Kurt Cobain, il frontman dei Nirvana, avrebbe compiuto oggi 50 anni.
Il rumore assordante che gli si era creato attorno non era più sopportabile.
Kurt Cobain non era quella maledetta rockstar in rivolta col mondo, non era estetismo il suo malessere, non era neppure desiderio di conoscenza mediatica, era dolore.
Soffriva terribilmente di ulcera, dolore che placava con l’eroina.
Così, il mistero, l’insoddisfazione, l’immagine alla quale non poteva assomigliare, finirono per decidere la sua sorte.
Era il periodo di una Terza Ondata femminista, delle Hole, di Courtney Love, del Girl Power.
Erano gli anni ’90, le droghe, la musica.
Si toccavano temi importanti, caldi, temi scomodi come quello dello stupro, dell’aborto, della misoginia.
Basti pensare all’ultimo album dei Nirvana, In Utero, e al testo di Rape Me che cita così:
“Rape me, rape me my friend
Rape me, rape me again
I’m not the only one“.
Cobain compose Rape Me con una chitarra acustica a Oakwood nel 1991 mentre mixava l’album Nevermind, il singolo doveva essere una commistione di accordi tra Smells Like Teen Spirit e Polly.
Il 9 settembre del 1992, i Nirvana decisero di portare Rape Me agli MTV Video Music Awards dato che avrebbero potuto suonare qualsiasi cosa, così come MTV aveva detto loro, ma così non fu.
MTV decise che i Nirvana avrebbero dovuto suonare Smells Like Teen Spirit, così Kurt Cobain pensò di non esibirsi più.
Per non ledere altri artisti legati alla loro etichetta discografica, i Nirvana salirono sul paco con Lithium ma, mentre s’accingevano a suonare, iniziarono a intonare Rape Me.
Causato il panico “per dare [ad MTV] un piccolo sobbalzo al cuore”, continuarono con Lithium.
Il tema dello stupro era già stato toccato con Polly nella quale si dava voce allo stupratore a differenza di Rape me, canzone nella quale ad avere voce è la vittima.
Rape Me è un inno alla vita, è un inno a non cedere alla violenza, a non farsi abbattere dai soprusi bensì a combatterli.
Cobain confidò alla rivista Spain che il significato del singolo ruotava attorno a un concetto come questo:” Violentami, va’ avanti, violentami, picchiami. Non mi ucciderai mai. Sopravviverò e sarò io a violentare te uno di questi giorni, e tu nemmeno lo saprai“.
Sempre vicino a idee e movimenti femministi, si è più volte dichiarato favorevole a mantenere l’aborto tra le pratiche lecite, evidenziando la frustrazione che provano molte giovani donne nel dover dare alla luce un figlio sapendo di non potere (o volere) prendersene cura.
Scriveva così nei suoi diari:” La realtà di chi cerca di abortire in questo paese è veramente pietosa in questo momento per colpa di Randall Terry e della sua gestapo antiabortista che si raduna nelle chiese avvolta nella miglior mimetica possibile (in poliestere da classe medio bassa venduta nelle telepromozioni del canale di acquisti per la casa). Nella casa di Dio, la Operation Rescue (la graziosa associazione no profit di Terry) escogita nuove idee per far fronte alla propria missione divina di personcine timorate di Dio. Entrano illegalmente nelle cliniche dove si fanno aborti durante le ore d’ufficio, facendo finta di essere dei clienti e fanno scoppiare delle bombe che rilasciano un gas che penetra, rovinandolo, in ogni singolo strumento all’interno della clinica. Mettono chiodi nei parcheggi di impiegati e medici. Fanno di continuo telefonate minatorie. Stanno fuori dalle cliniche tutto il giorno con dei cartelli e urlano frasi violente e minacciose sulla sapienza di Dio a chiunque si trovi entro un miglio di distanza, spesso bloccando fisicamente l’entrata alle clienti. Sì, queste persone hanno una storia di crimini alle spalle. Hanno l’abilità del cecchino e del terrorista. Sono molto più avanti del loro nemico in questo gioco. Rubano feti dai raccoglitori delle cliniche e si passano di casa in casa i feti mutilati per immagazzinarli nel congelatore dentro i sacchetti di plastica o in garage. I feti marci e in disfacimento vengono poi tirati addosso ai senatori i, parlamentari o qualunque rappresentante del governo che sia democratico. Queste persone, che altro non sono che terroristi, nutrono le stesse convinzioni dei White Suprematist, che pretendono come loro di agire e nutrire i propri ideali nel nome di Dio. Espongono nomi e numeri di telefono delle clienti che hanno preso appuntamento per abortire e dei medici che intendono eseguire l’intervento. Hanno una rete computerizzata di informazioni disponibili in tutti gli Stati Uniti. […]
Oggi nello Stato della Florida non ci sono medici che praticano aborti né cliniche dove essere ricoverati. […]
La loro logica è questa: meglio ammazzare esseri umani vivi e pensanti piuttosto che cellule in crescita prive di stimoli e incoscienti, rinchiuse in una tiepida cavità“.
Magari Kurt Cobain è davvero il Jhon Lennon degli anni ’90, magari lo sarebbe stato.
Magari avrebbe toccato temi sempre più scomodi, avrebbe dato sostegno alle teorie e alle pratiche di genere, magari oggi avrebbe festeggiato 50 anni.
Buon compleanno, Kurt Cobain.
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Frances Bean da Kurt Cobain e Courtney Love a Marc Jacobs: è la musa della SS ’17
“Ho incontrato Frances Bean per la prima volta quando aveva due anni. Correva l’anno 1994 e ci trovavamo al Bar Six di New York, dove stava cenando con la madre e Anna Sui. Ho sempre voluto lavorare con Frances. La sua bellezza, unicità e forza sono qualità che ho ammirato e rispettato a lungo. Poche cose rimangono costanti nella mia vita quanto la mia continua ammirazione nei confronti delle persone che grazie alla loro integrità, al loro coraggio e alla loro curiosità si sono trovati ad esplorare territori rimasti inesplorati spingendosi oltre i limiti convenzionali“, ha scritto Marc Jacobs sul suo account Instagram a proposito della sua nuova musa: Frances Bean.
Labbra pronunciate, sguardo profondo, ciocche sul viso.
Frances Bean possiede gli stessi tratti fisiognomici di suo padre, Kurt Cobain, appena conosciuto o, forse, mai conosciuto davvero.
Frances aveva solo 20 mesi quando il frontman dei Nirvana si tolse la vita nel 1994 ed è da allora, da quel punto di non ritorno, che s’è vista crescere senza un padre.
“Kurt era arrivato al punto da sacrificare ogni piccola parte di sé a favore della sua arte perché era quello che il mondo gli chiedeva. Credo che questo sia stato uno dei fattori scatenanti. Sentiva di non voler essere qui e che tutti sarebbero stati più contenti senza di lui. Ma se avesse continuato a vivere io avrei avuto un padre. E penso che sarebbe stata un’esperienza incredibile per me“, ha spiegato in un’intervista a Virgin Radio.
Sulla figura emblematica e misteriosa di questa giovane donna di 24 anni insiste Marc Jacobs facendo di lei la promotrice e l’immagine della collezione Primavera/Estate ’17 scattata dal fotografo David Sims.
L’intensa malinconia e l’inquietudine sono le caratteristiche di una campagna turbolenta come il rapporto di Frances con sua madre Courtney e il ricordo dell’assenza della figura paterna.
E ancora in scena a vestire i panni di una generazione che rifiuta le proprie origini e non si riconosce in esse è la mancata partecipazione emotiva alla musica dei Nirvana, la band portavoce di quella generazione X che vide la luce negli anni del grunge.
“Non mi sono mai piaciuti tantissimo i Nirvana. E mi dispiace per le persone che si occupano di promozione. Sono sempre stata più interessata ai Mercury Rev, Oasis, Brian Jonestown Massacre. Non sono mai stata molto attratta dalla scena grunge. Ma devo dire che Territorial Pissings è una bellissima canzone e Dumb mi fa piangere ogni volta che l’ascolto. E’ una versione di Kurt, del suo rapporto con le droghe e del sentirsi inadeguato nel dover essere il portavoce di una generazione“, ha rivelato la nuova musa di Marc Jacobs: Frances Bean.