India oggi. 17 fotografi dall’Indipendenza ai giorni nostri 

India oggi. 17 fotografi dall’Indipendenza ai giorni nostri 

a cura di Filippo Maggia

11 novembre 2023 – 18 febbraio 2024
Magazzino delle Idee
Corso Cavour, 2 | Trieste

Dall’11 novembre 2023 al 18 febbraio 2024 il Magazzino delle Idee di Trieste presenta India oggi. 17 fotografi dall’Indipendenza ai giorni nostri, a cura di Filippo Maggia, prodotta e organizzata da ERPAC – Ente Regionale per il Patrimonio Culturale del Friuli Venezia Giulia, prima mostra a raccogliere e a presentare a livello europeo settant’anni di fotografia indiana in un unico grande progetto espositivo composto da oltre 500 opere tra fotografie, video e installazioni.

Attraverso racconti visivi, esperienze, testimonianze e indagini, India oggi traccia un percorso storico-sociale che muove dal Mahatma Gandhi e dal decennio immediatamente successivo all’indipendenza dall’Impero britannico nel 1947 fino ai nostri giorni. Dal passato postcoloniale all’affermazione fra le maggiori economie internazionali, la mostra testimonia la radicale trasformazione di cui è protagonista il subcontinente indiano, forte di uno sviluppo esponenziale che deve fare i conti con profonde contraddizioni e disuguaglianze sociali. A cogliere i molteplici aspetti di questa evoluzione, fra tradizione e cambiamento, è lo sguardo fotografico di diciassette artisti in mostra: Kanu Gandhi, Bhupendra Karia, Pablo Bartholomew, Ketaki Sheth, Sheba Chhachhi, Raghu Rai, Sunil Gupta, Anita Khemka, Serena Chopra, Dileep Prakash, Vicky Roy, Amit Madheshiya, Senthil Kumaran Rajendran, Vinit Gupta, Ishan Tanka, Soumya Sankar Bose, Uzma Mohsin.

Autori affermati e nuovi protagonisti della fotografia indiana contemporanea, interprete sempre più attenta e profonda del presente e del prossimo futuro che contraddistinguono il subcontinente indiano.

“Il processo di repentina e inarrestabile evoluzione economica e industriale in atto in India dalla fine dello scorso millennio – scrive Filippo Maggia nel suo testo di introduzione al catalogo – sta provocando gravi conseguenze sia sociali, quali questioni di genere, identità e religione, sia ambientali. L’inevitabile spopolamento delle campagne e delle zone rurali, dalle pendici dell’Himalaya sino all’estremo sud del Kerala, ha portato al sovraffollamento di metropoli quali Mumbai, Nuova Delhi o Calcutta, con un forte impatto sull’ambiente, che alle volte implica addirittura lo spostamento coercitivo di milioni di persone da una regione all’altra. È di questi temi che si occupa oggi principalmente la fotografia indiana, ormai emancipata dall’immagine tradizionale dell’esotica India colorata di salgariana memoria”.

La mostra presenta le opere dei 17 artisti seguendo un ordine cronologico che avanza per decenni, dalla metà del ventesimo secolo fino al nuovo millennio, lasciando poi ampio spazio ai lavori degli autori contemporanei. Un racconto fatto attraverso le immagini che gli artisti hanno scattato vivendo l’esperienza diretta, del momento consapevolmente partecipato e restituito attraverso la fotografia, adottata in questo caso come testimone. Nel percorso espositivo ogni autore viene introdotto da uno statement che descrive la genesi e lo sviluppo della ricerca del lavoro svolto.

Completano la mostra 15 interviste audio video realizzate in India lo scorso marzo con gli artisti. 

Si parte da Kanu Gandhi, nipote del Mahatma, che ha ritratto in pubblico come in privato Mohandas Karamchand Gandhi negli anni in cui professava la disobbedienza civile, viaggiando in treno da una città all’altra e incontrando politici e militanti, raccogliendo emozionanti immagini dell’India impaziente nel volersi affrancare dal dominio britannico, pronta e solerte nel seguire il suo leader e abbracciare l’attivismo nonviolento da lui esercitato.

Con Bhupendra Karia, insegnante, teorico, curatore (partecipa alla fondazione dell’International Center of Photography di New York con Cornell Capa) la fotografia assume nuove valenze: nell’esplorazione dell’India rurale post indipendenza, visitando piccole città e villaggi, Karia associa a un’indagine di carattere antropologico e documentaristico personali riflessioni sulle sfide sociali, politiche e ambientali che il subcontinente dovrà ora affrontare. Gli anni Settanta sono gli anni di formazione di Pablo Bartholomew: Outside In è la sua narrazione in prima persona di dieci anni trascorsi tra Delhi, l’allora Bombay, e Calcutta con l’entusiasmo e l’incoscienza caratteristici di un ventenne affamato di vita, di strada, di esperienze, proiettato verso la scoperta e la sperimentazione, abile nell’inventarsi inchieste in ambiti sociali sovente difficili da fronteggiare.

A cavallo tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta Ketaki Sheth annota sulla pellicola 35 millimetri la metamorfosi in atto già da qualche anno a Bombay a seguito del boom edilizio e del massiccio arrivo di immigrati da altri stati indiani, attratti dalla forza propulsiva della metropoli del Maharashtra. Le sue immagini fortemente contrastate coniugano tradizione e cambiamento, in un classico esercizio di street photography dove l’uomo è sempre al centro.

Manifesto esplicito di un primo importante cambiamento nel Paese è il lavoro di Sheba Chhachhi, attivista e cronista del movimento femminista indiano. Particolarmente interessante è la serie Seven Lives and Dreams avviata all’inizio degli anni Novanta, in cui la Chhachhi, con la collaborazione di sette donne, abbandona l’approccio reportagistico per riflettere sulla natura del reale comunemente percepito in un esercizio di stage photography. Raghu Rai, considerato oggi unanimemente uno dei maestri della fotografia indiana (dal 1977 è membro dell’agenzia Magnum, ove fu introdotto da Henri Cartier-Bresson), riunisce nelle sue fotografie i quattro decenni che intercorrono tra gli anni Sessanta e il Duemila. La sua narrazione per immagini del subcontinente indiano, pur scorrendo secondo un registro documentaristico che annovera non a caso i celebri reportage su Madre Teresa di Calcutta o il disastroso incidente industriale di Bhopal del 1984, presta molta attenzione alla costruzione formale della scena ripresa.

Nel nuovo millennio la fotografia indiana inizia a circoscrivere il proprio campo d’indagine affrontando temi e questioni urgenti come, ad esempio, i diritti della comunità LGBT. Diari privati, raccolte di immagini e album fotografici pazientemente assemblati negli anni: così si presentano i lavori di Sunil Gupta, Anita Khemka,

Serena Chopra e Dileep Prakash, storie individuali che assumono valore universale. Anita Khemka ci ricorda che gli Hijra (transessuali) esistono da secoli nella sottocultura del subcontinente indiano, tanto da essere sovente citati nei racconti della tradizione popolare e in letteratura. Sono tollerati e vivono di espedienti, in diversi casi riunendosi fra loro in comunità dirette da un guru. Nepal, Pakistan, Bangladesh e India hanno riconosciuto gli Hijra come appartenenti a un terzo sesso transgender. Per oltre due decenni la fotografa ha seguito l’evoluzione di Laxmi che ha fatto carriera in politica, e oggi presenta la sua vita in un’installazione che vuole restituire il personaggio per quello che è, nella sua naturale schiettezza e genuinità, oltre la diversità.

Serena Chopra per otto anni ha frequentato il campo profughi di Majnu ka Tilla, raccogliendo immagini e testimonianze sonore, scritti e disegni realizzati dagli esuli tibetani. Il suo non è solo un diario, ma un contenitore di memorie e un termometro generazionale, utile a misurare quanto la cultura tibetana riesca a sopravvivere e tramandarsi di generazione in generazione pur lontano dal proprio Paese d’origine. 

Dileep Prakash ha speso oltre due anni viaggiando e visitando diverse comunità, con l’obiettivo di capire quanto il legame fra due differenti culture perduri vivo e autentico. In particolare, ha indagato sulle eredità postcoloniali, le comunità anglo-indiane formatesi nel corso di un secolo di commistioni fra inglesi e indiani. I suoi ritratti, più che riprendere uomini, donne, giovani e anziani, coppie e nuclei familiari, sono frutto di attente osservazioni ambientali e valutazioni collettive.

Vicky Roy scappò di casa all’età di undici anni e visse per le strade di New Delhi fino a che venne salvato da un’organizzazione no profit che lo aiutò e lo sostenne negli studi. Il suo lavoro come fotografo affronta un dramma irrisolto e di costante attualità della società indiana: sono oltre dieci milioni i bambini indiani orfani o abbandonati che vivono per strada mendicando, vittime di abusi e sfruttamento. Le sue fotografie restituiscono un’immagine piena di vita e di speranza di questi adolescenti, vogliono essere un appello per riuscire a dare loro un futuro, soddisfare le loro speranze e sogni.

Amit Madheshiya nelle sue fotografie ritrae i volti perduti, stupiti e rapiti di indigeni che assistono alla proiezione di film sotto tendoni improvvisati di cinema itineranti. Sono in gran parte allevatori di bestiame e agricoltori e rappresentano l’altra faccia dell’India contemporanea, quella che vive nei villaggi e assiste, impotente, alla grande trasformazione in atto nel subcontinente. Di loro trattano anche i lavori di Senthil Kumaran Rajendran, Vinit Gupta, Ishan Tanka e Soumya Sankar Bose

Al centro del lavoro di Senthil Kumaran Rajendran c’è la difficile convivenza fra tigri e umani, un conflitto causato da fattori quali l’aumento demografico e i conseguenti nuovi insediamenti (sono circa 56.000 le famiglie che vivono all’interno delle riserve naturali), la deforestazione, il ricollocamento delle 3.000 tigri selvatiche indiane in spazi sempre più contenuti, in condivisione o ai confini con i campi coltivati, i pascoli del bestiame, fiumi e laghi dove si pratica la pesca.

L’installazione multimediale di Vinit Gupta è un invito per la costituzione di una coscienza ecologica collettiva capace di opporsi ai crescenti interessi industriali che stanno distruggendo l’ambiente, sconvolgendo identità, memorie e tradizioni di intere comunità fino ad allora vissute in perfetta armonia con la natura. Nel suo lavoro, Vinit Gupta testimonia le lotte condotte dalle popolazioni indigene della città mineraria di Singrauli.

Ishan Tanka vuole testimoniare le proteste dei jal satyagrahis e degli adivasi: i primi si oppongono alla costruzione di un imponente progetto di sbarramento per la costruzione di dighe e conseguente allagamento di terre e spostamento di centinaia di migliaia di persone, i secondi lottano contro lo sfruttamento delle loro terre ricche di carbone e ferro.

Per non dimenticare, e per ricordare quanto il passato ciclicamente ritorni con le medesime modalità, ragioni e obiettivi, Soumya Sankar Bose ha ricostruito attraverso testimonianze dirette orali e video, ripercorrendo i luoghi e incontrando i superstiti, il cruento e disumano massacro di Marichjhapi, a Sundarban, nel Bengala occidentale, perpetrato dalle forze di polizia contro i rifugiati bengalesi di casta inferiore nel 1979.

Uzma Mohsin con il suo coraggioso lavoro dall’emblematico titolo Songkeepers analizza i meccanismi che regolano la protesta civile, e soprattutto le conseguenze che questa azione provoca oggi in India. Il fatto che il dissenso sia considerato al pari di “slealtà, antinazionalismo e sedizione” come lei stessa rammenta, è un indice estremamente allarmante per la tenuta democratica di una nazione.

“Per un’India che avanza, dunque, che morde affamata il domani, ce n’è un’altra che soffre, tenuta in disparte a guardare e subire i danni collaterali che il progresso e la necessità di avere largo consenso popolare portano con sé – conclude Filippo Maggia – Come sarà l’India del prossimo decennio, quando siederà al tavolo con le altre potenze economiche mondiali? Hum Dekhenge. Hum Dekhenge, recita in lingua urdu una poesia di Faiz Ahmad Faiz. Vedremo, vedremo…”.

Gli artisti in mostra: Kanu Gandhi, Bhupendra Karia, Pablo Bartholomew, Ketaki Sheth, Sheba Chhachhi, Raghu Rai, Sunil Gupta, Anita Khemka, Serena Chopra, Dileep Prakash, Vicky Roy, Amit Madheshiya, Senthil Kumaran Rajendran, Vinit Gupta, Ishan Tanka, Soumya Sankar Bose, Uzma Mohsin.

Quanto è grande il web

La percezione che abbiamo del web, della sua grandezza, dei siti “che contano”, della rilevanza dei contenuti, è basata essenzialmente su “ciò che noi vediamo”.
Quando parliamo di web, in altre parole, è come se facessimo una sineddoche della rete: riteniamo che “quella parte” che noi osserviamo, su cui navighiamo, che ci interessa, sia anche “il tutto”, ovvero non solo quello che riteniamo noi, i nostri concittadini, i nostri co-linguisti, i nostri “simili occidentali”, riteniamo rilevante.
Siamo finanche portati a pensare che il web sia un fenomeno prettamente occidentale, riservato a noi “che abbiamo la libertà”, e che in fondo – per quanto potenzialmente numerosi – “gli altri” abbiano poco a che fare con la rete. Se non (semmai) in quei casi in i cui colossi cinesi delle vendite online “stanno in rete”, e anche in questo caso, secondo noi, in una chiave tutta rivolta a consumatori e cittadini occidentali.
Infine – e on è di poco conto – consideriamo la nostra rete più libera, trasparente, finanche sicura, e a prova di privacy.
Questa percezione però, è vera?


Intanto in termini quantitativi assolutamente no.
Tra i primi 25 siti internet visitati al mondo, ben 8 sono cinesi e 2 russi. Tra i primi 50, 20 non sono occidentali.
Mentre tuttavia quasi un 30% dei navigatori dei primi 15 siti occidentali (per esempio Google, Youtube, Bing) sono russi, cinesi, indiani, gli utenti degli otto siti cinesi e due russi sono praticamente solo locali.
Questo significa che mentre “loro conoscono noi”, noi sappiamo ben poco on solo di loro, ma anche delle sintassi, della rilevanza, dell’informazione e dell’interazione “made in Asia”. Anche se quello per noi è il mercato più grande, ed anche se noi siamo “il loro mercato di riferimento”, ed anche se rappresentano la metà della popolazione mondiale.


Il web russo e cinese, in particolare, è certamente “molto controllato”, esistono filtri e software di mappatura che lasciano molto poco spazio alla privacy. Se questo è vero va anche ricordato che mentre quello è un controllo “governativo” – che spesso da risultati anche nella lotta alla corruzione, alla criminalità, al terrorismo – quello che viviamo noi, silente, e nella nostra inconsapevole corresponsabilità, è una appropriazione, archiviazione, manipolazione, gestione e rivendita sistematica dei nostri dati da parte di aziende private, e non solo per fare business e scegliere per noi le inserzioni che vediamo e le notizie che dobbiamo leggere.


Tra le convinzioni da sfatare per esempio c’è quella secondo cui “i siti delle nostre aziende sono più sicuri per i consumatori”.
Da noi eventuali condanne per condotta scorretta da parte di un’azienda sarebbero coperte da privacy, accordi di riservatezza, sepolti da azioni di comunicazione… e informazioni negative sulle nostre aziende sarebbero difficili da trovare, in quella che consideriamo “una rete trasparente e publica”.
In Cina ogni sito internet si chiude con molti link “istituzionali”.


Questo è il footer di sohu.com – 24° sito per traffico al mondo, ottavo in Cina.


Quanto è grande il web


Questo è il footer di sina.com.com – 18° sito mondiale e quinto in Cina.


Quanto è grande il web


Infine questo è QQ.com – 8° sito mondiale e secondo in Cina.


Quanto è grande il web


Francamente non so quanti siti occidentali sarebbero disposti a mettere in così chiara evidenza tanti link “di trasparenza” sul proprio operato. Tra questi addirittura uno diretto alla “polizia postale” per denunciare eventuali frodi o contenuti illeciti.


Tra i vari link è interessante “monitoring di rete”.
Cliccando su quel link si accede a tutta una serie di informazioni immediate, tra cui tutti i dati sul titolare del sito, l’amministrazione, la capitalizzazione, i contatti, un form per reclami e segnalazioni ad un’autorità terza.
Ma c’è un link ancora più sorprendente – anche perché si raggiunge con estrema facilità – ed è questo
dove nelle “informazioni finanziarie”, oltre a nomi e cognomi degli azionisti con le rispettive quote di partecipazione, controvalore in Yuan, incarichi aziendali, seguono tutte le sanzioni e multe e cause legali intentate da consumatori e aziende (nel caso specifico per violazioni sulle norme di pubblicità e concorrenza).


Ci sono profonde differenze nel web, e qualche volta potrebbe essere davvero utile “fare un giro” fuori da quello che – secondo la nostra percezione – è tutto il web.
Certo, non tutto ci piacerà, dalla grafica a una certa aggressività di notizie e pubblicità, e certamente molte cose non incontrano il nostro “gusto occidentale”.
Però potrebbe anche accadere che potremmo farci venire qualche buona idea, ad esempio in termini di pubblicità e trasparenza, anche made in Cina.
Non so quante aziende avrebbero piacere a vedere online immediatamente raggiungibile una scheda come quella su QQ.com, ma credo che per i consumatori si, sarebbe utile e davvero trasparente. Forse molte delle nostre scelte cambierebbero.