della mia laurea».
In gioventù frequenta il centro sociale Leoncavallo, che influenza fortemente il suo orientamento politico: da lì in poi si schiererà con le correnti di estrema sinistra della Lega, tra cui in particolare ricordiamo il fatto di essere stato fondatore e leader dei Comunisti Padani.
Molti hanno criticato Salvini per il suo “cambio” di orientamento politico, dall’estrema sinistra all’alleanza con Marine Le Pen e Geert Wilders dell’estrema destra in pochi anni, accusandolo di aver fatto questo cambio radicale solo per meri motivi populisti (alleandosi con gli euroscettici, che acquistavano visibilità dagli anni 2010) e per accaparrarsi più voti, Salvini di suo canto ha spiegato la sua scelta dicendo: “Per assurdo vedo più valori di sinistra nella destra europea che in certa sinistra. Questi partiti e questi movimenti sono quelli che oggi difendono i lavoratori, quelli che conducono battaglie giuste come quella per il ritorno al locale. Allora non ci vedo nulla di strano a cercare un dialogo con chi oggi incarna la resistenza a questa Europa sbagliata”
Nel 1997 inizia l’attività giornalistica: lavora come cronista per il quotidiano la Padania, di cui dichiara: «Un’esperienza affascinante»; dal 1999 lavora inoltre sull’emittente radiofonica leghista Radio Padania Libera. Nel luglio 2003 ottiene l’iscrizione all’Albo dei giornalisti nell’elenco dei giornalisti professionisti.
Nelle elezioni del Parlamento della Padania del 1997 è candidato capolista della corrente dei Comunisti Padani, che ottiene 5 seggi su 210. L’anno successivo è eletto segretario provinciale di Milano della Lega Nord (1998-2004).
Nel luglio 1999, a seguito della decisione del prefetto di rimuovere il sindaco di Lazzate, Cesarino Monti, il gruppo leghista in consiglio comunale propose una mozione a sostegno del sindaco, la quale viene per due volte respinta, al che Salvini coordinò in fondo all’aula il coro «Prefetto italiano, via da Milano!»; l’idea anti-prefetto verrà poi ripresa dallo stesso Salvini in qualità di segretario federale nel 2013. Pochi mesi dopo, durante una visita ufficiale a Palazzo Marino del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, si rifiutò di stringere la mano al capo dello Stato; in una nota egli affermò di avergli detto: «No grazie, dottore, lei non mi rappresenta».
Nel 1999 viene condannato alla reclusione di 30 giorni per oltraggio a pubblico ufficiale per un lancio di uova a Massimo D’Alema.
Lontani i tempi delle invettive contro “Roma Ladrona”: gli europarlamentari guadagnano circa 8mila euro netti, esclusi i vari benefit e rimborsi con i quali possono arrivare fino a 19mila euro lordi al mese.
Troppi, ad ascoltare chiunque. Ma mai che fosse arrivata alcuna proposta di riduzione delle indennità dal nuovo leader dell’ultradestra di lotta e di potere. Resta solo il clamoroso rimprovero, nell’aula di Strasburgo, dell’eurodeputato socialista Marc Tarabella contro il “nostro” Salvini.
Il 12 ottobre 2012 dichiarava: “La Lombardia e il Nord l’euro se lo possono permettere. Io a Milano lo voglio, perché qui siamo in Europa. Il Sud invece è come la Grecia, al Sud non se lo meritano”.
Mario Giordano
La sua carriera inizia a Il nostro tempo settimanale cattolico di Torino, per proseguire nel 1994 a L’Informazione e nel 1996 al quotidiano Il Giornale diretto da Vittorio Feltri. Dopo varie apparizioni al Maurizio Costanzo Show in qualità di ospite, il debutto in televisione avviene in RAI nel 1997 con la trasmissione di Gad Lerner, Pinocchio dove veste i panni del Grillo Parlante. Dopo la conduzione di Dalle venti alle venti su Rai 3, torna a lavorare con Lerner alla seconda edizione di Pinocchio, in cui, armato di bicicletta, presenta cifre e scandali sui temi casuali d’attualità.
Dopo una breve parentesi al TG1 , il 4 aprile 2000 passa a dirigere Studio Aperto (in sostituzione di Paolo Liguori), spazio televisivo che negli anni contribuirà a fargli acquisire una certa notorietà rendendolo un telegiornale di gossip. A partire dall’estate del 2003, Giordano dirige altre due trasmissioni televisive su Italia 1, Lucignolo e L’alieno (di quest’ultimo programma Giordano è anche conduttore).
Il 10 ottobre 2007, Giordano, da Studio Aperto, passa a dirigere Il Giornale (con il quale già collaborava come editorialista) in sostituzione di Maurizio Belpietro, che a sua volta passa alla guida del settimanale Panorama. L’insediamento nel quotidiano di via Negri avviene l’11 ottobre 2007. È coinvolto in un caso politico per una nota di redazione apparsa su Il Giornale del 30 aprile 2009, “Lambertow premiato dai giapponesi”, nella quale ci si riferisce al popolo giapponese come “musi gialli”, suscitando una richiesta di scuse ufficiali da parte del ministro e vice capo missione giapponese, Shinsuke Shimizu.
Il 20 agosto 2009 lascia Il Giornale per riapprodare a Mediaset come direttore delle Nuove Iniziative News e, dal 1º settembre 2009, torna direttore di Studio Aperto, il tg di Italia 1. Il 1º marzo 2010 lascia nuovamente Studio Aperto, che passa sotto la direzione di Giovanni Toti (già condirettore di Studio Aperto), e viene nominato direttore di NewsMediaset, testata d’informazione del gruppo di Cologno Monzese. Contestualmente diventa editorialista del quotidiano Libero. Il 29 dicembre 2010 lascia la collaborazione con il quotidiano Libero e torna a scrivere per Il Giornale, in veste di editorialista.
Nel settembre 2012 lascia ancora una volta il quotidiano diretto da Alessandro Sallusti per far ritorno al quotidiano «Libero», sempre come editorialista. Dal 28 novembre 2011 è anche il direttore del nuovo canale Mediaset all-news TGcom24. Il 10 giugno 2013 lascia la direzione di TGcom24 per quella di Videonews, salvo essere nominato, il 24 gennaio 2014, direttore del TG4 in seguito alla discesa in politica di Giovanni Toti.
Nel luglio 2016 lascia «Libero» per seguire Maurizio Belpietro nella fondazione di un nuovo quotidiano, «La Verità», il cui primo numero esce il 20 settembre 2016.
I suoi titoli sono il suo manifesto giornalistico-editoriale: Silenzio, si ruba. Le troppe verità che ci nascondono per continuare a svuotarci le tasche, L’Unione fa la truffa. Tutto quello che vi hanno nascosto sull’Europa, Attenti ai buoni. Truffe e bugie nascoste dietro la solidarietà, Siamo fritti. Truffe, inganni e altri veleni nel piatto, Senti chi parla. Viaggio nell’Italia che predica bene e razzola male, Sanguisughe. Le pensioni d’oro che ci prosciugano le tasche, Spudorati. La grande beffa dei costi della politica. False promesse e verità nascoste, Tutti a casa! Noi paghiamo il mutuo, loro si prendono i palazzi, Non vale una lira. Euro, sprechi, follie: così l’Europa ci affama, Pescecani. Quelli che si riempiono le tasche alle spalle del Paese che affonda, Profugopoli. Quelli che si riempiono le tasche con il business degli immigrati, Vampiri. Nuova inchiesta sulle pensioni d’oro.
Vittorio Feltri
A diciannove anni, nel 1962, inizia a collaborare con L’Eco di Bergamo, con l’incarico di recensire le prime visioni cinematografiche. Nello stesso periodo viene assunto per concorso alla Provincia come impiegato; lavora all’I.p.a.m.i., il brefotrofio, poi si occupa delle rette dei manicomi. Quando è già di ruolo lascia tutto per riprendere la carriera giornalistica. Si trasferisce a Milano, dove viene assunto dal quotidiano La Notte come praticante. Il 16 dicembre 1971 ottiene l’iscrizione all’Albo dei giornalisti professionisti. Nel 1974 Gino Palumbo lo chiama al Corriere d’Informazione (edizione pomeridiana del Corriere della Sera): dopo tre anni Feltri passa al Corriere della Sera, allora diretto da Piero Ottone.
Negli anni 1981-82 scrive sul mensile Prima Comunicazione sotto lo pseudonimo Claudio Cavina. Dal 1983 è direttore di Bergamo-oggi, ma l’anno successivo è richiamato al Corriere della Sera come inviato speciale (1984-89, direttore Piero Ostellino). Feltri fu tra coloro che sostennero pubblicamente Enzo Tortora, il celebre conduttore televisivo accusato ingiustamente nel 1983 di associazione camorristica e spaccio di droga.
Nel 1989 assume la direzione del settimanale L’Europeo. Durante la sua direzione, venne pubblicato un falso scoop da parte del giornalista pubblicista Antonio Motta. Motta sostenne di essersi infiltrato nelle Brigate Rosse come “agente di Carlo Alberto Dalla Chiesa” e di aver scoperto particolari eclatanti e scabrosi sul rapimento di Aldo Moro. L’inchiesta, che fu pubblicata il 26 ottobre 1990, si rivelò invece un falso. Feltri si difese: «A questa storia – affermò – si aggiungono misteri su misteri, noi abbiamo cercato le conferme, e le abbiamo avute, poi chi ce le ha date ha cambiato idea»
Nel 1992 sostituisce Ricardo Franco Levi alla direzione de l’Indipendente, in grave crisi di vendite. Feltri rilancia il giornale e ne fa un quotidiano di successo, cavalcando lo sdegno popolare a seguito dell’inchiesta Mani pulite:
« Ammesso e non concesso che un magistrato abbia sbagliato, ecceduto, ciò non deve autorizzare i ladri e i tifosi dei ladri… gli avvoltoi del garantismo… a gettare anche la più piccola ombra sulla lodevole e mai sufficientemente applaudita attività dei Borrelli e dei Di Pietro.»
concentrando più volte i suoi attacchi sulla figura dell’allora segretario socialista Bettino Craxi:
« Mai provvedimento giudiziario fu più popolare, più atteso, quasi liberatorio di questo firmato contro Craxi (il primo avviso di garanzia, nda) … Di Pietro non si è lasciato intimidire dalle critiche, dalle minacce di mezzo mondo politico (diciamo pure del regime putrido di cui l’appesantito Bettino è campione suonato)… Ha colpito senza fretta, nessuna impazienza di finire sui giornali per raccogliere altra gloria. Craxi ha commesso l’errore… di spacciare i compagni suicidi (per la vergogna di essere stati colti con le mani nel sacco) come vittime di complotti antisocialisti… È una menzogna, onorevole!»
Coniò per Craxi il soprannome “Cinghialone”. Quasi un ventennio dopo corresse in parte le sue affermazioni:
« Nel 1992 stavo a fianco di Antonio Di Pietro e di altre toghe. A Bettino Craxi ho dedicato i titoli più carogna della mia vita professionale al tempo dell’Indipendente. Del resto Bettino non fece nulla per sottrarsi ai colpi. Incurante di essere considerato il simbolo della politica ladra e corrotta, circondato da ometti che non facevano nemmeno lo sforzo di togliersi la giacca da gangster, non smetteva di ergersi senza ripararsi. Non schivava i colpi, e io pensavo fosse alterigia: quindi via con le ironie, le indignazioni e i sarcasmi. Ho sbagliato. Non scriverei più festosamente davanti alla «rivolta popolare» che accolse Bettino la sera del 30 aprile del 1993 fuori dall’hotel Raphaël a un passo da piazza Navona. »
Nell’aprile 1993 conosce Silvio Berlusconi; il Cavaliere gli propone di lavorare come giornalista televisivo a Canale 5, ma Feltri rifiutò.
Nel gennaio 1994, Feltri viene contattato da Paolo Berlusconi, editore de Il Giornale, che gli offre la direzione del quotidiano – direzione che Indro Montanelli ha deciso di lasciare. Feltri accetta e rimane al Giornale per 4 anni. Nello stesso periodo, Feltri cura una rubrica sul settimanale Panorama, collabora con Il Foglio di Giuliano Ferrara e con altre testate nazionali, tra cui Il Messaggero e Il Gazzettino.
Durante la sua permanenza alla direzione del Giornale, Feltri accumula ben 35 querele da parte del magistrato Antonio Di Pietro. L’amministrazione del quotidiano decide di raggiungere un accordo con la controparte per la remissione delle querele. Feltri si uniforma alla decisione presa e il 7 novembre 1997 scrive in prima pagina una diplomatica lettera al magistrato. Nello stesso numero è pubblicata una lunga ricostruzione (due pagine) in cui tutte le accuse a Di Pietro vengono smontate. Un mese dopo il clamoroso articolo, Feltri lascia il Giornale.
Il 25 marzo 2010 il Consiglio dell’ordine dei Giornalisti della Lombardia ha sospeso Vittorio Feltri dall’albo professionale per sei mesi, quale sanzione per il caso Boffo e per gli articoli firmati da Renato Farina pubblicati successivamente alla sua radiazione dall’albo. Feltri ha reagito alla notizia affermando «Mi dispiace di non essere un prete pedofilo o almeno un semiprete omosessuale o un conduttore di sinistra, ma di essere semplicemente un giornalista che non può godere, quindi, della protezione dei vescovi, né diventare un martire dell’informazione».
Maurizio Belpietro
Nasce a Castenedolo in provincia di Brescia, ma cresce e risiede per oltre quarant’anni a Palazzolo sull’Oglio.
Ha cominciato la professione nel 1975 nel quotidiano «Bresciaoggi», poi all’inizio degli anni ottanta contribuì, insieme a Cristiano Gatti, alla nascita di «Bergamoggi». È stato in seguito caporedattore centrale del settimanale «L’Europeo» e poi vicedirettore de «L’Indipendente» di Vittorio Feltri. Segue Feltri a «Il Giornale» nel 1994 come vicedirettore. Nel 1996 ha la sua prima esperienza da direttore, al quotidiano «Il Tempo» di Roma. Rientra a Milano già l’anno dopo, prima come vicedirettore del «Quotidiano nazionale», poi per tornare a «Il Giornale» come direttore operativo, al fianco di Mario Cervi. Il 26 marzo 2001 assume la direzione del quotidiano, che guida fino al settembre 2007. Dall’11 ottobre 2007 ha diretto il settimanale «Panorama». Il 13 agosto 2009 sostituisce Vittorio Feltri alla direzione del quotidiano «Libero», subentrando al direttore provvisorio Gianluigi Paragone.
La sera del 30 settembre 2010 Belpietro sarebbe stato oggetto di un tentativo di agguato. Secondo le prime ricostruzioni, basate sulla testimonianza di un agente della sua scorta, un uomo armato si sarebbe introdotto nelle scale condominiali e, una volta sorpreso dall’agente avrebbe puntato la pistola verso di lui, ma l’arma si sarebbe inceppata; a questo punto l’agente avrebbe esploso tre spari intimidatori facendo fuggire l’aggressore. Nonostante i tre spari siano stati uditi dagli altri abitanti del condominio, non ci sarebbero testimoni oculari o riscontri da telecamere. L’effettivo avvenimento dell’attentato, piuttosto che il suo essere stato solo una simulazione da parte del caposcorta di Belpietro, è stato all’attenzione degli inquirenti. Nell’aprile 2011 i pm, dopo le indagini condotte dalla DIGOS con audizioni di abitanti della zona e di inquilini del palazzo, acquisizione di filmati e rilievi scientifici, hanno escluso l’ipotesi di un attentato contro Belpietro, chiedendo al Giudice per le indagini preliminari l’archiviazione del fascicolo con la motivazione che “non vi erano ragioni particolari per prendere di mira il giornalista”.
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Italicum o perché in Italia è così difficile fare una legge elettorale
Partiamo da alcuni concetti e consideriamoli assunti per semplicità.
L’Italia aveva bisogno di una legge elettorale, per troppi motivi, che tutti abbiamo conosciuto e che la Consulta solo alla fine ha sancito in sentenza. Ed oltre quei motivi ve ne sono altri, di senso comune, oltre all’individuale opinione politica. Ciò tuttavia non può significare automaticamente che “qualsiasi” legge elettorale “vada bene”. E qui c’è un vizio patologico del nostro paese, almeno dai tempi di Crispi.
La legge elettorale non è pensata “in sé”, in quanto tale, e come strumento di rappresentazione proporzionale della società. Dietro concetti come governabilità e stabilità, la maggioranza del momento scrive una legge elettorale “per il futuro” che tende a disegnare i futuri rapporti di forza, non tanto a garantire la adeguata rappresentatività.
Vi sono alcune considerazioni da fare, e bene ha sintetizzato nella sua analisi quotidiana dei TG Alberto Baldazzi “1) da circa un anno e mezzo la Consulta ha intimato ad un Parlamento in buona parte delegittimato perché eletto con una legge incostituzionale di cambiarla; 2) alla rielezione “forzosa” di Napolitano il vecchio-nuovo Presidente aveva esplicitamente chiesto la riforma; 3) nei 14 mesi e nelle 3 letture intercorse la riforma è stata più volte “riformata” e 3 volte votata ( 2 al Senato e 1 alla Camera), per altro senza voti di fiducia e con l’esplicito appoggio di Forza Italia; 4) le opposizioni che oggi hanno deciso di non partecipare al voto criticano l’Italicum da posizioni tra loro opposte; 5) la minoranza Pd (che oggi si è espressa con 45 “no” nella votazione finale) è legittimamente ma altrettanto chiaramente impegnata in una battaglia interna che poco ha a che fare con i contenuti della legge. Avremmo molto apprezzato se qualche TG avesse chiarito ai teleutenti questi scarni elementi, ma anche stasera non è successo.
”
Particolarmente efficace Alessandro Gilioli, che sul suo blog su l’Espresso esordisce “Si dice spesso che i Costituenti optarono per un potere molto distribuito perché venivano dal fascismo, cioè da una dittatura personale, quindi erano scottati da quel precedente così recente e tragico: per questo, si dice, insistettero tanto sul carattere ampiamente parlamentare della nuova Repubblica (addirittura mille eletti!), si inventarono contrappesi come il bicameralismo e la Consulta, addirittura non vollero che il primo ministro si chiamasse così bensì ‘presidente del consiglio’… Io non sono così sicuro che i Costituenti avessero distribuito il potere solo perché uscivano dal Ventennio. Forse, un po’, anche perché conoscevano bene il popolo di cui facevano parte. E volevano preservarlo da se stesso, dalle sue frequenti cadute personalistiche, dai suoi emotivi e carsici innamoramenti per l’uomo forte.
”
E nell’era in cui siamo tutti figli della politica americana per come ce la raccontano le serie tv trasmesse dalle televisioni commerciali (ormai tutte), in cui conta l’efficacia della comunicazione individuale e personale (da Renzi a Grillo a Salvini) al di là del contenuto, e di certo storcendo tutti il naso al metodo, ormai il nostro “presidente del consiglio” si chiama “premier”, e il metro che conta è l’indice di gradimento personale, non certo politico.
Quello che emerge è sostanzialmente una mancanza di lungimiranza e visione – al di là del personalismo e del sondaggio del momento – e la mancanza di coerenza sistemica di “dove porta una riforma” senza un contesto e uno scenario complessivo da disegnare, che appunto dovrebbe essere l’Italia del futuro.