È partita la corsa al congresso, che Renzi lancerà ufficialmente il 18 dicembre all’Assemblea Nazionale del Pd. L’idea è semplice: congresso “facile” a marzo, primarie, nuova direzione bulgara, nuova segreteria fedelissima con tutti i correttivi dettati dalle esperienze precedenti, e elezioni a giugno. Un’unica grande, lunga campagna elettorale, con alcuni vantaggi.
Non essere al governo, avere le mani libere di attaccare dall’esterno dei palazzi, non dare il tempo agli avversari interni di convergere su un leader anche solo teoricamente capace di offuscarlo o metterlo in discussione, e non dare il tempo a un centrodestra disunito di fare primarie (accrescendone il logoramento) né al Movimento 5 Stelle di chiarire le proprie fronde interne.
Utile allo scopo sarà lo strumento della nuova legge elettorale, che nessuno potrà accusare Renzi di intestarsela direttamente a proprio uso e consumo. Probabilmente prevederà l’eliminazione del ballottaggio e – se i sondaggi andranno in questa direzione – un eventuale premio alla coalizione più che al partito.
Sin qui, l’idea semplice. La sua realizzazione lo è molto meno. E vediamo gli ostacoli.
Partendo dalla fine, cosa blocca le elezioni a giugno.
Intanto il grande partito trasversale dei “parlamentari alla prima nomina” (circa 400) con l’obiettivo di arrivare almeno al primo ottobre per assicurarsi il vitalizio. Tra questi i molti che sanno che non saranno né ricandidati né rieletti, con l’obiettivo di arrivare a febbraio 2018.
I tempi della legge elettorale, che si incardinerà non prima di febbraio, quando la Consulta avrà depositato motivazioni e contenuti della sentenza sulla legge elettorale. E qui se non ci sarà un accordo convergente quanto meno con Forza Italia la nuova legge avrà vita durissima. Ostacolo non da poco visto che interesse del partito di Berlusconi è portare le cose per le lunghe, per spegnere la cavalcata elettorale di Salvini, evitare primarie, convergere su una leadership e unire il centrodestra. Tutte cose per cui occorre tempo.
Infine gli impegni internazionali (G7 di Taormina, elezione del segretario generale dell’ONU, l’avvio della procedura della Brexit, solo per citare quelli macroscopici) e quelli di governo, primi tra tutti i decreti nomine di febbraio e maggio. Qui la pedina centrale era Luca Lotti, colui che qualche giorno fa chiarì a cena senza mezzi termini “se Matteo si dimette, chi ci assicura che chi verrà si dimetterà quando vogliamo noi?”. Ed ecco che come garanzia per non perdere Palazzo Chigi Lotti diventa garante della continuità. Conserva le deleghe (Cipe ed editoria) e viene promosso a Ministro dello Sport (sede presso la Presidenza del Consiglio) ma non ottiene le deleghe ai servizi che voleva. Il suo potere viene in parte consegnato all’altra fedelissima di Renzi, Maria Elena Boschi, non più ministro ma rafforzata come unico sottosegretario alla presidenza, con in mano fascicoli delicati in qualità di segretario del Consiglio dei Ministri. Più che un governo fotocopia, un vero e proprio bunker. Già si parla di un cambio dei vertici Rai e del direttore generale del Tesoro Vincenzo La Via. E poi in primavera Enel, Eni, Poste, Finmeccanica, Terna e tanti altri consigli di amministrazione. Gran finale, Banca d’Italia, col mandato di Ignazio Visco che scade nel 2017. Proprio una analoga infornata di nomine produsse l’accelerazione che portò Renzi al posto di Letta.
Veniamo agli ostacoli verso la corsa a Palazzo Chigi.
In verità non sono tanti, ma sono tutti legati alla legge elettorale ed ai suoi tempi.
Come ha dimostrato il rapido passaggio tra vincere la segreteria e approdare al Governo, Renzi non è disposto a farsi logorare dalla “vita di segretario” e dai problemi di gestione del partito (che ha ampiamente delegato sempre), né è disponibile a stare a guardare le cose da fuori dicendo la sua dall’esterno senza ruoli.
Eppure la legge elettorale dovrà uscire da un Parlamento che in grande maggioranza tenderà ad allungare i tempi. Il centrodestra in cerca di unità e leadership non gradisce accelerazioni (come invece vorrebbe Salvini). Il Movimento cinque stelle apparentemente è per il voto subito, ma oltre la metà dei suoi parlamentari è a rischio, sia di ricandidatura che di riconferma, e non disdegnerebbe qualche mese in più. Sotto traccia sinora è stato anche il confronto interno sulla leadership. Il nome scontato sino a poche settimane fa di Di Maio premier è stato messo in discussione subito dopo il voto dallo scontro sempre nascosto sotto i tappeti tra i due pretendenti, Fico e Di Battista, pronti a puntare i piedi in cambio di garanzie future e di far sentire il proprio peso politico (e mediatico). Sempre in casa M5S c’è tutta la “battaglia romana” che parte dal caso Muraro (coperto sino a dopo il referendum) ma che chiama in ballo tutti i nomi noti del Movimento, che non se la passa bene nemmeno in un’altra sua roccaforte, la Sicilia, con gli scandali delle firme false e delle forniture non pagate e con la sospensione dal movimento di parlamentari noti ed influenti. Tutti nodi che sino a quando non verranno sciolti difficilmente convinceranno i protagonisti di queste vicende ad accelerare verso il voto.
Infine il tema ALA-SC, fuori dal governo, e i cui parlamentari sono “in cerca di una casa sicura” (leggasi quanto meno rielezione). E sino a che non la troveranno remeranno contro qualsiasi cosa. Qualcuno penserà “parva materia”, ma di fatto quei 18 voti al Senato sinora hanno permesso quattro anni di governi.
Il nodo della legge elettorale – che dovrà uscire da questo parlamento, con queste caratteristiche e queste rappresentanze – non è di poco conto.
Renzi con il ballottaggio – come tutti i sondaggi dimostrano – rischia di non vincere.
Senza un premio di maggioranza rischia di non governare. E senza un premio alla maggioranza non ci sarebbe ragione per i partiti di sinistra di allearsi col Pd per portare solo acqua a Renzi senza poi ottenere rappresentanza parlamentare.
Ostacolo non indifferente per almeno due motivi. Il primo, non ritrovarsi a perdere per una decina di punti persi a sinistra. Il secondo, perché una logica di coalizione genera “altri leader” alternativi a Renzi.
Si apre quindi il capitolo della sfida per la leadership della coalizione.
Qui le cose si complicano perché se Renzi vince le primarie a segretario, con una maggioranza amplissima, di lì a poco deve anche vincere le primarie per la leadership della coalizione.
Qui conterebbe su un voto popolare ampio, anche oltre il Pd, ma dovrebbe scontare il fatto che tutte le minoranze uscenti dal congresso potrebbero fare fronte comune su un candidato esterno capace – questo si – di mettere insieme tutti.
È il caso che fu di Milano con Pisapia, che sfidò in primarie aperte anche il cadidato Pd e la cui vittoria fu travolgente.
E non è un caso se quel modello, e quello stesso nome, oggi tornano in auge.
Ma che si chiami Pisapia o chiunque altro, il prodotto e lo schema non cambiano.
Prima di tutto questo c’è la sfida per la segreteria. Che appare scontata ma con tanti forse e mine sparse. Andiamo con ordine.
Le componenti del Pd sono molte, spesso eterogenee, ed anche quelle apparentemente minime possono contare, specie in regioni e provincie chiave. Molte di queste – come abbiamo visto negli ultimi congressi – generalmente si spostano sul candidato “più forte”, o vanno “in appoggio” del segretario dopo la sua elezione.
Prima di lasciare Palazzo Chigi Renzi si è assicurato – o almeno ha cercato – la fedeltà interna di varie componenti, tra cui quella di Orlando, dei Giovani Turchi, di Martina, di Franceschini, consolidando ed ampliando quella che era l’area strettamente renziana.
In un colpo solo Renzi avrebbe così neutralizzato anche possibili antagonisti (Orlando e Martina ed esempio) ed in qualche modo sterilizzato l’area Franceschini. Ma questi accordi non è detto che reggano al Natale, e in un’ottica strabica.
Da un lato nessuno oggi si ufficializzerebbe contro Renzi, restando anche un pò a guardare, cercando di accrescere il proprio peso interno, dall’altro nessuna componente – pur quando sarà appoggiando dichiaratamente Renzi – lo vorrà stra-forte, perchè una stra-forza di Renzi (e dei renziani) renderebbe il proprio contributo non solo non indispensabile ma anche relativamente necessario se non intercambiabile: un Renzi forte, si, ma sino a un certo punto.
Se rischi percentuali non sembrano esserci (la base PD vuole Renzi al 52% e i dieci leader dietro di lui raccolgono singolarmente dal 12 al 4% dei consensi), la partita si giocherà sulle convergenze, e soprattutto sul rischio outsider, capace di polarizzare oltre il consenso di singole correnti.
Anche per questo Renzi accelera e rilancia. Probabilmente mettendo mano anche al regolamento, alzando le asticelle minime per candidarsi, con qualche variazione (non da poco) sui requisiti.
Una forzatura che deve servire per scoraggiare, ma contemporaneamente per portare su di sé possibili “grandi elettori” ed aggregare componenti, con l’idea di dire “l’avversario non è qui dentro ma la fuori”.
Ciò significa tutt’altro rispetto ad una rinuncia alla resa dei conti interna. Renzi vuole che quelle minoranze accettino la sfida, per ridimensionarle oggi, ridimensionarne il peso interno (in termini di numeri in assemblea e direzione) e per poter anche ridurre (fortemente) la loro presenza e rappresentanza parlamentare.
Se sommiamo insieme tutti questi fattori, e concentriamo tutte queste sfide del prossimo semestre, quello schema che abbiamo descritto all’inizio – che appare semplice e lineare – comincia ad esserlo un pò meno.
Riuscire a portare a casa un risultato forte entro marzo, tra mille difficoltà e imprevisti, può essere il passo più semplice. Ma che accade se la legge elettorale non è quella giusta, o se Governo e parlamento trascinano le cose sino a settembre o peggio sino a febbraio 2018?
Quali nuovi scenari verrebbero aperti da un segretario che non può “incassare a breve e ripagare e garantire a brevissimo” il credito politico che cerca?
Logoramento di segreteria, lontananza (anche mediatica) da Palazzo Chigi, rafforzamento di ministri – ed anche dei renziani di ferro – nonché una campagna elettorale permanente di oltre un anno non sono sport in cui pare Matteo Renzi brilli particolarmente.
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Italicum o perché in Italia è così difficile fare una legge elettorale
Partiamo da alcuni concetti e consideriamoli assunti per semplicità.
L’Italia aveva bisogno di una legge elettorale, per troppi motivi, che tutti abbiamo conosciuto e che la Consulta solo alla fine ha sancito in sentenza. Ed oltre quei motivi ve ne sono altri, di senso comune, oltre all’individuale opinione politica. Ciò tuttavia non può significare automaticamente che “qualsiasi” legge elettorale “vada bene”. E qui c’è un vizio patologico del nostro paese, almeno dai tempi di Crispi.
La legge elettorale non è pensata “in sé”, in quanto tale, e come strumento di rappresentazione proporzionale della società. Dietro concetti come governabilità e stabilità, la maggioranza del momento scrive una legge elettorale “per il futuro” che tende a disegnare i futuri rapporti di forza, non tanto a garantire la adeguata rappresentatività.
Vi sono alcune considerazioni da fare, e bene ha sintetizzato nella sua analisi quotidiana dei TG Alberto Baldazzi “1) da circa un anno e mezzo la Consulta ha intimato ad un Parlamento in buona parte delegittimato perché eletto con una legge incostituzionale di cambiarla; 2) alla rielezione “forzosa” di Napolitano il vecchio-nuovo Presidente aveva esplicitamente chiesto la riforma; 3) nei 14 mesi e nelle 3 letture intercorse la riforma è stata più volte “riformata” e 3 volte votata ( 2 al Senato e 1 alla Camera), per altro senza voti di fiducia e con l’esplicito appoggio di Forza Italia; 4) le opposizioni che oggi hanno deciso di non partecipare al voto criticano l’Italicum da posizioni tra loro opposte; 5) la minoranza Pd (che oggi si è espressa con 45 “no” nella votazione finale) è legittimamente ma altrettanto chiaramente impegnata in una battaglia interna che poco ha a che fare con i contenuti della legge. Avremmo molto apprezzato se qualche TG avesse chiarito ai teleutenti questi scarni elementi, ma anche stasera non è successo.
”
Particolarmente efficace Alessandro Gilioli, che sul suo blog su l’Espresso esordisce “Si dice spesso che i Costituenti optarono per un potere molto distribuito perché venivano dal fascismo, cioè da una dittatura personale, quindi erano scottati da quel precedente così recente e tragico: per questo, si dice, insistettero tanto sul carattere ampiamente parlamentare della nuova Repubblica (addirittura mille eletti!), si inventarono contrappesi come il bicameralismo e la Consulta, addirittura non vollero che il primo ministro si chiamasse così bensì ‘presidente del consiglio’… Io non sono così sicuro che i Costituenti avessero distribuito il potere solo perché uscivano dal Ventennio. Forse, un po’, anche perché conoscevano bene il popolo di cui facevano parte. E volevano preservarlo da se stesso, dalle sue frequenti cadute personalistiche, dai suoi emotivi e carsici innamoramenti per l’uomo forte.
”
E nell’era in cui siamo tutti figli della politica americana per come ce la raccontano le serie tv trasmesse dalle televisioni commerciali (ormai tutte), in cui conta l’efficacia della comunicazione individuale e personale (da Renzi a Grillo a Salvini) al di là del contenuto, e di certo storcendo tutti il naso al metodo, ormai il nostro “presidente del consiglio” si chiama “premier”, e il metro che conta è l’indice di gradimento personale, non certo politico.
Quello che emerge è sostanzialmente una mancanza di lungimiranza e visione – al di là del personalismo e del sondaggio del momento – e la mancanza di coerenza sistemica di “dove porta una riforma” senza un contesto e uno scenario complessivo da disegnare, che appunto dovrebbe essere l’Italia del futuro.