Se c’è qualcosa di forte che spinge al cambiamento, quella forza è l’amore. L’amore verso il prossimo, verso l’evoluzione, l’amore per il bene comune. Un’energia che non ha fondamenta perchè irradia tutto, anche l’invisibile; uno slancio di bene che regala senza chiedere. E’ l’amore delle madri che amano i propri figli qualunque cosa facciano, l’amore di una compagna che cambia per il bene della coppia, l’amore per il progresso, operare per garantire a tutti un futuro migliore. E come accettiamo l’esistenza del bene, dobbiamo riconoscere che esiste anche il male, l’odio, che assume altrettante infinite forme, il razzismo, la violenza, la condanna delle differenze, l’invidia, dietro cui si celano gli ignoranti, gli ottusi, i leoni da tastiera, o più comunemente detti, i mediocri. Perchè odiare è semplice, ma per amare ci vuole coraggio, significa mettersi in gioco, scoprire le carte, buttarsi senza paracadute, accettare e accogliere la sofferenza, che è parte della vita che ci hanno donato.
In questo numero di SNOB, il Numero 1, abbiamo voluto raccontare tutte le facce di quell’Amore e di quell’Odio. Abbiamo intervistato il grande attore e regista Sergio Rubini che ci ha rivelato perchè fuggiva dall’amore come dalle sue radici, mentre la cantanteGiorgia ci ha spiegato come quel forte sentimento l’abbia salvata in un momento di dolore, attraverso la musica; l’artista internazionale Andrea Bianconi opera attraverso il mezzo del linguaggio, che diventa bene comune quando coinvolge nelle sue performance le detenute di un carcere. Anche la fotografia si è fatta portavoce della potenza dell’amore, ne sono la prova le Polaroid di Peppe Tortora, che rende eterna la sua città natale, un’area del Sud Italia da cui sono partite altre nobili anime che hanno portato la passionalità più vera, più autentica e drammatica in giro per il mondo, com’è stato il fenomeno della musica neomelodica, che in questo numero viene raccontato dal grande giornalista e critico musicale Federico Vacalebre, e che il noto e controverso fotografo Oliviero Toscani, ha riportato attraverso i ritratti di otto rappresentanti di questa eredità musicale. E’ tra gli studi della criminologa e psicologa forense Roberta Bruzzone, che riconosciamo i profili dell’Odio sfociato in malattia ed è con questa attitudine alla ricerca, allo studio e alla verità, che SNOB si pone nello sviluppo di ogni numero, per dare un senso etico ed utile a quello che un mezzo d’informazione dovrebbe fare: aprire le menti.
Come a ribadire e rafforzare una etichetta critica, con cui è stato accolto e recensito, Love, ultimo film di Gaspar Noé, è rimasto fuori dal concorso ufficiale del Festival di Cannes. La si è dispersa, tra noia e irritazione, come una opera oscena, da tenere in disparte, appunto, da mettere al bando, preferibilmente, in quanto, si aggiunge, credendo soltanto di allargare l’insulto d’apertura, pornografica. In Love, di fatti, ma non è un alibi brillante, si vedono, più volte, persone che si prendono cura, amorevolmente, e senza fretta, dei propri plateali genitali gratificati, anche da primissimi piani. L’osceno, dovendo subito spargere puntini, non è il pornografico. La relazione tra i due concetti è faticosa, si allenta per poi tornare a stringersi, periodicamente, e sempre rasenta una confusione in cui, ovviamente, c’è chi si rotola indignato, per agitare pronto lo spettro futile dello scandalo.
È accaduto di recente, con Nymphomaniac di Lars von Trier, quando lo avrebbe meglio meritato con Antichrist, è accaduto in passato, con Lolita di Kubrick, quando avremmo preferito lo meritasse con Eyes Wide Shut. Carmelo Bene, a questa distinzione indecorosa, ci teneva, per massaggiare col frustino le tempie di un pubblico sonnambulo, in un Maurizio Costanzo Show d’annata, chiarì con voce ammaestrante che l’osceno è quello che sta fuori dalla scena, così semplicemente, e non il porno del giornaletto da sfogliare nella cameretta. Se, quindi, è solo ciò che sta fuori dalla scena, non solo quella del teatro dove si allestisce un’opera, ma dalla visuale, in generale, di un pubblico in generale, non ha, prima di tutto, un implicito attributo erotico volgare da velare, e da denunciare.
Osceno e pornografico non si sovrappongono, anzi si tengono sempre a debita distanza, a meno che non sia la pornografia a primeggiare, a cui l’esclusione dalla scena è del tutto congenita e congeniale, per sbrigare i propri provocatori affari. Osceno, intendendo ripugnanza acida, lo si dirà di un attore squinternato insulso, che ha perso la faccia e soprattutto il suo controllo, e altro traspare, mettiamo pure uno stile di abusi alcolici e di chirurgia plastica acritica, mettiamo che sia Mickey Rourke ultima maniera, ed è ciò che non vorremmo vedere, a meno di non avere golosità di celebri derelitti. Osceno è la sigla della censura che, tendenziosa e anche oziosa lo combina col pornografico, alla lusinga prezzolata della sessualità quindi, come durante i sequestri, e roghi moralistici applauditi, di Ultimo Tango a Parigi di Bertolucci.
E non occorrono certo sodomie da caseificio per urtare la burocrazia del gusto, la portavoce del disgusto, il filtro della fragile dignità pubblica, basta un Cristo in croce effeminato o minorenne, il soggetto più perseguitato dalle striminzite routine blasfeme degli artisti trasgressivi emergenti. Oscena è la sevizia barbara contro animali introspettivi come le orche, che non deve essere resa pubblica, perché come potrebbero, altrimenti, macinare introiti luccicanti, tra piroette e musi docili e mostri bonari lisciati, i moderni lager acquatici. È quanto si vede, invece, nel film documentario Blackfish di Gabriela Cowperthwaite, che non è stato censurato, anche se comunque ostacolato, solo perché alla Casa Bianca non siede un veterano della pesca con la dinamite.
Love è osceno, e anche di una tristezze brutale, virtuosamente dosata. Mostra il declino imponderabile e inevitabile dell’amore, tragico meccanismo suicida a orologeria, mostrando l’amore stesso mentre si gonfia nello spazio, e si frammenta nell’eternità, non solo del cuore disegnato da mano romantica, ma nella bocca avida dell’altra bocca grondante, nel fondersi sulla pelle della carezza furiosa e premurosa. Love non è l’apologia della eiaculazione a fin di lucro, ossia pornografia, non incita a empatie scambiste in cui metti da parte, sgarbato, l’attore per fare i tuoi comodi trasognati licenziosi con l’attrice, o viceversa, entrando con personali proiezioni surriscaldate sulla scena riservata, come un tavolo o un letto per due, di questa storia, la loro, che si disfa.
Di rado un esplicito di tale grado riesce a spogliare di frenesia, a far meditare sulla contrazione, ad esempio, di una palpebra, leggendovi sopra l’alito, decomposto ormai, di un’estasi condannata, mentre la lingua guizza ingolfata sul seno sotto cui ogni battito, progressivamente, diventa estraneo, accadeva nell’Impero dei Sensi di Oshima, anni cinematografici fa. Ma allora, in quale senso dell’osceno ripulito e ricomposto, seguendo l’elenco delle proposte precedenti, dovrebbero finire, e non al macero delle abbrutite confusioni, le inquadrature del film? Nel senso migliore, quello dell’arte, che tenta, di continuo, fallendo pure, di continuo, di mettere in scena, senza puntare vorace allo scandalo fumoso che subito si dissipa, quello che sembra interdetto, vietato dal falso pudore, o dai foschi interessi negligenti, di chi vuol rendere la scena una fiaba didascalica per minorati, e neanche innocua. Ed è questo il senso in cui l’amore, ad esempio, cerca quella luce, fosse anche l’abbaglio di un’opera tanto imperfetta, che saprà guardarlo negli occhi, senza offenderlo, o svenderlo.