L’incertezza a poche ore dal voto in Francia

Domenica 23 aprile si vota per il primo turno ed è già certo che nessuno degli 11 candidati raggiungerà il 50 per cento più 1 dei voti validi. Partita solo parzialmente rinviata quindi al prossimo 7 maggio quando si terrà un secondo turno tra i due contendenti più votati.
La lunga campagna elettorale segnata dalle primarie dei socialisti e dei repubblicani, è stata movimentata e caratterizzata da un sali-scendi di percentuali, di sondaggi altalenanti, di colpi di scena, e soprattutto molti scandali.
E questo è il primo dato che sta caratterizzando le campagne elettorali dell’era digitale in occidente, che sembrano delineare almeno tre caratteristiche comuni nella comunicazione e propaganda politica.


La prima, una forte connotazione sull’immagine personale più che sui contenuti propositivi.
La seconda, consequenziale, più che uno scontro e un confronto sui programmi e le alleanze politiche, le campagne si connotano sempre più – anche grazie al web – come una “propensione a scavare nel torbido” e abbattere l’immagine positiva del candidato (con veri o falsi o relativi scandali, sempre più personali e non necessariamente politici).
La terza, la rincorsa su parole chiave comuni e di interesse diffuso, più che su slogan e temi propri e caratterizzanti.


Queste tre caratteristiche allontanano i temi della politica e riconducono le competizioni elettorali su un appiattimento anche lessicale condizionato fortemente dai fatti di cronaca.
Fatta eccezione per la seconda guerra mondiale – e negli Stati Uniti durante la guerra in Vietnam – mai prima d’ora le questioni sovranazionali (dall’Europa al rapporto con la Russia di Putin alle questioni legate al terrorismo internazionale e all’interventismo).


I maggiori candidati i campo sono cinque.



Il socialista Benoit Hamon, il vincitore (a sorpresa) delle primarie dello scorso novembre. Il Psf, al governo dal 2012, rischia oggi di ottenere uno dei risultati peggiori di sempre, al di sotto addirittura del 10% al primo turno. Da una parte il peso dell’eredità di uno dei governi con il più basso gradimento politico mai registrato, dall’altra l’incapacità di Hamon, sono considerate le cause principali della crisi dei socialisti. Tanto che l’ala moderata del partito (tra cui Manuel Valls, lo sconfitto illustre delle primarie) si è gradualmente spostata verso Macron e molti elettori di sinistra si sono avvicinati al più radicale Mélenchon.


La vera sorpresa di questa campagna elettorale sembra essere proprio Jean-Luc Mélenchon, “campione” dell’estrema sinistra con un passato nelle fila del Psf, abbandonato nel 2008 per divergenze con Ségolène Royal. E’ proprio nel 2008 che fonda il nuovo Partito della Sinistra e nel 2009 viene eletto all’Europarlamento.
Nelle ultime settimane le sue quotazioni hanno subito un’improvvisa accelerata – complici le buone performance televisive, i comizi super-affollati e una proposta politica decisamente radicale sia in materia economiche che sociali – tanto che diverse rilevazioni lo danno ormai stabilmente intorno al 20%, a giocarsi la sua France insoumise la terza piazza.


Un favorito c’è ed è Emmanuel Macron. Ex ministro dell’Economia tra il 2014 e il 2016 con il governo Valls, 39 anni, Macron ha lasciato il Partito socialista per fondare En Marche! (In cammino!) il suo movimento che viene considerato “di centro” perché pesca sia dalla tradizione di sinistra in termini di diritti e da quella liberale di destra in termini di politiche economiche. Strenuo sostenitore dell’Unione Europea, è il candidato che ha giovato maggiormente degli scandali che hanno colpito il candidato gollista Fillon.


Il vero “deluso” di questa campagna elettorale è sicuramente François Fillon, candidato del principale partito di centrodestra che alle primarie ha sbaragliato la concorrenza, tra gli altri, di Alain Juppé e dell’ex presidente Nicolas Sarkozy. Esponente dell’ala destra dei Républicains, veniva considerato il migliore antidoto all’avanza dell’estrema droit di Marine Le Pen.
A segnare negativamente la sua campagna elettorale è stato lo scandalo legato al compenso che per anni ha garantito alla moglie Pénélope per il ruolo di assistente parlamentare da lei di fatto mai svolto. Il fatto ha avuto una presa enorme sull’opinione pubblica, tanto che in molti hanno chiesto (inutilmente) a Fillon di fare un passo indietro a favore di Juppé.


Infine Marine Le Pen. La leader del movimento anti-sistema, anti-euro e anti-immigrazione ha concrete possibilità di raggiungere il ballottaggio, quattordici anni dopo il padre Jean-Marie, largamente sconfitto poi da Jacques Chirac. La figlia del fondatore del Front National è l’unica a cui i sondaggi hanno sempre attribuito una delle prime due posizioni necessarie per accedere al secondo turno.


Il vero dato di queste elezioni è che ci sono ben cinque candidati chiusi tra il 23% e il 18% del gradimento degli elettori. 
Questo determina una forte incertezza perché gli indecisi sono tanti anche a poche ore dal voto.
Questa indeterminazione è dovuta proprio a quei fattori che ho richiamato prima: appiattimento delle posizioni, una forte campagna personale e spesso a ribasso giocata sugli scandali altrui, e sulla non originalità dei programmi.
Sono tutti “nello stesso posto” a declinare le stesse parole e i medesimi temi programmatici.
L’unico dato che appare certo è che la Le Pen è chiusa nel suo “massimo risultato possibile” e che non si discosterà molto da quel 23/25%. difficilmente arrivando al ballottaggio potrà far convergere su di sé i voti e le preferenze di elettori di qualsiasi degli altri 4 candidati, che invece è abbastanza certo confluiranno sullo sfidante.


Quello che resta però sul tappeto è che sembra intravvedersi una tendenza – anche nella politica consolidata francese – a campagne elettorali che non consentano una espressione di candidature così forti o autorevoli da reggere l’impatto di governo e poi ripresentarsi per un secondo mandato.
E questo è un chiaro segnale della debolezza della politica nell’era dei populismi.

La politica e i mass media, un rapporto problematico

Il nuovo villaggio globale è sempre più simile ad un mondo “iperinformato” in cui spesso è difficile orientarsi, in cui la domanda di informazione viene spesso confusa con l’offerta di opinione, ed in cui mancano gli strumenti di discernimento e di individuazione del corretto confine tra ciò che è fatto, ciò che è notizia, ciò che è informazione e ciò che è opinione. Eppure, nella nostra cultura, è solo attraverso un corretto processo informativo che può trovare le sue basi quella coscienza e consapevolezza attraverso cui il cittadino esercita i suoi diritti, risponde e chiede conto dei doveri, e determina la vita dei processi democratici.


Qualsiasi sia quindi il medium di cui parliamo, occorre essenzialmente una riflessione critica sul sistema dell’informazione e dei mass media, su come spesso attraverso un legame non sempre chiaro e limpido la politica trasforma se stessa in fenomeno mediatico e il sistema dell’informazione diventa un pezzo della comunicazione politica, spesso quello centrale e determinante, ed in cui il web, lungi dall’avere una propria dimensione autonoma, finisce con l’essere territorio di amplificazione di questo o quel messaggio.
Tutto questo pone seri problemi a quei sistemi che si definiscono democratici.
 Innanzitutto problemi di accesso, legati ad esempio all’utilizzo del mezzo televisivo come medium principale della comunicazione di massa.


L’esasperazione della politica per media-eventi e l’eccesso di cultura dello scandalo riducono la possibilità di accesso per eventuali nuovi soggetti politici, e questo anche quando il rapporto diretto tra sistema televisivo, governance e governo non pongano vere e proprie barriere a tale accesso.
Se questo non è tanto rilevante in un sistema di tipo anglosassone, dove regole di deontologia professionale consolidate come “pezzi intrinsechi del sistema democratico” lasciano ancora prevalere il principio per cui “una notizia è una notizia” (e quindi anche i candidati con poche chance concrete hanno comunque un minimo accesso al sistema informativo), in altre democrazie questo principio (e la sua conseguente garanzia) è decisamente più labile.


Ciò pone un problema quindi oggettivo per il pluralismo democratico anche in considerazione della capacità di “raccolta fondi” necessaria ad ogni azione di ogni soggetto politico.
Pochi ad esempio sanno che negli Stati Uniti esiste comunque un sistema di finanziamento pubblico per concorrere anche alla carica presidenziale. Tuttavia quel sistema pone il candidato ad un bivio: ricorrere al finanziamento pubblico esclude completamente la possibilità di raccolta di fondi privati. E dato che in quel sistema i secondi sono decisamente superiori ai primi, difficilmente qualcuno ricorre alla soluzione pubblica.


In sistemi a democrazia meno partecipata (finanziariamente) il limite all’accesso alla comunicazione/informazione di massa limita enormemente la capacità di raccolta fonti e di organizzazione politica. 
E questo è un dato che possiamo anche leggere tenendo conto di ciò che avviene quando il sistema politico e sociale nel suo complesso arriva a un punto di rottura.
 È il caso della Spagna, come dell’Italia, della Grecia e di quasi tutti i paesi colpiti dalla recente crisi economica. Qui sostanzialmente il sistema dei vecchi partiti per decenni ha impedito l’accesso all’informazione come forma di comunicazione politica, di fatto “alimentando l’esistenza di se stessa” semplicemente impedendo che emergessero nuovi leader o nuove formazioni politiche.
 In termini di marketing veniva di fatto limitata la conoscenza di una più ampia gamma di “offerta politica” all’interno del sistema, obbligando i cittadini a scelte forzate tra quelli che venivano presentati come gli unici partiti/schieramenti possibili.
 Al variare delle condizioni economiche, e quindi sociali, del sistema paese nel complesso considerato, l’emersione di “partiti nuovi” è stata dirompente: non in tutte le direzioni della reale offerta politica, ma favorendo esclusivamente quei partiti con una forte connotazione populista e con un messaggio/programma fortemente virale e viralizzabile, spesso abbinato alle nuove forme dei media emergenti (come il web e i social network) che hanno integrato e talvolta sostituito pesantemente i tradizionali canali dell’informazione e della comunicazione.


Questa dirompenza – che va da Tsipras al Movimento 5 stelle a Podemos ma anche ai partiti neonazisti nei paesi dell’est europa come all’ UKIP in Inghilterra e al Salvinismo e Lepenismo italiano e francese (come possiamo notare ben oltre ogni idea di omogeneità e attraverso percorsi ideologici e sociali e programmatici eterogenei) – non ha nulla di politico nel senso tradizionale del termine ma va a riempire alcuni vuoti sostanziali dei partiti politici tradizionali.


Un’Europa che si è trasformata profondamente ed in un tempo complessivamente estremamente ridotto non ha avuto una classe politica capace di accompagnare, gestire e comunicare queste trasformazioni: la paura del nuovo e l’incertezza conseguente, amplificata dagli effetti della crisi economica e finanziaria globale, hanno semplicemente ricondotto ampie fasce dell’elettorato a questi soggetti che avevano alcune caratteristiche semplici ed immediatamente riconoscibili: lontananza dai partiti tradizionali, novità, non essere stati parte di alcun governo precedente, una forte critica all’Europa ed alle sue istituzioni e simboli, un forte richiamo alla tipicità locale/regionale/nazionale, una proposta politica basata sulla disintermediazione politica e una maggiore partecipazione e coinvolgimento diretto.


Il resto lo hanno fatto i “vecchi partiti”: gestendo poco e male la crisi, sottovalutando i fenomeni “esterni” alla tradizione della mediazione parlamentare, non comprendendo la domanda che veniva posta alla politica e snobbando elitariamente i nuovi soggetti politici che si affacciavano sulla scena.
 Un errore non solo di comunicazione che di fatto ha consolidato, trasformato e radicalizzato la forza di tutti questi partiti.
E tuttavia questa apparente “rivoluzione” che si è spesso nutrita di “web come nuovo medium” e morte dei media precedenti, era in sé – da un punto di vista della comunicazione politica – una farsa, un opportunismo che è stato presto compreso dai soggetti stessi della comunicazione e dell’informazione. 
Se guardiamo oggi ciò che avviene nei sistemi dell’informazione politica tradizionale possiamo osservare – sia quantitativamente che qualitativamente – come le nuove star dei programmi di giornalismo ed informazione politica siano proprio i “soggetti esterni” alla cd. politica dei partiti.
 Lanciati e sostenuti dalla propria organizzazione di supporters in rete, i rappresentanti di tutti questi nuovi soggetti politici sono i veri fenomeni tele-mediatici, capaci di sollevare spesso le sorti dello share dei tradizionali talk-show politici.


Se Donald Trump vale da solo il 50% dello share delle trasmissioni dei dibattiti delle primarie repubblicane americane, non sono da meno in Italia Salvini o Di Battista (per non citare la partecipazione di Grillo a Porta a Porta – segno inequivocabile che la televisione era e resta il medium per eccellenza per la politica di massa), per non parlare della Le Pen in Francia che può dettare tempi e condizioni per qualsiasi intervista, o di come ha riposizionato se stesso Varoufakis dopo le dimissioni da ministro delle finanze in Grecia.