Le creazioni surrealiste di Delfina Delettrez

Suggestioni surrealiste, visioni oniriche che ricordano l’arte dei più grandi, da Picasso a Salvador Dalí, si uniscono a dettagli pop art, per creazioni moderne, futuriste e sofisticate: Delfina Delettrez non ha certo bisogno di presentazioni. Artista apprezzata a livello internazionale, la giovane rampolla di casa Fendi ha già alle spalle tanti successi.

Personalità esplosiva e rara sensibilità artistica, Delfina è l’ultima erede della dinastia Fendi, di cui rappresenta la quarta generazione. La ragazza ha carattere da vendere, e rifiutare un posto nell’azienda di famiglia per inseguire la propria strada è solo fisiologico sbocco di un’esigenza naturale che si impone attraverso la spontanea e dirompente creatività dell’artista. È il 2007 quando Delfina esordisce come designer, presentando la sua prima collezione da Colette, a Parigi, tempio dello stile. Le sue creazioni catturano immediatamente l’attenzione, grazie ad un’estetica nuova, caratterizzata fin dagli esordi da un vasto uso di iconografie surrealiste e naturaliste: mani, occhi, bocche fanno capolino da collane e monili pregiati, insieme ad api ed elementi naturali.

Gioielli dal fascino ieratico, quasi degli amuleti declinati in chiave rock, talismani dal sapore vittoriano e dal design futurista; scenografici e al tempo stesso intimisti, a volte ermetici, più spesso ironici, i gioielli firmati Delfina Delettrez si caratterizzano per un appeal originale e per il forte impatto visivo, in un continuo gioco di rimandi e citazioni. Grandi occhi scuri dall’espressività struggente, Delfina ci porta nel suo immaginario, tra teschi e mani scheletriche, che sembrano indagare l’Unheimlich, il perturbante, il lato oscuro che alberga in ognuno di noi.

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Delfina Delettrez è l’ultima erede della dinastia Fendi
Photo by Danko Steiner
Delfina Delettrez in uno scatto di Danko Steiner

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Suggestioni surrealiste ed oniriche caratterizzano le creazioni di Delfina Delettrez


Alla base della ricerca stilistica della giovane designer vi è un sapiente connubio di antiche tecniche orafe ed una costante ricerca attraverso l’uso di materiali innovativi. Sperimentazione sembra essere la parola chiave delle ultime collezioni, che vedono la pietra preziosa tornare alla ribalta, protagonista assoluta di collezioni che ancora una volta si ispirano ad un surrealismo indagato in chiave cyber, attraverso un audace gioco di illusioni ottiche, per gioielli che sembrano sospesi sul corpo, grazie ad appositi cantoni fantasma. L’antica tradizione artigianale italiana si sposa ad una visione post atomica, senza rinunciare alla cura per il dettaglio realizzato a mano. Creazioni cinetiche dal fascino atemporale e dalle suggestioni post-apocalittiche, come i bracciali e gli anelli “Tourbillon”, costituiti da centri concentrici in metallo prezioso che roteano in maniera autonoma l’uno dall’altro, ma anche bracciali e collane estendibili, che inaugurano una nuova visione del gioiello, che ora è possibile manipolare e trasformare a seconda dell’occasione. Via del Governo Vecchio, a Roma, è la sede dell’atelier di Delfina, una fucina di idee e progetti sempre nuovi, per una carriera in continua ascesa.

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Foto Vogue.it
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Occhi, mani e bocche fanno capolino da gioielli che uniscono l’antica tradizione orafa ad un’audace sperimentazione

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Visioni post atomiche si impongono tra tocchi futuristi e citazioni vintage


Tanti sono i riconoscimenti che la giovane è riuscita ad ottenere, affermandosi come una dei più promettenti designer della nuova generazione. Sicura di sé, forte di una personalità dirompente, nel 2010 le creazioni di Delfina Delettrez sono entrate a far parte della collezione permanente del Museo delle Arti decorative del Louvre di Parigi. Innumerevoli le personali dedicate alla sua opera, tra installazioni futuriste e tocchi vintage, nel segno dell’antica tradizione orafa italiana. I suoi gioielli sono tra i più amati dalle celebrities, a partire da Madonna, Anna Dello Russo e molte altre. Elegante ed impeccabile, Delfina non sbaglia un colpo e con i suoi look si è imposta anche come icona di stile, mentre una sua boutique è stata inaugurata a Mayfair, Londra. Le sue creazioni sono online sul sito www.delfinadelettrez.com.

Maxime de la Falaise, icona bohémien

L’aria vispa e sbarazzina, i capelli alla garçonne, la vita a dir poco rocambolesca: Maxime de la Falaise è stata un’icona fashion, trendsetter tra Londra, Parigi e New Tork e sublime incarnazione dello stile bohémien. Mannequin durante gli anni Cinquanta, matriarca di una lunga generazione di modelle, stilista, e, ancora, critica gastronomica ed interior designer: con una carriera così versatile, la mannequin si impone di diritto come una delle personalità più affascinanti del Novecento.

Immortalata da fotografi del calibro di Richard Avedon, Georges Dambier, Gordon Parks, Cecil Beaton e Horst P. Horst, fu musa di Elsa Schiaparelli e di Yves Saint Laurent. Tutto in lei faceva tendenza: dai suoi look, all’insegna di una disinvolta eleganza, alla sua casa, arredata in stile shabby-chic. Nel 2004 l’Independent la definì una delle più grandi icone di stile viventi, ma già l’amico Cecil Beaton nei lontani anni Cinquanta l’aveva eletta “l’unica inglese veramente chic della sua generazione”.

Maxine Birley (questo il suo nome all’anagrafe) nacque in una famiglia di artisti il 25 giugno 1922 a West Dean, nel West Sussex. Suo padre era Sir Oswald Birley, famoso ritrattista dalla fine dell’età edoardiana che aveva immortalato personalità del calibro di Sir Winston Churchill, la regina Elisabetta II e altri membri della famiglia reale. Oswald, dopo aver prestato servizio nella Prima Guerra Mondiale, aveva sposato una bellissima quanto eccentrica artista irlandese, molto più giovane di lui, Rhoda Lecky Pike.

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Maxine Birley nacque il 25 giugno 1922 a West Dean, nel West Sussex


Maxime de la Falaise in uno scatto di Clifford Coffin, 1949
Maxime de la Falaise in uno scatto di Clifford Coffin, 1949


Maxime de la Falaise immortalata da Richard Avedon, Parigi, 1948
Maxime de la Falaise immortalata da Richard Avedon, Parigi, 1948


Maxime de la Falaise in Balmain, 1950
Maxime de la Falaise in Balmain, 1950


Maxime La Falaise indossa un abito e un cappellino di Jacques Fath, foto di Richard Avedon, Parigi, gennaio 1948
Maxime La Falaise indossa un abito e un cappellino di Jacques Fath, foto di Richard Avedon, Parigi, gennaio 1948


I Birley erano bohémien di lusso, proprietari di un appartamento nell’elitario sobborgo di Hampstead, a nord di Londra, il cui interior design era stato curato da Clough Williams-Ellis. Più tardi i coniugi acquistarono anche la magnifica residenza di Charleston Manor, nell’East Sussex, che Rhoda riuscì a recuperare dallo stato di rovina in cui versava e che si dice sia stata costruita nell’Undicesimo secolo per il coppiere di Guglielmo il Conquistatore. Mentre Oswald ritraeva nobili, politici e artisti, Rhoda si occupava di giardinaggio e organizzava cene lussuose. La coppia ebbe due figli, Maxine e il fratello minore Mark (futuro fondatore del nighclub Annabel’s). I bambini crebbero in solitudine, spesso abbandonati dai genitori, perennemente in viaggio tra India e Sud-est asiatico, Messico e Stati Uniti. La piccola Maxine viveva a Wexford con i nonni irlandesi e spesso, in assenza della madre, rubava i capi eccentrici del suo guardaroba, che prediligeva capi di stile orientale uniti a pezzi haute couture firmati Elsa Schiaparelli. Nelle memorie che inizierà a scrivere poco prima della sua morte, Maxime de la Falaise ricorderà la madre come un’eccentrica lady irlandese che nutriva le sue rose con un misto di aragosta e cognac.

Chiusa, di indole solitaria e spesso nervosa, allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale la giovane Maxine decise di unirsi al Women’s Royal Naval Service ma alla fine fu reclutata dal Bletchley Park, dal momento che parlava francese. “Il khaki non mi stava poi così bene, a differenza del blu”, dirà più avanti a proposito delle uniformi delle due diverse milizie. Ma quell’esperienza sarà poi ricordata con sgomento dall’icona di stile. I quartier generali erano sporchi e freddi, la continua tensione danneggiò la sua salute al punto che la giovane sviluppò una grave forma di cleptomania, rubando qualsiasi cosa brillasse. “I miei amici capirono che ero impazzita”, ricordò, “e guardavano nella mia borsa per riprendersi ciò che apparteneva loro”. Successivamente Maxine fece ritorna a Londra ma i suoi genitori le dissero che non c’era più posto per lei in quella casa e la spedirono in America, nella speranza che trovasse un marito benestante in grado di provvedere a lei.

Maxime de la Falaise in Schiaparelli, foto di Gordon Parks, 1949
Maxime de la Falaise in Schiaparelli, foto di Gordon Parks, 1949


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Maxime de la Falaise fu immortalata da fotografi del calibro di Richard Avedon, Cecil Beaton, Gordon Parks, Georges Dambier


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Maxime de la Falaise fu musa di Elsa Schiaparelli e di Yves Saint Laurent


Maxime de la Falaise in Schiaparelli, foto di Gordon Parks, 1949


Maxime de la Falaise ritratta da Cecil Beaton, anni Trenta
Maxime de la Falaise ritratta da Cecil Beaton, anni Trenta


Maxime de la Falaise in una campagna pubblicitaria Modess, foto di Cecil Beaton,  1950
Maxime de la Falaise in una campagna pubblicitaria Modess, foto di Cecil Beaton, 1950


Maxime de la Falaise in Christian Dior Haute Couture
Maxime de la Falaise in Christian Dior Haute Couture, foto di Norman Parkinson


A New York la giovane ottenne un lavoro per Vogue ed iniziò una relazione con un fotografo che lavorava per la celebre testata. Ma fu durante un party che conobbe il conte Alain Le Bailly de la Falaise, più vecchio di lei di venti anni, di cui divenne la seconda moglie con un matrimonio celebrato il 18 giugno 1946. Scrittore e traduttore, La Falaise era il fratello minore di Henry de la Falaise, regista e terzo marito di Gloria Swanson, e il figlio della medaglia d’oro olimpica nella scherma Louis Venant Gabriel Le Bailly de La Falaise.

Dal conte Maxime ebbe due figli: Louise Vava Lucia Henriette Le Bailly de La Falaise (detta Loulou) e Alexis Richard Dion Oswald Le Bailly de La Falaise, e nipoti come Lucie de la Falaise, modella molto quotata negli anni Novanta.

È in questo periodo che la futura icona di stile cambiò il suo nome in Maxime, dopo il trasferimento a Parigi. Sebbene colto e affascinante, il conte non si rivelò in grado di provvedere alla famiglia, e fu lei a doversi occupare di salvaguardare le finanze. Fu così che ottenne un lavoro come mannequin e venditrice per Elsa Schiaparelli: il suo ruolo doveva essere quello di una sorta di musa che doveva incoraggiare le vendite. Il suo fisico ricordava quello della madre, i capelli erano corti e scuri, gli zigomi alti, il corpo sottile, e aveva nello sguardo una grande vivacità. Come modella ottenne un successo sempre crescente e lavorò anche per Dior. Ma Maxime era uno spirito libero e ben presto il suo matrimonio naufragò a causa delle sue numerose infedeltà. Il divorzio fu sofferto e la donna dovette combattere per ottenere la custodia dei figli, spediti in collegio tra Inghilterra, New York e Svizzera. Tra gli amanti di lei, l’ambasciatore britannico Duff Cooper e numerose liaisons. Dopo il divorzio ebbe una relazione con il regista Louis Malle, più tardi amore di Jeanne Moreau, e con il pittore Max Ernst.

Maxime de la Falaise in una foto di Horst P. Horst, Vogue, Aprile 1950
Maxime de la Falaise in una foto di Horst P. Horst, Vogue, Aprile 1950


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Secondo Cecil Beaton Maxime de la Falaise fu l’unica inglese chic della sua generazione


Maxime de la Falaise, Bal Goya, foto di Georges Dambier, Biarritz, Francia, 1951


Maxime de la Falaise sulla Vespa, Francia, foto di Walter Carone
Maxime de la Falaise sulla Vespa, Francia, foto di Walter Carone


Maxime de la Falaise posa sulle sponde dell'Arno, Firenze,  1952
Maxime de la Falaise posa sulle sponde dell’Arno, Firenze, 1952


Maxime de la Falaise in Robert Piguet, Parigi, luglio 1950, foto di Norman Parkinson
Maxime de la Falaise in Robert Piguet, Parigi, luglio 1950, foto di Norman Parkinson


Maxime de la Falaise in un abito da sera Jacques Fath, Harper's Bazaar, 1948
Maxime de la Falaise in un abito da sera Jacques Fath, Harper’s Bazaar, 1948


Maxime de la Falaise in una blusa di Marcel Rochas. Foto di  Philippe Pottier, 1950
Maxime de la Falaise in una blusa di Marcel Rochas. Foto di Philippe Pottier, 1950


La contessa in Balenciaga, foto di Philippe Pottier, 1950
La contessa in Balenciaga, foto di Philippe Pottier, 1950


Trasferitasi a New York alla fine anni Cinquanta, convolò in seconde nozze con John McKendry, curatore delle stampe e delle foto del Metropolitan Museum of Art. In questo periodo Maxime, che cambiò il suo nome in Maxime de la Falaise McKendry, iniziò a lavorare come food editor, ottenendo una rubrica su Vogue, con aforismi che fecero storia. Ma anche la relazione con McKendry nascondeva dei segreti: secondo i rumours lui perse la testa per il giovane genio della fotografia Robert Mapplethorpe mentre lei iniziò una relazione con Paul Getty III, toy boy ante litteram che aveva oltre trent’anni meno di lei. Erano gli anni in cui l’icona di stile si scatenava sulla pista della famosissima discoteca Le Jardin, a New York. Dopo ore passate a ballare insieme a Diane von Fürstenberg, Bianca Jagger, Yves Saint Laurent e Betty Catroux, alle 4 del mattino tornava a casa con un taxi indossando un cappotto e pantaloni Yves Saint Laurent o un LBD da nascondere sotto il cappotto, uniforme passepartout per imbucarsi al party più esclusivo. Amante della vita, genuina e moderna, nessuna incarnò lo spirito boho-chic meglio di lei.

Maxime de la Falaise,1953, foto di Alexander Liberman
Maxime de la Falaise,1953, foto di Alexander Liberman


Maxime de la Falaise in uno scatto del 1955
Maxime de la Falaise in uno scatto del 1955


Maxime de la Falaise in una foto di Cecil Beaton
Maxime de la Falaise in una foto di Cecil Beaton


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Maxime de la Falaise nel 1977. Credit Larry Morris/The New York Times


Maxime e Lucie de la Falaise
Maxime e la nipote Lucie de la Falaise


McKendry morì di cirrosi epatica nel 1975 e la storia tra Maxime e John Paul Getty III naufragò. Intanto l’icona di stile si dedicava alle molteplici attività che svolse nel corso della sua vita, in primis la food editor, e poi la designer di moda (haute couture, sportswear e ready-to-wear), l’interior designer (creando mobili e tappeti) e la consulente di Yves Saint Laurent negli USA.

Il successo riscontrato dagli aforismi che pubblicava su Vogue la spinse a raccogliere le ricette inglesi e irlandesi della sua infanzia in un libro dal titolo Sette secoli di cucina inglese (Weidenfeld & Nicolson, 1973, edito da Arabella Boxer), ristampato nel 1992 da Grove Press. Inoltre curò i menu per Andy Warhol e il suo entourage. Su di lei quest’ultimo modellò l’idea per un format mai sviluppato, una sorta di reality ante litteram sul cibo. Nel 1980 scrisse Food in Vogue, con illustrazioni di suo pugno, collezionando le ricette più amate dalle celebrities. Inoltre nel 1974 il regista Paul Morrissey la scelse per il personaggio di Lady Difiore nel film horror del 1973 Blood for Dracula.

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Uno scorcio dell’appartamento di New York di Maxime de la Falaise, venduto negli anni Novanta


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Un altro scorcio dell’appartamnto newyorkese della contessa, arredato in stile boho-chic


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Fu la stessa Maxime de la Falaise ad arredare il suo appartamento di New York


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Maxime de la Falaise nel suo appartamento arredato in stile bohémien


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Maxime de la Falaise si è spenta il 30 aprile 2009, all’età di 86 anni


Mentre la figlia Loulou divenne musa prediletta di Yves Saint Laurent, Maxime continuava la sua brillante carriera come designer: nel corso dwlla sua vita disegnò collezioni per numerose maison, da Gérard Pipart a Chloé. Alla fine degli anni Ottanta si ritirò in una casa a Saint-Rémy-de-Provence per scrivere le sue memorie. Qui morì per cause naturali, il 30 aprile 2009, all’età di 86 anni. Il figlio Alexis la precedette, mentre la figlia Loulou morirà nel 2011 a seguito di un brutto male.

(Foto cover Getty Images)


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Mona von Bismarck: quando lo stile diviene leggenda

Mona von Bismarck: quando lo stile diviene leggenda

Ci sono donne la cui eleganza ha attraversato indenne i secoli, arrivando fino ai nostri giorni. Una straordinaria bellezza, una vita avventurosa e uno stile inimitabile sono gli ingredienti che hanno reso la contessa Mona von Bismarck un’autentica leggenda. La sua prodigiosa scalata sociale la portò a sposare uomini facoltosi e a condurre un’esistenza lussuosa, mentre la sua bellezza e la naturale eleganza la resero intramontabile icona di stile.

Presenza fissa dell’International Best Dressed List, musa di fotografi e pittori, socialite e protagonista del jet set internazionale, la vita patinata di Margaret Edmona Travis Strader Schlesinger Bush Williams von Bismarck-Schönhausen de Martini fu il vero capolavoro stilistico forgiato da lei stessa, caparbia e all’occorrenza spietata virago, che creò dal nulla un’immagine capace di attraversare i secoli.

Nata a Louisville, in Kentucky, il 5 febbraio 1897, Mona Travis Strader era di umili origini. Suo padre, Robert Sims Strader, era uno stalliere presso la fattoria Fairland, a Lexington, di proprietà di Henry James Schlesinger. L’infanzia della piccola Mona fu segnata dal divorzio dei suoi genitori, nel 1902. Lei e il fratello Robert andarono a vivere dapprima con la nonna materna e successivamente con la nonna paterna. Non furono giorni facili per i due fratellini: la nonna materna fu dichiarata pazza e mandata in manicomio, come anche un altro congiunto. Uno zio di Mona sparò ad una prostituta prima di suicidarsi, ed un altro morì durante una battuta di caccia.

Mona von Bismarck all'età di 59 anni in uno scatto di Cecil Beaton, 1956
Mona von Bismarck all’età di 59 anni in uno scatto di Cecil Beaton, 1956. Foto Condé Nast Archives


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Mona von Bismarck in uno scatto risalente al 1948 realizzato dall’amico Cecil Beaton


Ma Mona cresceva come una donna estremamente affascinante e coltivava in cuor suo un profondo senso di rivalsa. Tanto si è scritto sulla sua bellezza, quasi idolatrata da coloro che la ritrassero: dall’amico di una vita Cecil Beaton a Horst P. Horst, da Edward Steichen a George Platt Lynes, da Salvador Dalí fino a Leonor Fini e Bernard Boutet de Monvel. Si dice che nessun quadro e nessuno scatto riuscì mai a rendere giustizia alla bellezza dei suoi occhi di zaffiro e dei suoi capelli d’argento.

Appena diciottenne la fanciulla riuscì a far capitolare Henry James Schlesinger, il signore di Fairland, la fattoria in cui il padre di Mona lavorava come stalliere.

Mona von Bismarck in una foto di George Platt Lynes, 1940


Mona von Bismarck fotografata da Edward Steichen per Vogue, 3 gennaio 1933
Mona von Bismarck fotografata da Edward Steichen per Vogue, 3 gennaio 1933


La contessa ai tempi in cui era la signora Harrison Williams. Foto di Edward Steichen per Vogue, Novembre 1928
La contessa ai tempi in cui era la signora Williams. Foto di Edward Steichen per Vogue, Novembre 1928


Mona von Bismarck in un lungo abito Balenciaga nel suo Hôtel Particulier di Parigi. Foto di Cecil Beaton, 1955


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Ancora uno scatto che immortala Mona von Bismarck nel suo Hôtel Particulier di Parigi, 1955


Mona von Bismarck in un abito Balenciaga nel suo Hôtel Particulier di Parigi ritratta da Cecil Beaton, 1955
Mona von Bismarck appare altera nello sfarzoso abito Balenciaga tra i mobili rococò del suo Hôtel particulier


Mona Travis Strader nacque a Louisville, in Kentucky, il 5 febbraio 1897


Mona con il quarto marito Edward von Bismarck in uno scatto risalente agli anni Cinquanta


Sfidando le convenzioni sociali, nel 1917 la giovane convolò a nozze con Schlesinger, che aveva vent’anni più di lei ed era considerato all’epoca l’uomo più ricco del Wisconsin. Dalle stalle alle stelle, si potrebbe dire. Ma per Mona quello fu solo l’inizio di una clamorosa scalata sociale.

La coppia si divideva tra la tenuta a Milwaukee, il Wisconsin e Fairland. Ma il matrimonio fu breve: dopo soli tre anni, nel 1920, i due divorziarono. Mona, che da quell’unione partorì il figlio Robert Henry, rinunciò alla custodia di quest’ultimo in cambio dell’esorbitante cifra di mezzo milione di dollari. Non certo una madre esemplare, ma forse anche in quella mantide religiosa senza scrupoli qualche rimpianto per quel figlio mai amato deve pur esserci stato. Il piccolo Robert Henry sposerà poi Frederica Barker, sorella maggiore dell’attore Lex Barker.

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Occhi di zaffiro e capelli bianchi, la bellezza di Mona von Bismarck era leggendaria


New York, New York, USA --- 12/2/1940-New York, NY: Mrs. Harrison Williams, one of society's best dressed women, is shown in her box at the Metropolitan Opera here, at the opening performance of the 1940-41 season. --- Image by © Bettmann/CORBIS
Mona Harrison Williams al Metropolitan Opera, febbraio 1940. — Foto di © Bettmann/CORBIS


Mona von Bismarck posa per l’amico di una vita Cecil Beaton, 1932


Mona von Bismarck. Foto di Cecil Beaton. Vogue, 1 luglio 1939


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Mona von Bismarck è stata una socialite ed una icona di stile


Dopo il divorzio Mona si trasferì a New York. Non ci volle molto perché quella bellissima ragazza dagli occhi di ghiaccio trovasse un nuovo marito. Solo l’anno seguente, nel 1921, Mona convolò a nozze con il banchiere James Irving Bush, che aveva 14 anni più di lei ed era considerato all’unanimità uno degli uomini più attraenti del Paese. Ma il matrimonio durò appena tre anni e nel 1924 Mona ottenne il divorzio a Parigi.

Nel 1926 la futura icona di stile si getta in una nuova avventura, aprendo un negozio di abbigliamento nella Grande Mela, insieme alla sua amica Laura Merriam Curtis, figlia di William Rush “Spooky” Merriam, un vecchio Governatore del Minnesota. Laura era stata fidanzata con Harrison Williams, considerato l’uomo più ricco d’America, con una fortuna stimata intorno ai 680 milioni di dollari, equivalenti agli attuali 8 miliardi di dollari. Scaltra e consapevole del proprio fascino, Mona fiuta subito la succulenta occasione ed inizia a tessere una tela attorno a Williams. Lui, 24 anni di più, non può resistere: è così che il 2 luglio 1926 i due convolano a nozze. Per la luna di miele i novelli sposi si regalano una crociera sullo yacht di Williams, considerato la barca più costosa e più grande del mondo, dal nome quantomai appropriato: “Warrior”, il guerriero.

Mona sembra avere finalmente trovato la felicità: Williams la ricopre di regali costosi e di attenzioni. Durante la loro luna di miele la coppia fa scalo in numerosi porti tra Cina, Giappone e i Mari del Sud. Si ritiene che durante questo viaggio Williams acquistò per Mona il famigerato zaffiro, passato alla storia come lo zaffiro Bismarck, e poi donato dalla futura contessa alla Smithsonian Institution: pare che l’acquisto sia avvenuto nel porto di Colombo, in Sri Lanka. Inoltre i coniugi acquistarono molte perle nei Mari del Sud, e anche queste costituiscono oggi parte dell’eredità della socialite.

Mona von Bismarck by Cecil Beaton for Vogue, 1936
Mona von Bismarck ritratta da Cecil Beaton per Vogue, 1936


Mona von Bismarck by Cecil Beaton for Vogue, 1936
Un’altra foto di Cecil Beaton, Vogue, 1936


Mona von Bismarck amava i cani. Eccola immortalata qui con il suo Mickey


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Mona Bismarck con una collana di smeraldi firmata Cartier e il suo cagnolino. Foto di Cecil Beaton, 1938


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Eccentrica e sofisticata, Mona von Bismarck nel 1933 fu dichiarata la donna più elegante del mondo.


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Foto di Cecil Beaton, 1936


Durante quella crociera l’attenzione di Mona si concentrò su una dimora a picco sul mare che capeggiava la Marina Grande di Capri. La villa giaceva in stato di abbandono ma il fascino di quel rudere aveva radici assai lontane: nel 27 a.C. l’imperatore romano Tiberio aveva fatto costruire nel golfo di Capri 12 ville, ognuna dedicata a una divinità dell’Olimpo. Dove un tempo sorgeva una di queste ville si trova oggi Il Fortino: la villa, acquistata da Mona von Bismarck nel 1938, deve il suo nome al periodo dell’occupazione francese dell’isola di Capri, quando, sotto Gioacchino Murat, venne costruito un fortino di avvistamento. Originariamente costruito sulle rovine del palazzo imperiale di Cesare Augusto, poi ristrutturato sotto Tiberio e poi edificato dal pittore ungherese Hahn nel corso dell’800, il Fortino ha una vista mozzafiato sulla scogliera e un parco che si staglia su due livelli. Su tutto l’edificio si erge una torre medievale merlata. Costituita da quattro case indipendenti (Casina dei Fiori, la Palazzina degli Ospiti, la Palazzina dei Camerieri e Villa Mona), oggi la villa è considerata una tra le residenze più esclusive al mondo, meta del turismo più elitario.

Rientrati a New York, i coniugi acquistarono la residenza in stile georgiano sulla 94esima Strada e l’appartamento sulla Quinta Strada con l’interior design di Syrie Maugham. Inoltre possedevano una proprietà a Long Island chiamata Oak Point con interior design di Delano & Aldrich e una casa a Palm Beach, oltre alla villa di Capri, dove Mona si dilettava col giardinaggio, una tra le sue più grandi passioni.

L’ossessione di Mona per l’haute couture inizia durante il suo matrimonio con Harrison Williams. Il suo amore per il bello la portava a collezionare mobili risalenti al 18esimo secolo, mentre l’immensa disponibilità economica del marito le poteva finalmente garantire il tenore di vita che aveva sempre sognato. Anche dopo aver perso la maggior parte dei suoi investimenti durante il crollo del 1929, Williams resta un uomo ricchissimo e può offrire alla sua splendida consorte una vita da favola.

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Mona von Bismarck e Randolph Churchill insieme nel club El Morocco, New York, anni Cinquanta


Mona von Bismarck and Jacques de la Beraudiere, 1938
Mona von Bismarck e Jacques de la Béraudière, 1938


Mona von Bismarck by Peter Stackpole, 1950s
Mona von Bismarck in uno scatto di Peter Stackpole, anni Cinquanta


Jo Davidson and Mrs. Harrison Williams (Mona von Bismarck) by Peter Stackpole, 1950s
Jo Davidson e Mona Williams immortalati da Peter Stackpole, anni Cinquanta, LIFE Magazine


Per Mona è la consacrazione ufficiale: accanto a Wlliams riesce finalmente a brillare. I due formano una coppia da copertina e lei è ricercatissima dalle riviste patinate, che se la contendono: appare diverse volte su Vogue e su Harper’s Bazaar, immortalata come la nuova dea del jet set statunitense. Bellissima, riesce a rendere sexy la sua canizie precoce; ha lineamenti aristocratici e il portamento è altero, ma l’espressione austera cede talvolta il posto al più amichevole dei sorrisi, specialmente quando Mona brilla in società. Nel circolo dei suoi amici figurano membri dell’aristocrazia europea e teste coronate, statisti, politici, artisti, designer, attori, scrittori e molto altro.

Nel 1933 Mona viene nominata “La donna meglio vestita del mondo” da una giuria che comprendeva couturier del calibro di Chanel, Molyneux, Vionnet, Lelong, e Lanvin. È la prima volta che un’americana ottiene questo prestigioso riconoscimento, seguita l’anno successivo dalla duchessa di Windsor e nel 1935 da Elsie de Wolfe. Inoltre nel 1958 Mona von Bismarck compare sulla Hall of Fame della International Best Dressed List.

Il suo stile prediligeva Chanel, Mainbocher, Lanvin, Vionnet, Molyneaux, Lelong, e soprattutto Balenciaga, di cui fu cliente storica e musa per ben trent’anni. La contessa trovò in Cristóbal Balenciaga un autentico mentore che la iniziò alle magie della moda. Tra i due nacque un vero e proprio sodalizio stilistico: lei musa e lui geniale interprete di creazioni che ancora oggi trovano spazio nei musei. Ma la decisione da parte del couturier di chiudere il suo atelier, nel 1968, getta Mona nella più nera disperazione. Si dice che l’icona di stile si chiuse nella sua camera, nella villa di Capri, per tre giorni, rifiutando di vedere anima viva. Diana Vreeland commentò la reazione della contessa con queste parole: “Voglio dire, era pur sempre la fine di una parte della sua vita!”. Per lei era davvero la fine di un’epoca. Dopo aver superato in spese folli l’ereditiera Barbara Button, acquistando ben 150 capi di Balenciaga dopo che un treno che trainava il suo guardaroba era deragliato, alla fine si consolò con Hubert de Givenchy.

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Nel 1958 Mona von Bismarck comparve sulla Hall of Fame della International Best Dressed List.


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La contessa fu musa di Cecil Beaton, Salvador Dalí e Cristóbal Balenciaga


Mona von Bismarck by Cecil Beaton, 1958
Mona von Bismarck in uno scatto di Cecil Beaton, 1958


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Mona von Bismarck in uno scatto risalente agli anni Cinquanta


“Cosa mi importa se la signora Harrison Williams è la meglio vestita in città?”: cantava Cole Porter nel 1936 in Ridin’ High, mentre Truman Capote modellò a immagine e somiglianza della contessa il personaggio di Kate McCloud nel suo romanzo Preghiere esaudite, uscito postumo nel 1987. Nel 1943 Mona viene ritratta da Salvador Dalí. Il quadro desta scalpore in quanto la futura contessa viene dapprima ritratta nuda. Mona resta scandalizzata da cotanta audacia e si rifiuta di pagare l’artista finché non vengano aggiunti dei vestiti. Dopotutto era stata la donna meglio vestita al mondo per undici anni di fila! Alla fine lei fu una dei pochi estimatori di quel ritratto. Numerose le sue apparizioni su Vogue, la contessa viene ritratta soprattutto da Cecil Beaton, che trovò in lei la sua modella preferita ed una vera e propria musa: si tramanda che nelle sessioni fotografiche che la riguardavano, non vi era foto da scartare, data l’impressionante fotogenia della contessa. Eccentrica e sopra le righe, Mona von Bismarck aveva una vera e propria mania per i colori en pendant, e pretendeva che i suoi valletti indossassero uniformi blu quando la accompagnavano agli eventi mondani con la sua Rolls Royce blu.

Hubert de Givenchy disse di lei: “Era splendida, proprio come nel ritratto di Dalí, e aveva sedotto 5 mariti. Andava matta per le perle e ne comprò a chili durante la crociera nei mari del Sud. Nel suo appartamento di New York aveva due ascensori regolati a velocità diverse, il più veloce dei quali era riservato ai domestici, affinché potessero sempre precederla e aprire la porta al suo ingresso.

L’eccesso faceva parte di lei, mentre il suo stile può essere definito come un dandismo al femminile. Emily M. Banis, brillante studentessa presso il Fashion Institute of Technology di New York, ha dedicato alla celebre icona la sua tesi di laurea, intitolata “Mona: Portrait of a Female Dandy.” Mona era una dandy in gonnella, che modellò un’intera esistenza sul bello e su questo effimero ma potente ideale fondò il suo look e il suo lifestyle. Mona creò se stessa, sopravvivendo ad un’infanzia infelice. È vero, i detrattori sottolineano che, nonostante i suoi numerosi viaggi e le sue dimore principesche tra Parigi e Capri, non si preoccupò mai di imparare l’italiano né il francese, che non era solita leggere, e che le sue lettere probabilmente non sono un capolavoro di retorica. Ma sapeva scegliere con cura gli arredamenti, curava personalmente giardini lussureggianti, organizzava cene superbe e indossava abiti perfetti. La contessa amava nuotare, ricamare, coltivare tulipani e dedicarsi ai suoi amati cagnolini, tra i quali spicca Mickey, un bastardello che Mona adorava e che fu immortalato al suo fianco in alcuni scatti realizzati da Cecil Beaton.

Il matrimonio di Mona ed Harrison Williams durò ben 27 anni, fino alla morte di quest’ultimo, avvenuta nel 1953. All’indomani della dipartita di Williams, il New York Times recitava così: “L’unica ragione per cui gli Harrison Williams non vivevano come principi è che i principi non potevano permettersi di vivere come loro”.

Mona von Bismarck's Long Island home, Oak Point
Oak Point, la residenza di Mona von Bismarck a Long Island


La contessa nella villa Il Fortino, Capri, anni Cinquanta


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Mona von Bismarck era contesa dalle riviste patinate e apparve numerose volte su Vogue


La socialite ebbe cinque mariti


Se i primi tre mariti le diedero il denaro, è col quarto che Mona ottiene anche il titolo nobiliare a cui anelava da sempre. Nel gennaio 1955 Mona sposa il suo amico di vecchia data e confidente Albrecht Edward Heinrich Karl, conte di Bismarck-Schönhausen, un decoratore di interni di discendenza aristocratica, figlio di Herbert von Bismarck e nipote del cancelliere tedesco Otto von Bismarck. I rumours dicono che Edward sia gay. Sebbene gli sia stato diagnosticato un cancro allo stomaco, il conte vive per altri 16 anni. Il matrimonio venne celebrato con rito civile nel New Jersey e poi con rito religioso a Roma, nel febbraio 1956. I coniugi Bismarck vissero per la maggior parte a Parigi, nel famoso appartamento presso l’Hôtel Lambert, e nelle residenze di Mona, tra New York e Capri. La vediamo ritratta dal fedele Cecil Beaton nel 1955 nel sontuoso abito Balenciaga, regale tra i mobili rococò del suo hôtel particulier e i capelli pettinati in stile Pompadour.

Nel 1970 il conte Edward von Bismarck muore. Alla vigilia dei 74 anni Mona è di nuovo vedova. L’anno seguente, nel 1971, sposa il fisico di Bismarck, Umberto de Martini, a cui ella stessa dona un titolo nobiliare ottenuto dal re Umberto II di Savoia. Lei, che aveva sempre prediletto uomini molto più grandi, ora si legava a un uomo più giovane di 14 anni, destando nuovamente scandalo. Credeva che Umberto avrebbe badato a lei, ma lui aveva un’amante in Inghilterra e non era animato da sentimenti onesti: de Martini prosciugò l’eredità di Mona, inventando clamorose bugie, come la prossima apertura di una clinica, alibi per depositare ben tre milioni di dollari in una banca svizzera. Dei 90 milioni di dollari ereditati da Mona alla morte di Williams ne restavano ora solo 25. Nel 1979 Umberto muore prematuramente a seguito di un incidente automobilistico. È in quel momento che Mona realizza che de Martini l’aveva sposata solo per interesse, esattamente come lei aveva fatto con Schlesinger, Bush e Williams. A quel punto torna ad usare il cognome di Bismarck. Ormai delusa e sfiorita, vive altri 4 anni, morendo a New York il 10 luglio 1983, all’età di 86 anni. Viene sepolta a Long Island, vestita con un abito Givenchy, accanto ai due mariti Harrison Williams ed Edward von Bismarck.

L’amico storico Cecil Beaton andò a trovarla a Capri durante la vecchiaia e restò spiazzato: in lei non vi era più traccia della proverbiale bellezza che da sempre era stato il suo segno distintivo. I capelli ora erano tinti di un banale castano, la figura appesantita, lo sguardo spento. “È un relitto”, commentò a malincuore Beaton. “Ha dipinta in volto una grottesca maschera che copre ciò che resta dei suoi lineamenti nobili. Le labbra sono ingrandite come quelle di un clown, le sopracciglia disegnate con un tratto sottile di nero”, descrisse Beaton, fino ad ammettere, commosso: “Il mio cuore piange per lei”. Era il tramonto di una stella. Ora toccava scendere dalla giostra, ora toccava fare il bilancio di una vita non sempre vissuta secondo la morale comune. Ma, certamente, vissuta al massimo.

Mona von Bismarck in her rose garden at Il Fortino, her estate on Capri. Photo by Cecil Beaton. Vogue, April 1, 1967
Mona von Bismarck nel suo roseto a Capri. Foto di Cecil Beaton. Vogue, 1 Aprile 1967


Mona von Bismarck by Horst P. Horst, ca. 1941
Mona von Bismarck immortalata da Horst P. Horst, ca. 1941


René Bouché, 1936
Mona von Bismarck vista da René Bouché, 1936


Leonor Fini
Un ritratto della contessa realizzato da Leonor Fini


Salvador Dali, Portrait of Mrs Harrison Williams (Mona von Bismarck), 1943, oil on canvas, 91.7 x 61.26 cm
Ritratto di Mona von Bismarck realizzato da Salvador Dalí, 1943, olio su tela, 91.7 x 61.26 cm


Poco prima della morte, Mona aveva fondato il Mona Bismarck American Center for Art and Culture, con sede a Parigi, istituito allo scopo di promuovere le relazioni culturali tra Francia e Stati Uniti. La fondazione a suo nome registrata a New York ha ancora oggi un centro culturale a Parigi e uno spazio espositivo sito di fronte alla Torre Eiffel. Nata allo scopo di promuovere attività artistiche, scientifiche, letterarie ed educative, la fondazione negli ultimi venti anni ha organizzato più di 70 mostre, aperte al pubblico e gratuite.

Ma alla morte della contessa, il figlio Robert Henry rivendica i suoi diritti sull’eredità della madre, di quella stessa madre rea di averlo abbandonato ancora bambino, barattandolo con una cospicua buonuscita. La villa di Capri dovette quindi essere venduta, per far fronte all’eredità ora contesa.

Inoltre la contessa aveva donato nel 1976 le sue foto e parte dei suoi scritti alla Filson Historical Society. Le lettere di Mona Strader Bismarck sono datate 1916-1994 e sono costituite perlopiù dalla corrispondenza personale della contessa, e includono missive della Duchessa di Windsor, di Diana Vreeland, Gore Vidal, Randolph Churchill, Constantin Alajalov, l’illustrazione di copertina per il New Yorker e il Saturday Evening Post, e, ancora, lettere a Jean Schlumberger, Hubert de Givenchy, Cecil Beaton e molti altri. Una lettera di Constantin Alajalov era indirizzata a Mickey, che era stato anche ritratto da Alajalov. Mona amava i suoi cagnolini e ne ebbe numerosi nel corso della sua vita. Alla morte di Mickey ricevette tante lettere di condoglianze quante ne riceverà per la dipartita del terzo marito, Harrison Williams. Le lettere offrono uno sguardo intimo sulla moda e sulla società dell’epoca, come anche sulle posizioni inglesi ed europee rispetto al secondo conflitto mondiale. Bettina Bergery è destinataria e mittente di molte delle missive: costei era la modella preferita di Givenchy e moglie di Gaston Bergery, ambasciatore del governo di Vichy nell’Unione Sovietica e in Turchia.

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Abito Balenciaga appartenuto alla contessa, 1955


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Una mostra dei capi Balenciaga indossati da Mona von Birmarck


mona mona Close-up of the Bismarck Sapphire - Pendant to a diamond and platinum necklace, ©Smithsonian Institution.png
Il celebre zaffiro Bismarck donato dalla contessa al Museo di Storia Naturale della Smithsonian Institution


La Collezione Fotografica di Mona Strader Bismarck copre gli anni dal 1860 al 1979 e include i bellissimi scatti di Cecil Beaton, le foto di famiglia, dei numerosi mariti, degli amici e della contessa immortalata nel suo giardino a Capri e nel suo appartamento all’Hôtel Lambert a Parigi. Nel 1967 Mona von Bismarck aveva inoltre donato al Museo di Storia Naturale della Smithsonian Institution la collana con pendente che incorporava lo zaffiro blu dello Sri Lanka di 98.6 carati. L’istituzione rinominò in suo onore il gioiello come “La collana con zaffiro Bismarck”. Nel maggio 1986 la parte della sua eredità che comprendeva altri gioielli di valore fu battuta all’asta presso Sotheby’s a Ginevra: faceva parte di questa una sua famosa collana a due strati di perle, che fu venduta a più del doppio rispetto alla stima iniziale, per 410.000 dollari.

Nonostante gli scandali e gli eccessi, la bellezza e la vita glamour di Mona von Bismarck non sembrano essere sopravvissute alla morte di quest’ultima. Pochi scrivono di lei, sebbene sia stata una figura fondamentale in termini di stile ed eleganza; manca una biografia completa e l’unico testo degno di nota che la riguarda sembra essere “Kentucky Countess: Mona Bismarck in Art & Fashion” di James D. Birchfield. Resta la parabola di una donna che ottenne dalla vita tutto ciò che voleva, ma il cui sguardo appare triste e malinconico nella maggior parte delle foto che la ritraggono.


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Paloma Picasso: vita di un’icona

Uno sguardo magnetico dal sapore mediorientale spicca su un viso di porcellana, il cui eburneo incarnato viene sottolineato dal rossetto rosso; la figura slanciata ammicca dai cartelloni pubblicitari, ove la giovane donna bruna posa come una diva patinata. Paloma Picasso è forse una delle ultime personalità ad aver segnato il corso della moda in modo tanto potente: designer di fama mondiale, businesswoman e imprenditrice di successo, ma anche socialite, musa di stilisti ed apprezzata icona di stile, la sua carriera e la sua vita sono costellate di avvenimenti e suggestioni.

All’anagrafe Anne Paloma Ruiz-Picasso y Gilot, la futura designer nasce a Vallauris il 19 aprile 1949: origine franco-iberica, Paloma Picasso è figlia d’arte per eccellenza, essendo nata dal genio Pablo Picasso e dall’artista francese Françoise Gilot. Fin dall’infanzia le viene insegnato ad essere indipendente e a sviluppare la propria personalità, unica via per non soccombere dinanzi al peso di una figura paterna così ingombrante.

Immortalata in alcune opere del padre, come “Paloma con un’arancia” e “Paloma in blu”, tante sono le foto che tracciano un ritratto abbastanza nitido della sua infanzia, vissuta in pieno spirito bohémien, circondata da artisti ed intellettuali. La bambina che osserva l’obiettivo con i grandi occhi scuri, fotografata spesso al fianco del padre, lascia ben presto il posto ad una donna sicura di sé, seducente nel suo rossetto rosso lacca e nella sua figura mediterranea. Un raro mix di procace sensualità latina e sofisticata classe contraddistingue la futura designer fin dalla pubertà.

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Paloma Picasso è nata a Vallauris il 19 aprile 1949
Paloma Picasso ritratta a Parigi da Annie Leibovitz. 1982
Paloma Picasso ritratta a Parigi da Annie Leibovitz. 1982
Paloma Picasso ritratta da Newton, Nizza, 1983
Paloma Picasso ritratta da Newton, Nizza, 1983
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Paloma Picasso fotografata da Edward Steichen/Getty Images
Paloma Picasso ritratta da Mario Sorrenti per Vogue Paris, marzo 2009
La designer ritratta da Mario Sorrenti per Vogue Paris, marzo 2009

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Paloma Picasso è un’icona di stile, designer di gioielli e musa iconica di stilisti e fotografi


Paloma è curiosa e vivace: dopo la laurea si fa regalare dai genitori una vacanza studio a Venezia, città di cui subisce da sempre il fascino. La giovane alloggia presso la pensione Frollo, alla Giudecca, tra i suoi luoghi preferiti insieme a Dorsoduro, sede della casa di Peggy Guggenheim, amica di famiglia dei Picasso. Paloma è rapita dai colori della laguna, attraversata dal glamour internazionale ma anche dalle suggestioni tragiche e struggenti dell’opera di Thomas Mann. La Serenissima costituirà in futuro principale fonte di ispirazione per i suoi gioielli.

Indipendente e dotata di una personalità forte, la giovane spicca ben presto il volo, proprio come la colomba che le dà il nome, dal simbolo disegnato dal padre in occasione della Conferenza Internazionale sulla Pace che ebbe luogo a Parigi l’anno della nascita di Paloma.

La giovinezza della futura icona è un inno alla vita mondana, tra gli eccessi e la ribellione tipici degli anni Settanta. Sono gli anni della vita notturna e Paloma è presenza fissa allo Studio 54 di New York e al Palace parigino, dove si scatena sulla pista da ballo. Ancora giovanissima, decide di combattere la sua timidezza attraverso il suo stile, che funge quasi da coperta di Linus per lei: in breve diviene una IT girl ante litteram. Protagonista indiscussa della scena culturale e modaiola parigina, i suoi abiti sono copiati e il suo stile è imitatissimo. Tra i suoi più fedeli ammiratori spiccano nomi del calibro di Yves Saint Laurent e Karl Lagerfeld, di cui la giovane diviene musa.

Uno scatto realizzato da Pablo Picasso
Uno scatto realizzato da Pablo Picasso
Paloma Picasso presso Tiffany & Co. New York, 1980. Foto di Roxanne Lowit
Paloma Picasso presso Tiffany & Co. New York, 1980. Foto di Roxanne Lowit
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Paloma Picasso nella campagna pubblicitaria del profumo che porta il suo nome, 1984
Paloma Picasso in una sequenza di scatti realizzati da Antonio Lopez
Paloma Picasso in una sequenza di scatti realizzati da Antonio Lopez
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Paloma Picasso è la figlia più piccola di Pablo Picasso e di Françoise Gilot
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Il rossetto rosso è la firma della designer, nonché il suo marchio di fabbrica
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La carriera di Paloma Picasso iniziò come costume designer
Paloma col padre, Pablo Picasso
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Una giovane Paloma Picasso con i suoi gioielli
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Il primo a credere in Paloma fu Yves Saint Laurent, che le commissionò la creazione dei gioielli per le sue collezioni

Paloma Picasso era un'habitué delle notti al Palace durante gli anni Settanta
Paloma Picasso e Xavier de Castelle al Le Privilege, foto di Roxanne Lowit, 1983


Inizialmente riluttante ad intraprendere una carriera nel design, la giovane tenta invano di reprimere questa sua propensione naturale, temendo il confronto con l’autorevole figura paterna. Paloma sa che tanti sono gli ostacoli da superare, e che a volte la critica può essere impietosa con i figli d’arte, e lei lo è per antonomasia, essendo la figlia più piccola del maestro Picasso, uno degli artisti più influenti del Ventesimo secolo nonché padre riconosciuto del Cubismo.

La sua carriera inizia a Parigi nel 1968, come costume designer. Ma in breve la giovane sviluppa una grande passione per i gioielli, che inizia a creare assemblando strass e bigiotteria. La critica si accorge immediatamente di lei. Dopo aver frequentato un corso di design del gioiello, arriva il primo lavoro. È monsieur Yves Saint Laurent, suo grande amico, il primo a credere in lei, commissionandole una linea di gioielli da abbinare ad una delle sue collezioni.

Nel 1971 Paloma inizia una collaborazione con la casa di gioielli greca Zolotas. Ma è il 1980 l’anno della svolta, quando John Loring, vice presidente di Tiffany & Co., le chiede di creare i gioielli per il celebre brand americano. È la consacrazione ufficiale per la giovane Picasso, che dimostra un talento naturale nel creare gioielli dal design audace ed accattivante. La colomba di cui porta il nome diverrà ben presto uno tra i topos preferiti per creazioni dalle dimensioni notevoli, al punto da essere spesso conservate nelle collezioni permanenti di alcuni musei, come il Museo di Storia Naturale Smithsonian, che conserva una collana di kunzite da 396 carati, o il Field Museum di Chicago, dove si può ammirare il bracciale di selenite da 408 carati. Le sue creazioni ammaliano e il successo è internazionale: per la prima volta le persone potevano stringere un Picasso tra le mani, anche se non si trattava di un quadro.

Paloma ritratta da Helmut Newton
Paloma ritratta da Helmut Newton
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Paloma Picasso divenne una IT girl ante litteram
Paloma in Yves Saint Laurent in uno scatto di Helmut Newton, 1990
Paloma in Yves Saint Laurent in uno scatto di Helmut Newton, Venezia, 1990
Un altro scatto di Helmut Newton, trench Yves Saint Laurent
Un altro scatto di Helmut Newton, trench Yves Saint Laurent
Paloma Picasso in Yves Saint Laurent
Paloma Picasso in Yves Saint Laurent, foto di Helmut Newton
Paloma Picasso incarnò per anni una bellezza sensuale ed iconica
Paloma Picasso incarnò per anni una bellezza sensuale ed iconica
Paloma Picasso in un celebre scatto di Helmut Newton, Saint Tropez, 1973
Paloma Picasso ritratta da Helmut Newton in un abito di Karl Lagerfeld, Parigi, 1978
Paloma Picasso ritratta da Helmut Newton in un abito di Karl Lagerfeld, Parigi, 1978

Paloma Picasso in una foto di Irving Penn. Vogue, aprile 1984
Paloma Picasso in una foto di Irving Penn. Vogue, aprile 1984


Alla morte del padre, avvenuta nel 1973, la designer vive un momento di crisi, come lei stessa ha dichiarato in un’intervista al New York Times. La sua sensualità le fa ottenere in questo periodo un ruolo in un film erotico: Paloma diventa così la contessa Erzsébet Báthory, protagonista di Racconti immorali, del registra polacco Walerian Borowczyk, pellicola premiata col Prix de l’Âge d’or nel 1974: il ruolo della contessa ungherese dagli inappagabili desideri sessuali contribuisce alla fama di Paloma Picasso, che viene consacrata a vera e propria musa iconica. Una figura magnifica e un viso bello come i quadri del padre appartenenti al periodo classico sdoganano ufficialmente la nuova dea del jet set internazionale. Bruna, il viso pulito, le sue mise sono sempre impeccabili e le sue uscite ufficiali fanno notizia: Paloma Picasso si afferma in breve come icona di stile europea, comparendo sulle riviste più prestigiose e posando per i più grandi fotografi del mondo, da Irving Penn a Robert Mapplethorpe, da Andy Warhol a Horst P. Horst fino ad Helmut Newton, che forgia tramite il suo obiettivo un autentico sex symbol, immortalandola in scatti ad alto potenziale erotico. Indimenticabile la spallina che scivola giù, lascivamente, su un topless sfacciato: un’immagine forte, da vera valchiria, per altre foto in cui Paloma si erge, femmina e potente, nel buio delle strade parigine.

Nello stesso periodo avviene l’incontro con il drammaturgo argentino Rafael Lopez-Cambil, noto come Rafael Lopez-Sanchez, con cui la designer convola a nozze nel 1978. Il matrimonio è un evento: lei indossa un abito rosso, bianco e nero disegnato da Yves Saint Laurent, mentre per il ricevimento sceglie un capo di Karl Lagerfeld.

Paloma Picasso in Yves Saint Laurent, foto di Cecil Beaton, Elegance, dicembre 1979
Paloma Picasso in Yves Saint Laurent, foto di Cecil Beaton, Elegance, dicembre 1979
Paloma Picasso ritratta per Le Jardin des Modes, foto di David Seidner, 1987
Paloma Picasso ritratta per Le Jardin des Modes, foto di David Seidner, 1987
La designer in una foto del 1990
La designer in una foto del 1990
Paloma Picasso in una foto di Robert Mapplethorpe, 1980
Paloma Picasso e Carlos Martorell
Paloma Picasso e Carlos Martorell
Paloma e Yves Saint Laurent, di cui fu musa
Paloma e Yves Saint Laurent, di cui fu musa

Paloma ritratta da Andy Warhol
Paloma ritratta da Andy Warhol, 1974


Quel che permette a Paloma Picasso di affrancarsi dalla figura paterna è soprattutto il suo carisma. Il suo talento nel design e la sua indiscutibile bellezza le permettono di brillare nel fashion biz, rendendola una self-made woman, sebbene sia cresciuta in una famiglia tanto importante. Eccola posare come una top model, perfettamente a suo agio davanti all’obiettivo, pur non sfiorando il metro e sessanta, forte di una personalità invincibile. Sul sito di Tiffany & Co. è immortalata in foto dall’allure patinato, in cui indossa un cappello a tesa larga e occhiali da sole da diva, oltre ai suoi gioielli, naturalmente. Le creazioni di Paloma Picasso inaugurano un’estetica nuova per la gioielleria, che trova espressione in forme audaci e design innovativi. I suoi gioielli sono fatti per essere indossati, ribadisce più volte la designer, e spesso rendono omaggio alla Serenissima, di cui è riuscita a rappresentare i riflessi che le lanterne creano sull’acqua, i colori del Canal Grande e le suggestioni orientali di cui la città è pregna. Venezia continua a rappresentare un’insostituibile fonte di ispirazione per la designer, che ha dedicato alla città un’intera collezione, lo scorso 2011.

Dopo il lancio della sua linea di gioielli per Tiffany & Co., l’eclettica Paloma sfornò una linea di profumi, cosmetici, accessori per la casa, capi di pelletteria, occhiali da sole, e disegnò le scenografie per il marito, Rafael Lopez-Cambil. Nel 1984 lancia la fragranza che porta il suo nome. Il suo profumo parla di lei e le somiglia, trattandosi di una fragranza pensata per donne forti, proprio come lei. È Lopez-Cambil ad occuparsi del progetto, mettendo a punto la straordinaria campagna pubblicitaria, che vede la stessa designer nel ruolo di modella di se stessa. Divenuta un vero e proprio marchio di fabbrica, le foto di Richard Avedon consacrano la designer a dea della moda. Il nonno di lei, Emile Gilot, era stato chimico e creatore di profumi. Nel 1987 l’uscita della sua celebre nuance di rossetto, il Mon Rouge di L’Oréal. Nel 1992 il lancio della fragranza maschile Minotaure. Intanto la sua attività va a gonfie vele e tantissime sono le boutique che vendono i suoi prodotti, dal Giappone ad Hong Kong, fino agli Stati Uniti, l’Europa e l’Estremo Oriente.

Paloma in uno scatto di Richard Avedon per la sua linea di gioielli per Tiffany & Co., Vogue America,  novembre 1980
Paloma in uno scatto di Richard Avedon per la sua linea di gioielli per Tiffany & Co., Vogue America, novembre 1980
Paloma per Vogue America, ottobre 1987
Paloma per Vogue America, ottobre 1987
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La designer posa con i suoi gioielli
Paloma Picasso
Paloma Picasso dal 1980 disegna gioielli per Tiffany & Co.
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La designer ha avuto esperienze anche come attrice
Paloma Picasso, 1986. Foto di Toni Thorimbert
Paloma Picasso ritratta da Toni Thorimbert, 1986
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Paloma Picasso continua ad essere un’icona di stile

Paloma Picasso in uno schizzo di David Downton,1999


La sua firma è in quel rossetto rosso, dalla nuance unica, divenuto suo marchio di fabbrica. Ha dichiarato di averlo indossato ogni giorno, dai venti ai cinquant’anni. Come il padre aveva attraversato diverse fasi creative, come il periodo blu e il periodo rosa, nel caso di Paloma Picasso vi è un unico colore a rappresentare la sua intera esistenza, il rosso. Si dice che la designer iniziò a giocare col rossetto rosso a soli tre anni. E da allora questo colore sarebbe divenuto il suo segno distintivo: per non essere riconosciuta le bastava non indossarlo.

Nel 1988 Paloma Picasso ricevette un’onorificenza per il suo straordinario impatto sull’industria fashion, e fu premiata per la sua eccellenza nel design. Dal 1983 è presenza fissa dell’International Best Dressed List.
Nel 2010, per celebrare il trentesimo anniversario dall’inizio della sua collaborazione con Tiffany and Co., ha lanciato una collezione dedicata al Marocco. Dopo 21 anni il matrimonio con Lopez-Cambil naufraga: il divorzio milionario occupa le copertine dei principali tabloid. Intanto la designer continua ad ispirare la nuova generazione di designer, da Marc Jacobs a Stuart Vevers a Mark Fast, che ha dichiarato più volte di considerare Paloma Picasso la sua “vera fonte di ispirazione”. Per lei, ritiratasi in Svizzera dopo il suo secondo matrimonio con l’osteopata Éric Thévenet, l’unica icona di stile contemporanea è Michelle Obama. La designer continua a posare per le riviste; lo scorso 2009 è stata immortalata da Mario Sorrenti in un lungo abito giallo. Rosso, nero e oro sono i colori che Paloma Picasso indossa abitualmente. Il suo stile è classico, sofisticato e fortemente europeo, fatto di abiti sontuosi e dettagli importanti. Attualmente la designer vive tra Losanna e Marrakech.


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Lo stile di Lauren Santo Domingo

Se l’eleganza avesse un corpo, sarebbe sicuramente il suo: sottile ed eterea, la figura slanciata capace di esaltare qualsiasi mise, i lunghi capelli biondi che incorniciano un volto dai lineamenti squadrati. Emblema dello stile wasp americano, Lauren Santo Domingo è uno dei volti più celebri del fashion biz.

Una carriera sfolgorante ed uno stile imitatissimo l’hanno consacrata influencer e trendsetter, mentre la sua eleganza l’ha portata ad apparire sulla Hall of Fame dell’International Best Dressed List stilata dalla rivista Vanity Fair lo scorso 2015.

Figlia di un imprenditore e filantropo americano, all’anagrafe Lauren Davis, la bionda imprenditrice ha sposato lo scorso 2008 il famoso discografico colombiano Andrés Santo Domingo, divenendo cognata di Tatiana Santo Domingo e Andrea Casiraghi. Il matrimonio, atteso come l’evento più glamour dell’anno, ha tenuto banco per mesi sui tabloid di mezzo mondo. Quarant’anni il prossimo 28 febbraio, cresciuta a Greenwich, in Connecticut, Lauren, algida e bionda, sarebbe piaciuta ad Alfred Hitchcock, con quella sua eleganza un po’ gelida.

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Lauren Santo Domingo è nata il 28 febbraio 1976
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All’anagrafe Lauren Davis, nel 2008 l’imprenditrice ha sposato Andrés Santo Domingo
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Lauren Santo Domingo è contributing editor di Vogue e co-fondatrice del sito Moda Operandi

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Cresciuta a Greenwich, in Connecticut, la bionda Lauren ha sempre amato la moda


Una carriera iniziata come modella per Sassy, magazine per teenager molto in voga negli anni Novanta. L’imprenditrice ha ammesso più volte di aver desiderato da sempre di lavorare nel mondo della moda. Dopo gli studi la bionda Lauren ha messo in curriculum anche un’esperienza come PR per Oscar de la Renta, tra i suoi designer preferiti. Poi la fondazione di Moda Operandi, nel 2010, in collaborazione con Aslaug Magnusdottir, e, da lì, la consacrazione a guru della moda.

Moda Operandi si è imposto in breve come uno tra i siti web più amati dai fashion addicted di tutto il mondo: l’idea le venne guardando le sfilate di moda e sognando, da fashionista che si rispetti, di poter indossare al più presto i capi visti sulle passerelle. Il sito si distingue infatti in quanto offre la possibilità di fare acquisti senza dover aspettare i lunghi tempi di consegna normalmente previsti. M’O ha aperto diverse sedi nelle principali capitali europee, a partire da Londra. Il sito offre un’ampia selezione di capi, accessori di lusso, come la celebre Birkin Bag di Hermès, e numerose collezioni di gioielli.

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Lauren Santo Domingo è un’imprenditrice, un’influencer ed un’icona di stile
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L’imprenditrice è stata inserita dal New York Observer tra le 100 newyorkesi più influenti degli ultimi venticinque anni
Lauren Santo Domingo in pelliccia Marco de Vincenzo
Lauren Santo Domingo in pelliccia Marco de Vincenzo
Lauren Santo Domingo indossa un top Johanna Ortiz
Lauren Santo Domingo indossa un top Johanna Ortiz
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Nel 2010 Lauren Santo Domingo ha fondato Moda Operandi insieme ad Aslaug Magnusdottir

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Trench, jeans e ballerine: la quintessenza dello stile


Nel 2005 la bionda Lauren torna a far parte della redazione di Vogue, dove aveva iniziato anni prima a lavorare come editor: con la sua rubrica “APT with LSD” entra negli appartamenti delle donne più influenti del fashion biz, affermandosi anche come una delle firme più seguite e apprezzate della celebre testata.

Presenza fissa sulle riviste patinate come anche nei front row delle sfilate e nel parterre degli eventi più glamour ed esclusivi, Lauren Santo Domingo secondo il New York Observer è una delle cento newyorkesi più influenti degli ultimi venticinque anni. La bionda fashion editor e il marito Andrés formano una coppia molto glamour e sono spesso paparazzati negli eventi mondani, come illustri esponenti di quel jet set internazionale che forse oggi apparirebbe annacquato senza icone della portata di Lauren. Il suo nome, divenuto celebre -quasi un logo vivente- viene spesso abbreviato come LSD.

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Lauren Santo Domingo è musa di stilisti del calibro di Proenza Schouler, Nina Ricci ed Eddie Borgo
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La bionda fashion editor è amante delle pencil skirt e degli abiti scultura
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Lauren Santo Domingo è considerata l’ultima icona wasp
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Gonna Derek Lam e giacca paillettata Salvatore Ferragamo

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La carriera di Lauren Santo Domingo è iniziata con uno stage come PR presso Oscar de la Renta


Da anni considerata tra le donne più eleganti del mondo, musa di stilisti del calibro di Proenza Schouler, Nina Ricci e Alexander Wang, Lauren Santo Domingo è una brillante trendsetter, capace di anticipare le tendenze e fiutare i futuri talenti, tra cui Delpozo, di cui ha spesso indossato le creazioni. Fotografata da nomi del calibro di Annie Leibovitz e Mario Testino, non c’è rivista patinata in cui Lauren Santo Domingo non sia apparsa, da Vogue Paris a Vogue Spagna, da Elle a Town & Country, da W a Vanity Fair.

La bionda editor viaggia spesso tra Londra, New York, Cartagena, in Colombia -paese di origine del marito- e Parigi, dove vive nel quartiere Saint Germain, in un lussuoso hôtel particulier. Mamma di due bambini, sublime incarnazione della più autentica lady dell’alta società americana, l’editor è da sempre in prima linea nel valorizzare i nuovi talenti. Tra i suoi designer preferiti spiccano Giambattista Valli, Oscar de la Renta, Charlotte Olympia, Dries Van Noten, Dolce & Gabbana e Josep Font di Delpozo. Il suo stile tradisce la sua vita cosmopolita e la sua indole raffinata e sofisticata. Icona di stile contemporanea dalle mise sempre apprezzate, Lauren Santo Domingo sfoggia uno stile sempre impeccabile, che indossi capi sartoriali o abiti da gran soirée. Una predilezione per le pencil skirt e per gli abiti scultura, dal sapore couture, il suo stile è tutto da imitare.

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Uno dei look più iconici dell’imprenditrice
Lauren Santo Domingo in Oscar de la Renta ai Met Gala 2014
Lauren Santo Domingo in Oscar de la Renta ai Met Gala 2014
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Lauren Santo Domingo in John Galliano vintage

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Lauren Santo Domingo in Giambattista Valli Couture



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Millicent Rogers: una vita alla ricerca della bellezza

Crinoline e sete preziose alternate a strati di tulle fanno capolino nei sontuosi abiti da sera dal sapore vittoriano, sullo sfondo dell’età del jazz e di una giovinezza scandita dall’ultimo party esclusivo. Una vita fieramente sopra le righe, seguendo il monito di lorenziana memoria di vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo. E Millicent Rogers scelse di vivere la propria vita al massimo. Nota come l’ereditiera della Standard Oil, fondata dal nonno H.H.Rogers e da John D.Rockefeller, Millicent Rogers è stata una brillante socialite, un’icona di stile di squisita eleganza ed una collezionista d’arte.

All’anagrafe Mary Millicent Abigail Rogers, più conosciuta come Millicent Rogers, la futura icona di stile nacque a New York il primo febbraio 1902. Nipote di Henry Huttleston Rogers, magnate della Standard Oil, ereditò quest’impero, divenendo proprietaria in giovanissima età di un’immensa fortuna. La piccola Millicent crebbe tra Manhattan, Tuxedo Park e Southampton, New York, tra lusso e ricchezze. Ma ancora bambina contrasse una febbre reumatica: secondo i medici che la visitarono, la piccola non sarebbe arrivata all’età di dieci anni. La realtà fu fortunatamente ben diversa, ma per tutta la vita l’ereditiera fu cagionevole di salute: ebbe infatti numerosi attacchi di cuore, una grave forma di polmonite e un’artrite che le lasciò il braccio sinistro quasi totalmente paralizzato prima del compimento dei 40 anni.

Negli anni Venti Millicent Rogers divenne famose come socialite, ottenendo servizi e copertine sulle principali riviste patinate, da Vogue a Harper’s Bazaar. Inoltre la sua vita sentimentale costituì per decenni uno dei temi più ghiotti per i tabloid. Sì, perché Millicent Rogers è stata una donna leggendaria: aveva un animo ribelle, quella bionda dai capelli perfetti e dallo sguardo altero, che viaggiava con 35 valigie e 7 bassotti e che non lesinava in capricci, come quando, nel 1937, pretese che la tappezzeria della sua coupé Delage D8-120 Aerosport venisse tinta in una nuance che fosse en pendant con il suo rossetto rosso lacca; lei che ballò il tango nei nightclub europei mentre la perbenista America frugava nei dettagli più scabrosi della sua burrascosa vita sentimentale; lei che, dietro al guardaroba principesco e all’invidiabile vita mondana, nascondeva una grande sensibilità.

Scatto di Millicent Rogers esposto al museo di Taos realizzato da Louise Dahl-Wolfe per Harper's Bazaar, 1948
Scatto di Millicent Rogers esposto al museo di Taos realizzato da Louise Dahl-Wolfe per Harper’s Bazaar, 1948
Millicent Rogers, foto di Richard Rutledge per Vogue America, 15 marzo 1945
Millicent Rogers, foto di Richard Rutledge per Vogue America, 15 marzo 1945

Millicent Rogers ritratta da Horst P. Horst nel 1938
Millicent Rogers ritratta da Horst P. Horst nel 1938


Millicent Rogers mostrò fin dall’infanzia grandi doti artistiche, che la madre non perse occasione di incoraggiare. Dopo il suo debutto in società, avvenuto nel 1919 al Ritz di Manhattan, Millicent si affermò per il suo stile, divenendo un’icona immortale. Presenza fissa delle liste delle donne meglio vestite al mondo, inizialmente la sua immagine non aveva ancora l’appeal sofisticato che oggi tutti noi conosciamo, attraverso le foto patinate che la immortalano. Fu quando decise di cambiare la forma delle sue sopracciglia, arcuandole alla maniera in voga negli anni Trenta, che la bionda Millicent iniziò ad essere una vera diva. Statuaria dall’alto del suo metro e settantacinque centimetri, pelle di alabastro e classe inimitabile, Millicent Rogers sembrava avere avuto tutto dalla vita: bellezza, intelligenza, ironia, savoir faire e una valanga di soldi. Ci guarda altera, dall’alto della sua perfezione, nelle foto celebri che la ritraggono. Sempre impeccabile nelle sue mise, Millicent Rogers posò, tra gli altri, per Louise Dahl-Wolfe e Horst P. Horst, oltre che per il pittore Bernard Boutet de Monvel. Tra i suoi designer preferiti vi erano Mainbocher, Adrian, Elsa Schiaparelli e Valentina. Ma un posto speciale occupava Charles James, di cui la bionda ereditiera fu musa incontrastata. Del couturier Millicent Rogers amava l’opulenza, mentre lui dal canto suo trovò in lei la perfetta incarnazione del suo stile. Nessuna sapeva indossare i sontuosi abiti-scultura di James con altrettanto charme.

Esteta e amante della bellezza in ogni sua forma, Millicent Rogers non era né un’oca né una ragazzaccia. Il suo humour mordente era forse ciò che gli uomini più adoravano in lei. “Gli uomini erano solo oggetti che collezionava”: scrive così Cherie Burns, a proposito di Millicent Rogers. “In cerca della bellezza”: si intitola così il volume che la Burns ha dedicato all’icona di stile. Searching for Beauty: The Life of Millicent Rogers, the American Heiress Who Taught the World About Style, edito da Paperback, è una tra le biografie più autorevoli della celebre ereditiera. Vera leggenda americana dalla vita avventurosa e glamour, filantropa e collezionista d’arte, in un’epoca costellata da Hilton e Kardashian si avverte profondamente la mancanza di icone del calibro di Millicent Rogers. Il volume curato da Cherie Burns testimonia la sua incessante ricerca di perfezione tanto nel suo stile personale quanto nella sua esistenza.

Millicent Rogers in Charles James, 1948
Millicent Rogers in Charles James, 1948
Ritratto di Millicent Rogers realizzato da Bernard Boutet de Monvel, 1948
Ritratto di Millicent Rogers realizzato da Bernard Boutet de Monvel, 1948
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Millicent Rogers nacque a New York il primo febbraio 1902
Millicent Rogers in un abito da sera Charles James, foto di Horst P. Horst per Vogue, 1 febbraio 1949
Millicent Rogers in un abito da sera Charles James, foto di Horst P. Horst per Vogue, 1 febbraio 1949

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Millicent Rogers ereditò l’impero della Standard Oil, fondata da suo nonno H. H. Rogers e da John D. Rockefeller


La vita sentimentale di Millicent Rogers fu parecchio avventurosa: l’icona si sposò per tre volte e collezionò numerosi flirt, tra cui spiccano l’autore Roald Dahl, lo scrittore Ian Fleming, il principe del Galles e il principe Serge Obolensky. L’ereditiera sposò in prime nozze, nel gennaio del 1924, il conte austriaco Ludwig von Salm-Hoogstraeten, più vecchio di lei di venti anni. Lui era un nobile decaduto e squattrinato, descritto dal New York Times come “un morto di fame”. Il matrimonio fu duramente osteggiato dalla famiglia Rogers. La coppia ebbe un figlio, Peter Salm, prima di divorziare, nell’aprile 1927. Nel novembre dello stesso anno l’ereditiera convolò a nozze con Arturo Peralta-Ramos, playboy e sportivo, proveniente da una ricca famiglia argentina. Dalla loro unione nacquero due figli, Paul Jaime e Arturo Henry Peralta-Ramos Jr. Il matrimonio fu celebrato nella chiesa cattolica del Sacro cuore di Gesù e Maria di Southampton, Long Island, alla presenza dei genitori dell’ereditiera. Il padre diede alla coppia un fondo fiduciario di 500.000 dollari, con la promessa che Peralta-Ramos “non avanzasse alcun diritto futuro sull’eredità di Millicent”, stimata in circa 40.000.000 di dollari. Nei primi anni Trenta Millicent e Arturo costruirono uno chalet a St. Anton, un’esclusiva località sciistica, arredandolo in ricercato stile Biedermeier. Vestiva alla tirolese Millicent in quel periodo, con i costumi tipici e il caratteristico grembiule, che lei mixava con adorabile nonchalance ad abiti Schiaparelli e Mainbocher, stile che fu più tardi ripreso, forse non con altrettanta classe, da Wallis Simpson. Tuttavia anche questo matrimonio naufragò, e la coppia divorziò nel 1935. Il terzo ed ultimo marito dell’icona di stile fu Ronald Balcom, un agente di cambio americano, sposato a Vienna nel febbraio 1936, da cui divorziò nel 1941. La coppia non ebbe figli. L’ereditiera visse in Svizzera fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, ma nel corso della sua vita collezionò appartamenti come si fa con le figurine: da New York alla Virginia al Nuovo Messico, fino all’Austria e alla Giamaica: le dimore dell’ereditiera rispecchiavano il suo gusto, sofisticato e ricercato.

Spilla di Verdura
L’icona di stile indossa una preziosa spilla di Fulco di Verdura
L'appartamento di Millicent Rogers a Claremont Manor
L’appartamento di Millicent Rogers a Claremont Manor
Il salotto dell'appartamento di Millicent Rogers a Claremont Manor, Virginia
Il salotto dell’appartamento di Millicent Rogers a Claremont Manor, Virginia

Virginia
Ancora un particolare della tenuta di Millicent Rogers in Virginia


Millicent Rogers sapeva perfettamente come gestire la stampa, verso la quale alternava momenti di amore e odio, come sostiene Gwendolyn Smith, curatrice della mostra “Millicent Rogers: Heiress, Fashion Icon & Her World” . “Conosceva le persone giuste e tutti conoscevano lei”, da buona socialite. Artista, creatrice di interessanti gioielli in oro ed argento, questo fu per lei più un hobby creativo da praticare per la salute delle sue mani affette da artrite, che una vera attività. D’altronde aveva i mezzi per finanziare le proprie opere artistiche. I suoi gioielli rivelano suggestioni arcaiche: il firmamento e le costellazioni sembrano essere la principale fonte di ispirazione per Millicent Rogers, le cui creazioni artigianali ricordano lune e stelle. Collezionista d’arte, spiccano nelle sue collezioni private almeno una dozzina di quadri di Henri de Toulouse-Lautrec, oltre a pezzi di Claude Monet e Paul Cezanne. L’icona di stile amava i quadri di Van Gogh, Degas e Jacob Epstein ma anche l’arte africana e le teiere cinesi. A Manhattan adorava le creazioni di Fabergé.

Colta, elegante ironica, Millicent Rogers parlava correntemente sette lingue, che studiò da autodidatta, durante i suoi famigerati attacchi di febbre reumatica. Si dice che tradusse da sola Rilke solo per divertimento, e che era solita conversare in latino. Non edonismo sfrenato, non mero esibizionismo, ma un viscerale amore per la bellezza, declinata in ogni forma. Oggi il botox sembra essere la parola chiave per le celebrities di ogni parte del mondo, tutte uguali nella loro ricerca di uno stereotipato ideale di bellezza: ma una volta ci voleva almeno un po’ di classe per monopolizzare l’attenzione della cronaca rosa. Bionda, bella, incredibilmente ricca e dotata di un carattere passionale, Millicent Rogers fu molto più di un personaggio da giornale scandalistico: fine esteta dal gusto raffinato, combatté la disabilità con il suo amore per l’arte. Elsa Schiaparelli, sua amica e tra i suoi couturier preferiti, disse di lei: “Se non fosse stata così ricca, con il suo incredibile talento e la sua smisurata generosità sarebbe diventata una grande artista”. I tre mariti e l’intensa vita sentimentale costituiscono solo una delle tante sfaccettature di questa icona di stile dallo charme immortale.

L’eccesso non faceva parte di lei, sebbene l’apparenza talvolta sembrava suggerire il contrario. Millicent Rogers era in realtà una sopravvissuta, e tale si sentì durante tutto il corso della sua vita. “Quando trovi la felicità, acchiappala. Non fare troppe domande” , diceva così Millicent. E la felicità la trovò accanto ad uno dei divi più amati di Hollywood, Clark Gable, che fu forse l’uomo della sua vita. L’ereditiera riuscì ad attirare l’attenzione dell’attore presentandosi ad un party con una scimmietta sulla spalla. L’idillio fu da romanzo rosa. Ma, come tutte le storie d’amore, l’ereditiera soffrì indicibilmente quando il sentimento finì. La proverbiale fama di sciupafemmine non era solo una leggenda metropolitana, nel caso di Clark Gable: quando la Rogers lo colse in flagrante in compagnia di un’altra donna, gli scrisse una lettera d’addio che mandò ad Hedda Hopper affinché quest’ultima la pubblicasse sulla sua rubrica all’interno dell’L.A. Times. La lettera iniziava così: “Ti ho seguito la notte scorsa mentre portavi a casa la tua giovane amica. Sono felice di averti visto mentre la baciavi, perché ora so che hai qualcuno vicino a te…. Spero di averti fatto sorridere ogni tanto; […] di averti dato, quando mi stringevi, tutto ciò che un uomo possa desiderare.”

Millicent Rogers in Mainbocher
Millicent Rogers in Mainbocher
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Tra i designer preferiti dall’icona di stile Mainbocher, Adrian, Schiaparelli, Charles James e Valentina
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Millicent Rogers posò per le riviste più autorevoli, da Vogue ad Harper’s Bazaar
Millicent Rogers su Vogue, 1937
Millicent Rogers su Vogue, 1937

Circa January 1939 --- Millicent Rogers, hat in hand, wearing moleskin cape and large ring. She rests her arm on the back of a chaise lounge. --- Image by © Condé Nast Archive/Corbis
Millicent Rogers, gennaio 1939. Foto © Condé Nast Archive/Corbis


Nel corso della Seconda Guerra Mondiale l’icona di stile acquistò Claremont Manor, una tenuta risalente al 1750 circa, situata sulle rive del fiume James, in Virginia, a 170 miglia da Washington. Qui la Rogers tentò di ricreare l’atmosfera che aveva respirato in Austria. Lavorò all’interior design di quella casa al fianco di Billy Baldwin, dell’architetto William Lawrence Bottomley e di Van Day Truex, amico di famiglia nonché futuro presidente della prestigiosa Parsons School of Design e design director per Tiffany & Co. Una scrivania un tempo appartenuta al poeta Schiller e ricercati pezzi di antiquariato Biedermeier costituivano i pezzi forti dell’interior design di Claremont. Alle pareti spiccavano quadri di Watteau, Fragonard e Boucher, in una cornice di lussuosa formalità, tra tende damascate e un’eleganza antica. Nel 1946 l’ereditiera si trasferì ad Hollywood, dove abitò nella casa che era appartenuta un tempo a Rodolfo Valentino, la celebre Falcon’s Lair.

Più tardi, nel 1947, la diva decise di ritirarsi a Taos, in Nuovo Messico, dove sperava di contrastare i sintomi della febbre reumatica di cui soffriva fin da bambina. Qui andò a vivere in una tenuta che ribattezzò Turtle Walk. A curare l’interior design della sua nuova dimora non vi fu alcuna figura professionale. Turtle Walk era una vecchia fortezza situata nel deserto di Taos, caratterizzata da un mobilio di stampo coloniale e da una tappezzeria raffigurante elementi tipici della cultura dei nativi americani, la cui arte compariva in abbondanza in quella casa, tra ceramiche, gioielli, quadri. Taos, nel Nuovo Messico, era un’oasi di pace, buen retiro ideale per artisti ed intellettuali delusi dalla vita e alla ricerca di nuovi stimoli. Millicent, col cuore spezzato dopo la fine della sua tormentata love story con Clark Gable, fu invitata qui da Mabel Dodge Luhan. L’ereditiera strinse una profonda amicizia con la pittrice Dorothy Brett, da tempo ivi residente, trasferitasi lì su invito di D. H. Lawrence. Entrambe ricche ed eleganti, le due donne avevano molto in comune. Taos era una località molto gettonata soprattutto da quando, all’inizio del secolo, era stata scelta come nuova patria da nomi del calibro di Mabel Dodge Luhan e Georgia O’Keeffe.

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Millicent Rogers ebbe tre mariti e numerose storie d’amore: la più famosa fu quella con l’attore Clark Gable
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Durante i suoi attacchi di febbre reumatica, l’ereditiera imparò da autodidatta sette lingue e tradusse l’opera di Rilke
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L’ereditiera nel tipico costume austriaco, che mixava a capi haute couture di Schiaparelli e Mainbocher
Millicent Rogers col figlio Paul Peralta Ramos a Taos
Millicent Rogers col figlio Paul Peralta Ramos a Taos

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Millicent Rogers nel 1947 si ritirò a Taos, Nuovo Messico


Millicent Rogers si innamorò all’istante di quel cielo blu cobalto, ma anche dei nativi del luogo. Della cultura pueblo adorava le tradizioni e i manufatti. Attraverso le testimonianze che sono giunte a noi sappiamo quanto l’icona di stile trovasse belli i lunghi capelli neri degli uomini e lo stile delle donne. Tra memorie coloniali ispaniche e citazioni del vecchio West si ergeva maestosa la natura, principale fonte di ispirazione artistica. In una lettera al figlio Paul Peralta-Ramos, l’icona racconta del suo amore per Taos. Si sentiva parte della Terra, Millicent Rogers, giunta in Nuovo Messico. L’ereditiera racconta con trasporto di una vicinanza mai provata prima con gli elementi della natura: il sole che brucia sulla pelle, l’odore della pioggia, l’emozione di guardare le stelle e il cielo notturno. Sembra di vederla, questa dama algida e bionda in abiti sartoriali, intenta ad osservare, con interesse quasi etnografico, gli usi e costumi locali, le suggestive cerimonie intertribali, con i danzatori, i cantanti, e, ancora, i mercati tipici, con gli artisti che mettono in vendita le loro creazioni artigianali.

La signora venuta da lontano si sofferma su alcuni gioielli con turchesi. Quelle insolite forme artistiche catturano il suo occhio, così acuto nello scorgere ovunque bellezza. È un vero e proprio colpo di fulmine per quegli orecchini, quei bracciali in onice e madreperla, ma anche per le cinture, le stoffe stampate, i coralli. Mai sottovalutare l’amore di una donna per la moda e per gli accessori: Millicent Rogers adorava i gioielli locali e sviluppò un’autentica passione per i turchesi Navajo, passione che la portò successivamente a svolgere un ruolo predominante nel preservare i capolavori dell’arte amerindia. Millicent Rogers prese molto a cuore la causa dei nativi ispanici e americani che abitavano il Nuovo Messico, ergendosi come paladina della battaglia per il riconoscimento dei loro diritti. Dopo aver collezionato oltre duemila opere realizzate dai nativi americani, con alcuni suoi amici, tra cui gli autori Frank Waters, Oliver Lafarge e Lucius Beebe, contattò dei legali per portare all’attenzione della Casa Bianca il tema dei diritti dei nativi americani.

Millicent Rogers in giacca di velluto Schiaparelli in uno scatto risalente al 1939. Foto Condé Nast Archive/Corbis
Millicent Rogers in giacca di velluto Schiaparelli in uno scatto risalente al 1939. Foto Condé Nast Archive/Corbis
Millicent Rogers in un abito da sera in taffetà e piume firmato Adriam, 1947. Foto di Condé Nast Archive/Corbis
Millicent Rogers in un abito da sera in taffetà e piume firmato Adriam, 1947. Foto di Condé Nast Archive/Corbis
Millicent Rogers a Claremont Manor, Virginia, in un abito drappeggiato in broccato di Valentina, 1947

Il salotto dell'appartamento di Millicent Rogers a Taos, New Mexico
Il salotto dell’appartamento di Millicent Rogers a Taos, Nuovo Messico


Lo stile che l’ereditiera adottò dopo il suo ritiro a Taos comprendeva una blusa con le stampe originali Navajo che alternava a una camicia bianca, una gonna a ruota indossata sopra diverse sottogonne che alternava a maxi gonne etniche, uno scialle e piedi rigorosamente scalzi o mocassini di pelle di daino. Questo divenne il look più iconico dell’ereditiera, nonché l’emblema del suo stile. Nel Nuovo Messico la Rogers adottò anche un nuovo stile di vita. “Non era una snob, avrebbe trascorso con i creatori di gioielli locali lo stesso tempo che avrebbe speso ad Hollywood”, scrive la Burns. “Credo che si divertisse nel Nuovo Messico, sperimentando una libertà forse mai provata prima. Aveva un grande spirito di adattamento.”

Millicent Rogers, avventuriera vestita in capi haute couture, morì nel 1953, un mese prima del suo 51esimo compleanno, lasciando debiti per tre milioni di dollari. Poco dopo la sua scomparsa, nel 1956, uno dei suoi tre figli fondò a Taos un museo locale a suo nome, il Millicent Rogers Museum. Il museo conserva un’ampia collezione di arte nativo americana, ispano americana ed euro americana. Dapprima sito in una location temporanea, alla fine degli anni Sessanta il museo venne trasferito in una casa costruita da Claude J. K. ed Elizabeth Anderson, successivamente ristrutturata dall’architetto Nathaniel A. Owings. Millicent Rogers è stata protagonista della mostra American Women of Style, organizzata da Diana Vreeland e Stella Blum nel 1975. Il suo stile continua ad essere inesauribile fonte di ispirazione nella moda: John Galliano ha dichiarato di essersi ispirato a lei per la collezione disegnata per Dior nella Primavera/Estate del 2010. Un nome che resterà immortale nella moda.


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Buon compleanno, Kate Moss!

Zigomi pronunciati, labbra a cuore e quel sorriso, semplicemente inimitabile: Kate Moss spegne oggi 42 candeline. Volto storico della moda, icona di stile tra le più copiate, la supermodella è uno dei nomi più celebri del fashion biz. Apparsa sulla copertina di oltre 300 riviste, apprezzata universalmente per il suo stile, che le ha fatto ottenere numerosi riconoscimenti, tra cui quello del Consiglio degli stilisti d’America, che l’ha inserita nella lista delle donne meglio vestite nel mondo, Kate Moss è una vera leggenda vivente.

All’anagrafe Katherine Ann Moss, la modella è nata a Croydon, un sobborgo di Londra, il 16 gennaio 1974. Sua madre Linda fa la barista, mentre il padre Peter è un agente di viaggi. Kate viene scoperta in un aeroporto di New York all’età di 14 anni, dalla fondatrice dell’agenzia di moda Storm, Sarah Doukas. La giovane non rientra in nessuno dei canoni vigenti nella moda: bassa (non arriva a sfiorare il metro e settanta) e ossuta, Kate appare lontana anni luce dai fisici statuari di Claudia Schiffer, Naomi Campbell e Cindy Crawford, le supermodelle degli anni Novanta, perfette ed irraggiungibili. Farle ottenere un contratto sembra una battaglia persa in partenza, ma Sarah Doukas di talenti ne ha visti passare molti ed è convinta che quella smilza ragazza farà strada.

Il primo shoot risale al 1990: è la rivista inglese The Face ad offrire alla nuova modella un servizio fotografico ambientato in una spiaggia a sud di Londra. Incredibilmente le foto ottengono un successo insperato e Kate Moss diviene un volto noto. Considerata un’icona alternativa per il suo aspetto, non conforme ai diktat dell’epoca, Kate Moss viene associata al movimento grunge.

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Kate Moss è nata a Croydon, vicino Londra, il 16 gennaio 1974
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La modella viene scoperta a New York da Sarah Doukas, fondatrice dell’agenzia di moda Storm
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Non arrivando al metro e settanta, inizialmente Kate Moss venne considerata troppo bassa per sfilare

 

Ma è con la celebre campagna pubblicitaria per Calvin Klein che la modella ottiene la fama internazionale. Scatti bollenti al fianco di Mark Wahlberg immortalano la nuova top seminuda: il fisico acerbo ritratto in topless, le pose ammiccanti e la bellezza acqua e sapone sdoganano Kate Moss come il nuovo volto della moda. Siamo negli anni Novanta, l’epoca d’oro delle supermodelle, algide nella loro perfezione, svettanti su fisici tonici e volti perfetti. Tutto questo venne cancellato dall’avvento di Kate Moss: la rivoluzione Kate fece sì che la nuova modella, bassa e piena di difetti rispetto all’ideale di perfezione allora vigente, si imponesse e spazzasse via ogni residuo del passato. Spartiacque tra le supermodelle e le nuove top, dai fisici sempre più esili, il fenomeno Kate Moss ha portata storica senza precedenti: il fattore preponderante è la personalità, quel particolare lampo negli occhi che fa la differenza in foto, rendendo la Moss un personaggio unico, dall’espressività capace di superare le barriere della carta patinata. Considerata capostipite delle modelle anoressiche, il suo fisico acerbo suscitò aspre critiche e polemiche.

Nel 1995 le foto della campagna per il profumo Obsession di Calvin Klein divengono addirittura un caso nazionale negli States, suscitando polemiche e muovendo persino accuse di pedofilia nei confronti dello stilista americano. Dopo che il dipartimento di giustizia, su ordine dell’allora presidente Bill Clinton, avviò un’inchiesta, la campagna fu ritirata dopo appena tre settimane. Intanto la modella divenne a tutti gli effetti una top model, calcando le passerelle dell’alta moda di Parigi, New York e Milano, e ottenendo le cover dei magazine più prestigiosi, da Elle ad Harper’s Bazaar, da Vogue ad Allure. Kate Moss sfila per tutti i grandi nomi della moda, da Gucci a Versace a Burberry, da Calvin Klein a Dolce & Gabbana, fino a Chanel, Roberto Cavalli, Louis Vuitton, Missoni, Dior, Yves Saint Laurent, Stella McCartney.

 

SFOGLIA LA GALLERY:

 

Testimonial di Rimmel, Bulgari, Versace, Missoni, Balenciaga, Chanel, Burberry, è apparsa ben 24 volte sulla cover di Vogue, ottenendo copertine anche su Vanity Fair, W, The Face e su molte altre riviste patinate. Intanto anche il gossip si scatena sulle sue storie d’amore, a partire da quella con l’attore Johnny Depp. Musa di nomi del calibro di Mario Testino, Mario Sorrenti e Peter Lindbergh, che l’ha inserita nel suo libro 10 Women, nel luglio 2007 Kate Moss viene nominata dalla rivista Forbes la seconda modella di maggior successo al mondo.

Il 2005 è l’anno dello scandalo: nel settembre la rivista britannica Daily Mirror pubblica in prima pagina alcuni scatti che ritraggono la supermodella nell’atto di consumare cocaina, insieme al compagno di allora, il controverso musicista Pete Doherty. Lo scandalo è servito. L’occhio di chi legge l’articolo non può non indugiare sulla foto che ritrae la modella intenta a sniffare; la firma di quel pezzo rivela che sono ben cinque le strisce di cocaina consumate da Kate Moss in appena 40 minuti. Per la top model è il declino; quasi tutti i contratti vengono annullati. Da Stella McCartney a Chanel e Burberry, nessuno sembra più interessato a lei come testimonial. La situazione è difficile, al punto che è la stessa Kate Moss alla fine a chiedere scusa pubblicamente ai milioni di fan e di persone che si ispirano a lei: lo fa in una conferenza stampa in cui ammette pubblicamente le proprie responsabilità.

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Kate Moss in una foto di Patrick Demarchelier per Harper’s Bazaar, luglio 1993
Kate Moss, foto di Roxanne Lowit, 1995
Kate Moss, foto di Roxanne Lowit, 1995
Kate Moss in passerella per Versace, Paris Fashion Week,1996
Kate Moss in passerella per Versace, Paris Fashion Week,1996
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Kate Moss ottenne il primo servizio nel 1990

 

A schierarsi in sua difesa sono in pochi: le colleghe Naomi Campbell e Helena Christensen, l’attrice Catherine Deneuve, l’ex-fidanzato Johnny Depp e lo stilista Alexander McQueen. Christian Dior continua a volerla come volto della maison e la rivista W le dedica la cover nel novembre 2005, a soli due mesi dalla bufera mediatica scatenata dal servizio del Daily Mirror. Intanto termina anche la relazione con Doherty, che la definisce una “stalker”. La top model viene anche indagata per uso di sostanze stupefacenti. Ma Kate Moss, novella Araba fenice, risorge dalle proprie ceneri: nel novembre 2006 è lei a ricevere il riconoscimento di “modella dell’anno” dal British Fashion Awards. Lo scandalo è dietro l’angolo ma lei è tornata, più forte che mai, e i designer se la contendono: nuovi contratti includono brand del calibro di Rimmel, Agent Provocateur, Belstaff, Dior, Louis Vuitton, Roberto Cavalli, Longchamp, Stella McCartney, Bulgari, Chanel, Nikon, David Yurman, Versace, Calvin Klein Jeans e Burberry. Secondo la rivista Forbes la Moss dopo lo scandalo avrebbe triplicato i propri guadagni, divenendo ufficialmente la modella più pagata al mondo, seconda solo a Gisele Bündchen.

Kate Moss ritratta da Mert & Marcus
Kate Moss ritratta da Mert & Marcus
Kate Moss ritratta da Peter Lindbergh per Harper's Bazaar, marzo 2010
Kate Moss ritratta da Peter Lindbergh per Harper’s Bazaar, marzo 2010
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Kate Moss per Playboy, foto di Mert & Marcus, 2014
Kate Moss, foto di Mario Testino
Kate Moss in uno scatto di Mario Testino
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La top model britannica è considerata un’icona di stile
Kate Moss su Vogue Paris luglio 2010 fotografata da Mario Sorrenti
Kate Moss su Vogue Paris luglio 2010 fotografata da Mario Sorrenti

 

Nel 2014, al compimento dei 40 anni, la top model si è regalata un servizio senza veli per la celebre rivista Playboy, in cui ammicca come coniglietta. Le foto, realizzate da Mert Alas e Marcus Piggott, celebrano il 60º anniversario della rivista. Una rinnovata consapevolezza sul volto e un fisico cui il trascorrere del tempo ha regalato una nuova sensualità nell’esplosione di curve sinuose, Kate Moss appare oggi ancora più bella. Icona di stile dal gusto raro, capace di passare con disinvoltura dallo stile bohémien all’eleganza più sofisticata, onnipresente nelle classifiche delle donne meglio vestite al mondo, Kate Moss è stata anche stilista per la catena britannica Toshop, per cui ha firmato nel 2007 una collezione in esclusiva, mostrandosi come manichino umano nelle vetrine di Oxford al lancio della linea recante il suo nome.

Dopo la fine del matrimonio con il chitarrista dei The Kills Jamie Hince, sposato nel 2011, oggi la modella appare serena e in forma smagliante. Qualche chilo in più che non ne offusca minimamente la straordinaria bellezza, Kate Moss sorride nelle foto che la ritraggono accanto alla figlia Lila Grace, nata nel 2002 dalla relazione con Jefferson Hack, editore della rivista Dazed & Confused.

Icona di stile tra le più apprezzate al mondo, i suoi look ispirano quotidianamente milioni di donne: amante del boho-chic, ha indossato spesso capi vintage. Forte di un fisico capace di esaltare qualsiasi mise, la modella incanta ad ogni uscita pubblica.

 

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Nan Kempner: icona dello stile newyorkese

Ci sono donne che nobilitano la moda, conferendole quel tocco di magia che è da sempre prerogativa assoluta del glamour più autentico. Nan Kempner ha fatto della propria vita una parabola vissuta all’insegna dell’eleganza: socialite, protagonista indiscussa del jet set, avida collezionista di capi haute couture ed insuperata icona di stile, Nan Kempner nacque a San Francisco il 24 luglio del 1930.

All’anagrafe Nan Field Schlesinger, la futura icona di eleganza nasce in una famiglia benestante: il padre Albert “Speed” Schlesinger possiede la più grande concessionaria di automobili della California. Esile fin da giovanissima, Nan non possiede una bellezza da copertina, nonostante sia atletica e tonica. È lo stesso padre a consigliarle di puntare su altro, dicendole testualmente: “Con quel viso non ce la farai mai, faresti bene ad essere interessante”. Ed infatti è proprio sul carisma che la giovane punta lungo tutto il corso della propria vita.

Figlia unica, fu sua madre ad iniziarla alle meraviglie della moda. A suo dire la madre vestiva divinamente: fu da quest’ultima che la ragazzina apprese le regole fondamentali che diedero vita a quel suo stile che sarebbe in seguito divenuto iconico. Sua madre le insegnò che vi erano solo tre colori —il rosso, il nero e il grigio— e che i tacchi alti sarebbero dovuti divenire i suoi migliori amici. Contemporaneamente all’amore per la moda nacque nella giovane l’ossessione per la linea: Nan iniziò a stare in dieta all’età di 12 anni senza smettere mai nel corso della sua vita, ed iniziò a fumare all’età di 14. Dopo aver frequentato la Hamlin School di San Francisco, Nan Kempner si iscrisse al Connecticut College for Women dove studiò per un anno storia dell’arte, ma senza conseguire il diploma. Poi si trasferì per un anno a Parigi, dove frequentò la Sorbona e un corso di pittura tenuto dal maestro Fernand Léger. Ma quest’ultimo, resosi conto di quanto la giovane fosse negata, le restituì indietro il denaro.

Nan Kempner in Yves Saint Laurent, foto di Francesco Scavullo per Vogue, 1974.
Nan Kempner in Yves Saint Laurent, foto di Francesco Scavullo per Vogue, 1974
ca. January 1974, New York, New York, USA --- Socialite Nan Kempner wearing camel hair coat and cuffed plain-front pants by Yves Saint Laurent, with cashmere sweater and chain belt with tiger eye by Halston; a beret, and holding a long print silk scarf, --- Image by © CondÈ Nast Archive/Corbis
Nan Kempner in cappotto e pantaloni Yves Saint Laurent e maglione Halston. New York, gennaio 1974, foto Corbis

Nan Kempner wearing a Christian Lacroix Evening Jacket and vintage Yves Saint Laurent skirt
Nan Kempner in Christian Lacroix


Dopo aver lavorato come volontaria presso il Museo delle arti di San Francisco, nel 1952 convolò a nozze con Thomas Lenox Kempner. Dall’unione nacquero tre figli. Galeotto fu il primo incontro tra i due, con il marito che notò come prima cosa la minigonna Dior indossata dalla giovane. Un primo appuntamento al Monkey Bar di New York City in cui i due non smisero di scambiarsi insulti per una notte intera, come la stessa socialite raccontò più volte, diede vita ad una grande passione. Dopo aver vissuto a Londra per un breve periodo, i Kempner si trasferiscono nella Grande Mela: qui Nan sfodera doti imprenditoriali notevoli: in trent’anni la sua attività riesce ad incrementare i fondi del Memorial Sloan-Kettering Cancer Center fino ai 75.000.000 di dollari.

Nel privato la Kempner colleziona capi di alta moda: la sua è una passione iniziata quando era ancora una ragazzina. Il suo archivio privato si arricchisce nel tempo di capi preziosi ed esclusivi, fino a divenire per proporzioni una delle più ricche collezioni private del Paese, con pezzi tra i più iconici e rappresentativi del 20esimo secolo. Spiccano capi di designer del calibro di Valentino, Karl Lagerfeld per Chanel, Mainbocher, Christian Dior, oltre agli stilisti prediletti dall’icona di stile, Bill Blass e Yves Saint Laurent, di cui si contano oltre 300 pezzi. Considerata una vera e propria autorità tra le più preparate nel settore moda, Nan Kempner era una habitué delle sfilate: si dice che in 55 anni abbia perso solo una settimana della moda, a seguito della scomparsa di suo padre. In un’intervista rilasciata al The Independent of London nel 1994 dichiarò di essersi persa solo una delle ultime 63 sfilate di Yves Saint Laurent, di cui fu musa storica ed amica.

Durante il corso della sua vita, letteralmente dedicata alla moda e allo stile declinato in ogni sua forma, Nan Kempner lavorò come contributing editor per Vogue Paris, fashion editor per Harper’s Bazaar, designer consultant per Tiffany & Co. nonché come rappresentante internazionale della celebre casa d’aste Christie’s. Inoltre l’icona di stile impartì occasionalmente lezioni di moda presso il Metropolitan Museum of Art e la New York University. Ritratta da Andy Warhol nel 1973, immortalata sulle riviste patinate con i suoi outfit sempre eccentrici e sofisticati, Nan Kempner è stata anche autrice del volume “R.S.V.P.: Menus for Entertaining From People Who Really Know How”, edito da Clarkson Potter, i cui proventi furono interamente devoluti in beneficenza. Si, perché Nan Kempner è stata anche una grande filantropa, generosa come poche e sempre in prima linea nelle opere di charity. Incarnazione dello chic newyorkese, regina dei party e degli eventi più esclusivi, illuminò la scena della Grande Mela per oltre quarant’anni con il suo stile inimitabile. Celebri le parole con cui si espresse un monolite della moda del calibro di Diana Vreeland, secondo la quale “In America non ci sono donne chic. L’unica eccezione è Nan Kempner”. Valentino Garavani ne ammirava l’eleganza con cui riusciva ad indossare i suoi capi, con quel fisico tonico e scolpito. L’icona di stile ispirò la coniazione del termine “social X-ray” utilizzato all’interno del romanzo Il falò delle vanità di Tom Wolfe.

Nan Kempner (at Her Park Ave Apartment) PhotoRose Hartman-Globe Photos
Nan Kempner nel suo appartamento di Park Avenue, foto di Rose Hartman-Globe Photos
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Nan Kempner in Yves Saint Laurent, 1983
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Nan Kempner è stata una socialite, collezionista di moda e icona di stile
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La socialite è nata a San Francisco il 24 luglio 1930
Nan Kempner e Valentino Garavani
Nan Kempner e Valentino Garavani

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Nan Kempner è stata una delle più grandi collezioniste di capi haute couture


Fashionista ante litteram, Nan Kempner comprò il suo primo abito Dior quando la madre la portò nella sede della storica maison a Parigi, nel 1958. Si tramanda l’aneddoto secondo cui la ragazzina, sprovvista del denaro sufficiente per acquistare quel capo —un abito bianco con cappotto coordinato— scoppiò in un pianto disperato e continuò a singhiozzare finché non attirò l’attenzione d un giovane dai grandi occhiali. Trattavasi di Yves Saint Laurent, giovane assistente di monsieur Christian Dior. La ragazzina continuò a piangere finché l’addetto alle vendite non abbassò il prezzo del capo per renderlo più vicino al suo budget. Avida collezionista di moda, Nan Kempner sviluppò in seguito una vera e propria ossessione per i capi di Yves Saint Laurent, Valentino ed Oscar de la Renta. Cominciata nel corso degli anni Sessanta, la sua passione per lo shopping non trovò mai fine nei successivi cinquant’anni. Frizzante, deliziosamente frivola, Nan Kempner conquistava chiunque con la propria personalità, emblema di quella fetta della popolazione femminile che attraverso la moda riesce a sognare e ad emozionarsi. “Dico sempre a tutti che voglio essere seppellita nuda perché deve senza dubbio esserci un negozio nel luogo in cui andrò”, dichiarava nel 1972 al magazine Women’s Wear Daily. Socialite tra le più apprezzate, protagonista indiscussa dei party più esclusivi, dichiarò che “non si sarebbe persa per niente al mondo neanche l’opening di una porta”. Autoironica come poche, raccontò che non sapendo che occupazione dichiarare nei documenti, non sentendosi abbastanza ricca da considerarsi una vera filantropa e non amando definirsi una socialite, scrisse semplicemente “casalinga”.

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Nan Kempner lavorò come contributing editor per Vogue Paris, fashion editor per Harper’s Bazaar e designer consultant per Tiffany & Co.
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L’icona di stile davanti al suo celeberrimo armadio
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Un particolare dell’immenso guardaroba di Nan Kempner
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La sala da pranzo di Nan Kempner, arredata da Michael Taylor
Nan Kempner's Library with L'Enfance d'Icare (1960), René Magritte, and Gabhan O'Keefe Sofa, New York City, March 1998.
Particolare dell’appartamento di Nan Kempner con L’Enfance d’Icare di René Magritte e divano di Gabhan O’Keefe, New York City, Marzo 1998
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Nan Kempner nella sua camera da letto arredata da Michael Taylor. Foto di Derry Moore per Architectural Digest
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Particolare dell’appartamento della socialite

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Nan Kempner è stata icona di stile e musa di Yves Saint Laurent. Foto Getty Images


Definita da Yves Saint Laurent ‘la plus chic du monde’, lo stile di Nan Kempner era improntato ad una grande ricercatezza e ad una certosina cura del dettaglio. Amante del mix & match, l’icona di stile si dilettava nel creare outfit bizzarri ed eccentrici, mixando tra loro pezzi variegati. Lo stile secondo Nan Kempner consisteva nel riuscire ad esprimere la propria individualità e nell’abilità di mixare i capi. Celebre la sua propensione allo styling e alle sovrapposizioni, anche le più audaci, come quando riusciva ad indossare mirabilmente il più classico dei tailleur Yves Saint Laurent con un paio di jeans boyfriend.

Nan Kempner fu tra le prime donne ad abbracciare il trend del menswear. Non particolarmente amante dei vezzi femminili, cercava sempre di aggiungere un tocco maschile anche alla mise più sexy. Emblema vivente della massima “less is more”, non era raro vederla indossare la domenica la sua uniforme tipica, composta da un paio di Levi’s 501, una camicia bianca e una maglia indossata sulle spalle. Presenza fissa della Hall of Fame dell’International Best-Dressed List ideata nel 1940 da Eleanor Lambert, in un’intervista a Town & Country del 1999, alla domanda postale da Annette Tapert su come avrebbe descritto il proprio stile, Nan Kempner rispose senza esitazioni “artificiosamente rilassato”. Lo shopping rimase sempre la sua passione più grande: fino alla veneranda età di 72 anni la socialite era solita acquistare delle minigonne, che indossava in spiaggia con bikini Etro e poncho. Casual e minimal-chic, l’icona fu tra le prime a sdoganare la chirurgia plastica. Vanitosa e primadonna nell’animo, adorava fare le sue entrate ad effetto, attirare l’attenzione ed essere fotografata. Perennemente in viaggio tra Londra, Parigi, Gstaad, Venezia, San Francisco e Los Angeles, non si perdeva una sfilata né un party, e adorava sciare e prendere il sole.

Spendeva in abiti “più di quanto avrebbe dovuto e meno di quanto avrebbe voluto”, perfettamente a suo agio nel suo fisico atletico, frutto di duri allenamenti che avevano luogo quotidianamente nella palestra che fece costruire all’interno del suo appartamento e che le permettevano di entrare perfettamente nei capi di sfilata, indossati dalle mannequin. Amante della bellezza in ogni sua forma, nel suo appartamento il lusso era la parola d’ordine: la vediamo indugiare dinanzi alla sua incredibile cabina armadio, che farebbe impallidire la fashion victim più sfegatata, oppure nei fasti dei saloni, impreziositi da una deliziosa carta da parati francese dipinta a mano, tra preziosissimi quadri di René Magritte, antichi bric-à-brac provenienti dalla Cina, collezioni di libri d’arte e bassorilievi in bronzo realizzati da Robert Graham.

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La socialite ha incarnato la quintessenza dello chic newyorkese
NEW YORK - 1985:  Socialite Nan Kempner attends Rizzoli Book party for Marella Agnelli in circa 1985 in New York City, New York. (Photo by Rose Hartman/Getty Images)
Nan Kempner a New York, 1985 (Foto di Rose Hartman/Getty Images)
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Lo stile di Nan Kempner prediligeva il mix & match e le sovrapposizioni
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Nan Kempner fu autrice di “R.S.V.P.: Menus for Entertaining From People Who Really Know How”, edito da Clarkson Potter
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Ironica ed eccentrica, Nan Kempner fu definita da Yves Saint Laurent “la donna più chic del mondo”
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La socialite in compagnia di Andy Warhol

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Nan Kempner e Bill Blass


Nan Kempner si è spenta il 3 luglio del 2005 all’età di 74 anni, per enfisema polmonare. Fumatrice incallita, trascorse gli ultimi anni della propria vita in condizioni critiche, respirando con l’aiuto di una bombola di ossigeno. Due mesi dopo la sua scomparsa la sua famiglia ha organizzato una commemorazione in suo onore presso la sede di Christie’s, a cui presero parte oltre 500 suoi amici. Nel dicembre 2006 il Costume Institute del Metropolitan Museum of Art ha inaugurato una mostra dedicata alla smisurata collezione di capi haute couture dell’icona di stile. Nan Kempner: American Chic era composta da oltre 75 outfit, tra cui capi Galliano per Dior, Lagerfeld per Fendi, Ungaro, Jean Paul Gaultier e Lanvin. La mostra si è poi spostata al Fine Arts Museums di San Francisco.

Tantissimi sono gli aneddoti che ci svelano una donna ironica e dalla personalità scoppiettante; a partire da quella volta in cui, nel corso degli anni Sessanta, Nan Kempner decise di indossare una tuta pantaloni per una cena al ristorante La Côte Basque, in barba al dresscode della serata, che vietava espressamente alle donne l’uso dei pantaloni. Quando le fu negato l’ingresso, lei tolse i pantaloni e disse sprezzante a Madame Henriette, “Spero che questo le piaccia di più”. Indossò quindi il top come un vestito e sfoderò una adorabile nonchalance. Audace e sofisticata, sfoggiava savoir faire e self-confidence, convinta com’era che “Non è cosa indossi, ma come lo indossi”. Una grande lezione di stile. Meditate.

Lo stile di Anna Wintour

Il suo è il caschetto più celebre della moda, la posizione che occupa è la più ambita e prestigiosa per antonomasia e lei incarna da sempre il personaggio più amato e temuto del fashion biz. Il proverbiale sguardo obliquo che incuterebbe soggezione anche alla fashion editor più navigata, quel sarcasmo al vetriolo, l’alone che la circonda è quello di una diva patinata: sì, perché su Anna Wintour sono stati scritti anche dei libri, a partire da quello che è poi divenuto il film cult Il diavolo veste Prada.

Nata a Londra il 3 novembre 1949, dal 1988 Anna Wintour è alla direzione della Bibbia della moda, Vogue America. Una carriera nel giornalismo di moda iniziata ad appena sedici anni: furono questi gli esordi di una donna che il successo lo aveva scritto nel DNA o, più semplicemente, nel carattere, ambizioso e freddo come pochi. Si racconta che quando Anna Wintour si presentò al colloquio per essere assunta da Vogue, Grace Mirabella, all’epoca direttrice della celebre testata, le chiese a quale posto ambisse. Lei rispose gelida, “il suo”. Già, perché le doti che occorrono per fare una simile carriera partono da qui: occorre essere all’occorrenza spietati, calcolatori e disciplinati, parola chiave che in molti tendono a dimenticare. Simbolo della moda a livello mondiale, dopo i fasti di Diana Vreeland si è aperta ufficialmente l’era di Anna Wintour.

Temuta e riverita, odiata e venerata, presenza fissa dei front-row delle sfilate, la Wintour è molto amica di Franca Sozzani, direttrice di Vogue Italia. Il carattere della giornalista britannica ha ispirato alla sua ex assistente Lauren Weisberger (sebbene quest’ultima non abbia mai dato conferma ufficiale) il bestseller Il diavolo veste Prada, scritto nel 2003 e poi diventato un film cult. Celebre l’interpretazione di Meryl Streep nei panni di Miranda Priestley, personaggio modellato ad immagine e somiglianza di Anna Wintour. Impossibile dimenticare le maniere brusche e il tono saccente con cui si rivolgeva alla timida ed insicura assistente Andrea Sachs, interpretata da Anne Hathaway. Secondo rumours il direttore di Vogue America non avrebbe assolutamente gradito il film incentrato sul romanzo della Weisberger e avrebbe addirittura intimato molti designer di non prendervi parte. Inoltre è chiaramente ispirato alla Wintour il look del personaggio di Fey Sommers nella serie televisiva Ugly Betty.

Anna Wintour ritratta da Ellen von Unwerth per Interview,1993
Anna Wintour ritratta da Ellen von Unwerth per Interview, 1993
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Anna Wintour è nata a Londra il 3 novembre 1949

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Dal 1988 la giornalista britannica è alla direzione di Vogue America


La direttrice di Vogue America è da sempre al centro di infinite polemiche: nota per favorire gli stilisti americani, tra i suoi protetti spiccano John Galliano, Marc Jacobs e Plum Sykes, un’assistente di Vogue diventata poi scrittrice di successo, contesa dall’élite modaiola di New York. Nella sua lista dei magnifici sette del fashion system spicca solo un nome italiano ed è quello di Miuccia Prada: vediamo spesso la Wintour indossare le sue creazioni.

Anna Wintour è protagonista del documentario The September Issue, che descrive il lavoro che sta dietro la pubblicazione del numero di settembre di Vogue, considerato il più importante dell’anno. Il documentario è opera del regista R. J. Cutler ed è stato premiato al Sundance Film Festival.

Spietata nei confronti delle persone in sovrappeso, la Wintour è spesso attaccata per le sue posizioni ferme e rigide. Pare che anche la celebre Ophrah Winfrey sia stata costretta a perdere ben venti chili per apparire sulla copertina di Vogue America. La stessa Grace Coddington, fashion editor sottoposta alla Wintour nella redazione del magazine, avrebbe ammesso che i canoni estetici della sua direttrice nel selezionare modelle e celebrities da fotografare sono obiettivamente estremi.


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Ma le polemiche non finiscono qui: la Wintour non ha mai nascosto il suo amore per le pellicce, attirandosi il malcontento di numerosi gruppi di animalisti, che più volte le hanno lanciato addosso vernice, uova e quant’altro. Accusata da molti stilisti italiani di privilegiare sfacciatamente la moda americana a danno di quella italiana, la Wintour ha più volte preteso (e spesso ottenuto) che i giorni della settimana della moda milanese venissero ridotti da sette a cinque. Ma ogni guerra ha i suoi combattenti: dichiaratamente schierati contro lo strapotere della Wintour sono stati Roberto Cavalli e Krizia, recentemente scomparsa, ma anche Giorgio Armani.

Apparentemente rigida e snob, nella vita privata la Wintour ha alle spalle un matrimonio fallito, con lo psichiatra David Shaffer, da cui sono nati i due figli Charles e Katherine (detta Bee), che la giornalista ha più volte tentato invano di convincere a lavorare nell’ambito moda. Intima amica di Ralph Lauren e Diane von Fürstenberg, pare che la giornalista conduca una routine giornaliera molto metodica, che prevede sveglia prestissimo al mattino, pasti estremamente ridotti e una passione per i cappuccini bollenti. La Wintour, per contratto dalla Condé Nast (la casa editrice che gestisce Vogue), ha uno stipendio annuo che supera i 2.000.000 di dollari, oltre ad avere un autista personale e –dulcis in fundo– un budget annuale di 200.000 dollari interamente destinato a coprire le spese di abbigliamento. Il sogno di ogni fashion victim, insomma.

La giornalista nel front row della sfilata Erdem
La giornalista nel front row della sfilata Erdem

Anna Wintour alla New York Fashion Week 2016
Anna Wintour alla New York Fashion Week 2016


Lo stile prediletto dall’algida giornalista prevede cappottini e tailleur dall’appeal bon ton; e se da giovane la celebre direttrice di Vogue non lesinava in lustrini e paillettes, oggi appare più sobria. Largo a stampe all over e gonne plissettate passepartout, sotto gli occhiali da sole e il caschetto d’ordinanza. Spesso in pelliccia -rigorosamente Fendi, Dior o Chanel– la Wintour sfoggia spesso capi firmati Prada, come nel titolo del film a lei dedicato. Ça va sans dire.


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Slim Keith: il fascino dell’imperfezione

La giacca maschile cade a pennello sui fianchi stretti; i capelli schiariti dal sole delle spiagge californiane sono raccolti con nonchalance in una coda da cui sbucano ciocche ribelli; la sigaretta tra le dita affusolate lascia il posto ad un sorriso che si allarga gioviale su un volto dai lineamenti marcati e dalla rara bellezza. Slim Keith è stata una socialite ed una tra le più sublimi icone di stile a cavallo tra gli anni Quaranta e Sessanta. Perfetta incarnazione della California girl, la sua leggendaria eleganza impresse un segno indelebile nella moda degli anni Quaranta e la rese iniziatrice del tomboy style.

Nancy “Slim” Keith nasce a Salinas, in California, il 15 luglio 1917. All’anagrafe Mary Raye Gross, la madre le cambia il nome in Nancy. Bionda e abbronzata, la figura snella forgiata dallo sport, le spalle larghe e il fisico atletico: Nancy cresce in salute e bellezza assaporando il sole della California. Ma la giovane è sempre più insofferente rispetto ai ristretti orizzonti culturali che respira nell’ambiente domestico. Il padre è un uomo d’affari di origine tedesca, bigotto e privo di amore, la madre un angelo del focolare senza alcuna ambizione personale. Quando i suoi genitori divorziano, la piccola Nancy sceglie di andare a vivere con la madre.

Iscritta ad una scuola cattolica, lascia gli studi un semestre prima del diploma. Affamata di vita e sicura di sé, la giovane fugge in moto nel deserto. L’istinto le dice di fermarsi in un resort situato nella Valle della Morte: è qui che inizia la sua scalata sociale, grazie all’incontro con William Powell. Vedendola emergere dalle acque di una piscina col suo fisico scultoreo, l’attore le dà il soprannome che la accompagnerà per tutta la vita, Slim, ovvero “snella”.

Slim Keith ritratta da Horst P. Horst per Vogue, Febbraio 1949
Slim Keith ritratta da Horst P. Horst per Vogue, Febbraio 1949
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Slim Keith a casa con un outfit disegnato da lei stessa. Foto di John Engsteadt per Harper’s Bazaar, 1945

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Alta e tonica, Slim Keith incarnò la tipica bellezza californiana


Grazie all’amicizia con Powell la ragazza incontra William Randolph Hearst e la sua compagna Marion Davies, per merito dei quali riesce ad affermarsi in pochissimo tempo come una delle socialite più famose di Hollywood: non vi è party a cui non presenzi, bella come una diva patinata la vediamo sorridere al fianco di divi del calibro di Gary Cooper e Cary Grant. La socialite diviene regina incontrastata del jet set internazionale, adorata tra gli altri da Clark Gable ed Ernest Hemingway. Ma l’ambizione di Slim non è soltanto quella di realizzarsi a livello lavorativo. Femme fatale spregiudicata e passionale, la futura icona di stile ha un debole per gli uomini.

Nel 1938 avviene l’incontro con quello che sarà il suo primo marito, il famoso regista Howard Hawks. Per lui è il classico colpo di fulmine: Hawks si invaghisce immediatamente di lei e fa di tutto per convincerla a sposarlo, sebbene egli sia già sposato da molti anni. Nella sua autobiografia, intitolata “Slim: Memorie di una vita ricca ed imperfetta“, la socialite racconta che nonappena la vide, Howard Hawks le disse “Sei la cosa più che straordinaria che abbia mai visto. Mi sposerai“. Quello che più piaceva in lei era il fatto che, sebbene fosse una gran bellezza, non nutriva alcun interesse per la carriera cinematografica. Ironica e divertente, le sue osservazioni erano acute e taglienti. Coraggiosa come nessuna, nelle sue memorie ammette candidamente che i suoi tre mariti furono un mezzo per avviare la sua portentosa scalata sociale: Slim Keith descrive Hawks dicendo che “Non era solo bello, affascinante e di successo, era esattamente il pacchetto che volevo. La carriera, la casa, le quattro auto, lo yacht —questa era la vita per me.” Nel 1941 i due convolano a nozze.

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Slim Keith, all’anagrafe Mary Raye Gross, nasce a Salinas, in California, il 15 luglio 1917
Slim Keith ritratta da Man Ray
Slim Keith ritratta da Man Ray
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Lo stile di Slim Keith, minimale e sobrio
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La socialite fu protagonista del jet set internazionale ed icona di stile

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Slim Keith fu presenza fissa della International Best Dressed List


Slim Keith fu anche talent scout ante litteram: fresca di matrimonio col regista hollywoodiano, sfogliando un numero della celebre rivista Harper’s Bazaar si imbatté nel volto di una giovane modella, ritratta da Louise Dahl-Wolfe: trattasi di Lauren Bacall, ultima scoperta della celebre fashion editor Diana Vreeland. Il fiuto di Slim le fa comprendere immediatamente il potenziale espressivo di quel viso; ne parla subito al marito e in pochissimo tempo la bella Lauren viene convocata per un provino e ottiene così il suo primo ruolo come attrice, nel film “Acque del Sud“, diretto da Hawks. Nella pellicola la Bacall flirta con Bogart —con cui nascerà una lunga storia d’amore— indossando i tailleur maschili di Slim, che le suggerisce anche molte delle battute, forgiando un personaggio a propria immagine e somiglianza. Ne viene fuori un capolavoro: lo charme di quella donna così a proprio agio nell’indossare abiti da uomo e nel fumare una sigaretta dopo l’altra diverrà emblema della bellezza anni Quaranta.

Malgrado la sua acuta intelligenza, la socialite dichiarerà di non essere stata altro che una specie di soprammobile per Hawks, una presenza prettamente decorativa. Il matrimonio non si rivelò affatto facile, anche a causa delle numerose infedeltà di lui. Poco dopo la nascita della loro figlia Kitty Hawks (oggi apprezzata interior designer), Slim si rifugia a L’Avana, dove chiede ospitalità all’amico di sempre, lo scrittore Ernest Hemingway. Ma la solitudine dura poco: qui incontra Leland Hayward, che sarà il suo secondo marito. Ricordato dalla socialite come l’unico grande amore della sua vita, Hayward e Slim si innamorano all’istante ma per convolare a nozze devono attendere il divorzio che li renderà liberi dalle rispettive unioni precedenti. La relazione tra i due dura ben dodici anni. E se per la socialite trovare un marito, possibilmente milionario e piacente, sembra essere facile come bere un bicchiere d’acqua, stavolta deve fare i conti con una pericolosa rivale: Pamela Churchill, socialite che le porta via in un battibaleno il cuore di Hayward. È un duro colpo per Slim: quell’uomo lei lo ha amato davvero. Ma tocca rialzarsi e asciugarsi le lacrime.

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Nel 1990 la socialite ha ultimato la sua autobiografia dal titolo “Slim: Memorie di una vita ricca e imperfetta”
Slim Keith in un abito in rayon di Adrian
Slim Keith in un abito in rayon di Adrian
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Lo stile di Slim Keith era innovativo per l’epoca: giacche maschili, capi sartoriali e linee pulite
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La socialite in un abito Charles James

Slim Keith, foto di Tony Frissell per Harper's Bazaar, 1947
Slim Keith, foto di Toni Frissell per Harper’s Bazaar, 1947


Passa poco tempo e si profila all’orizzonte una nuova conoscenza: trattasi stavolta del banchiere britannico Sir Kenneth Keith. Con lui la socialite convola a nozze ottenendo anche il titolo di Lady Keith. Un’unione di puro interesse, ritenuta da entrambi vantaggiosa: agli occhi di Kenneth —ricco ma sprovvisto del savoir faire dei due precedenti mariti di Slim— appare molto conveniente sposare una donna bella, economicamente indipendente e dalle conoscenze altolocate. Lady Slim Kenneth dal canto suo si accontenta di dividersi tra l’appartamento londinese e l’enorme tenuta in campagna risalente al diciottesimo secolo, chiamata The Wicken: qui Slim non smette di risplendere tra un party e un altro. Ma le feste leggendarie e il lusso sembrano non essere sufficienti a tenere in piedi quest’unione in cui manca l’elemento fondamentale, l’amore. Dopo dieci anni anche questo matrimonio naufraga inesorabilmente.

Slim si rifugia nella sua sfera di amicizie, tra cui spiccano Babe Paley, socialite anche lei ed indimenticabile icona di stile nonché cigno prediletto da Truman Capote, Diana Vreeland e lo stesso Capote, che la chiama affettuosamente Big Mama. Ma l’amicizia che lega i due viene bruscamente interrotta a seguito di alcune indiscrezioni sul romanzo scritto da Capote “Preghiere esaudite“: nel volume, rimasto poi incompiuto, lo scrittore avrebbe tratto ispirazione da Slim per il personaggio di Lady Coolbirth.

La socialite è furiosa e bandisce per sempre dalle sue conoscenze Capote, sebbene alcune fonti sostengono che fu in realtà Pamela Harriman ad ispirare a Capote la figura di Lady Coolbirth. Inoltre nel romanzo compare anche Babe Paley, amica di lunga data di Slim. È quando quest’ultima muore di cancro che l’universo patinato su cui si fonda l’intera esistenza di Slim inizia a vacillare in modo spaventoso. Lei continua a viaggiare e a trarre diletto dalle sue attività come socialite, che hanno sede principalmente a New York, da lei definita “una città troppo piccola per poter evitare qualcuno“. Anziana e leggermente appesantita, l’icona di stile non perde un evento, presentandosi sempre armata del consueto sorriso.

Uno scatto del 1947
Uno scatto del 1947
Sigaretta in bocca, anni Quaranta
Sigaretta in bocca, Slim Keith incarnò l’emblema dello charme anni Quaranta
Slim Hayward Keith in Spain. Photo taken by Leland Hayward
Slim Keith in Spagna, in una foto scattata dal suo secondo marito, Leland Hayward
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Slim Keith con la figlia Kitty, ora apprezzata interior designer
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La socialite in uno scatto del 1948

Slim Keith e James Stewart al Waldorf Asroeia, 1948. Foto di Bettmann/CORBIS
Slim Keith e James Stewart al Waldorf Astoria, 1948


Data la sua voce argentina e squillante considera per un istante anche la possibilità di darsi al bel canto, iniziando una carriera come cantante lirica. Ma in breve abbandona questo proposito. Grande fumatrice, Slim Keith muore di cancro ai polmoni il 6 aprile del 1990.

Il suo stile leggendario la rese icona indimenticabile, tanto che sono ancora in molti a ricordarla, a partire dal film di Douglas McGratInfamous – Una pessima reputazione” (2006), in cui Slim Keith è interpretata da Hope Davis. La socialite ci ha lasciato la sua autobiografia, scritta nel 1990 e avente titolo emblematico: “Slim: Memorie di una vita ricca e imperfetta“. Nel libro l’icona di stile ripercorre con la consueta ironia alcuni aneddoti della sua vita, come la cartolina ricevuta da Clark Gable dall’Europa, nel 1947, dove il divo le scriveva solo “Sei meravigliosa“. Allorché il secondo marito Leland Hayward le chiese cosa mai avesse fatto così per essere così meravigliosa, lei rispose: “Riuscivo ad essere meravigliosa in modo meraviglioso“.

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Slim Keith col secondo marito, Leland Hayward
Slim Keith con Diana e Reed Vreeland al party organizzato da Kitty Miller per la vigilia di Capodanno, 1952
Slim Keith con Diana e Reed Vreeland al party organizzato da Kitty Miller per la vigilia di Capodanno, 1952
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Slim Keith mentre riceve il prestigioso Neiman Marcus Fashion Award, 1946
Lady Keith a Lyford Cay, aprile 1974. (Foto di Slim Aarons, Hulton Archive, Getty Images)
Lady Keith a Lyford Cay, Bahamas, aprile 1974 (Foto di Slim Aarons, Hulton Archive, Getty Images)
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La socialite ritratta da Horst P. Horst in uno dei suoi appartamenti

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Slim Keith morì il 6 aprile 1990


Presenza fissa della International Best Dressed List creata nel 1940 da Eleanor Lambert, nel 1946 Slim Keith fu insignita del prestigioso Neiman Marcus Fashion Award. Immortalata da fotografi del calibro di Man Ray, Horst P. Horst e Toni Frissell, ad appena 22 anni la bella Slim posa già come una diva consumata per Harper’s Bazaar, di cui ottiene anche la cover. Irriverente e moderna, il suo stile segna l’avvento di un nuovo concetto di eleganza che si discosta moltissimo dal passato: Slim Keith è assai lontana dall’ideale di perfezione tanto in voga in quegli anni. La sua personalità scoppiettante non ambisce di certo ad uniformarsi alla fredda perfezione dei celeberrimi cigni di Truman Capote. Altera e sofisticata, non è tuttavia glaciale come le bionde eroine dei film di Hitchcock. La sua vita è stata la parabola di una donna forse imperfetta ma certamente autentica e forse proprio in virtù di questo di un’eleganza genuina.

Nel suo guardaroba spiccano capi che potremmo definire sportswear ante litteram. La socialite era solita indossare abiti comodi e sporty-chic, come giacche da fantino e pantaloni, gonne in lana, dolcevita a collo alto e occhiali da sole che le conferivano un appeal da diva. Estimatrice del minimalismo chic, prediligeva linee essenziali e pulite anche per la sera. Ma la sua incontenibile personalità è il cardine della sua eleganza evergreen.


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Spegne oggi 69 candeline Jane Birkin. Bellezza iconica degli anni Sessanta e Settanta, spregiudicata, maliziosa come nessuna, l’attrice e cantante britannica non ha perso assolutamente il suo celebre fascino.

La caratteristica frangetta, il sedere rotondo immortalato in foto scandalose al fianco di Serge Gainsbourg: non c’è dettaglio della vita di Jane Birkin che non sia divenuto iconico, dai suoi amori ai suoi film. Incarnazione dello stile fresco eppure sofisticato tipicamente anni Sessanta, l’attrice è uno dei volti più noti e più chiacchierati degli ultimi cinquant’anni.

Nata a Londra il 14 dicembre 1946, Jane Mallory Birkin discende da una famiglia che ha fatto fortuna con l’industria del merletto nel Nottinghamshire. Il fascino doveva essere nel DNA, dal momento che una sua prozia, Winifred (Freda) May Birkin, poi sposata con William Dudley Ward, fu amante del Principe di Galles (il futuro Edoardo VIII del Regno Unito, nonché Duca di Windsor). Il padre della bella Jane, il maggiore David Birkin, era stato comandante della Royal Navy ed eroe della seconda guerra mondiale e fu coinvolto anche in vicende di spionaggio; la madre era l’attrice e cantante Judy Campbell (pseudonimo di Judy Gamble), famosa per le sue interpretazioni nei musical di Noël Coward.

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Jane Birkin è nata a Londra il 14 dicembre 1946

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L’attrice ha raggiunto la fama mondiale con il film “Blow-up” di Michelangelo Antonioni


Occhi da cerbiatto e fascino torbido che fa capolino dietro l’aria innocente, Jane comincia la carriera di attrice teatrale all’età di 17 anni: siamo nella Swinging London e il suo stile ammalia un nome storico della moda made in UK del calibro di Ossie Clark. Successivamente Jane fa il suo esordio come cantante in un musical: è in questo contesto che conosce il compositore inglese John Barry (autore anche di alcune musiche per i film di James Bond): tra i due nasce una relazione che sfocia in un matrimonio celebrato quando Jane ha appena 19 anni. Dalle nozze nasce la prima figlia della futura icona di stile, Kate Barry, nata nel 1967 (scomparsa prematuramente a Parigi, probabilmente suicida, l’11 dicembre 2013, dopo essere precipitata dal quarto piano del suo appartamento nel XVI Arrondissement).


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L’esordio cinematografico di Jane Birkin avviene con il film “Non tutti ce l’hanno” (The Knack …and How to Get It) di Richard Lester, ma è con la pellicola successiva, l’indimenticabile Blow-up di Michelangelo Antonioni, che l’attrice ottiene la fama. Una scena la immortala in topless: la bellezza acqua e sapone la rende immediatamente un’icona della scena londinese. Nel 1968 l’attrice si trasferisce in Francia: qui avviene l’incontro della vita, con il cantante e musicista Serge Gainsbourg, con cui intraprende una relazione che durerà fino al 1980. Una coppia inimitabile, il fascino di lui capace di sposarsi così bene con la bellezza di lei, musa quasi forgiata dalle mani esperte e dalla fantasia del grande cantautore francese. Nel 1969 arriva la canzone scandalo, con tanto di gemiti e sospiri, Je t’aime…moi non plus, originariamente incisa da Gainsbourg insieme a Brigitte Bardot e poi cantata invece con la Birkin. Due anni più tardi, nel 1971, nasce Charlotte Gainsbourg, che diventerà anche lei attrice e cantante.

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La bellezza acqua e sapone di Jane Birkin l’ha resa una grande icona di stile

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L’attrice ne “La piscina” del 1969


Al termine della relazione con Gainsbourg, Jane Birkin ha continuato con grande successo la carriera di attrice. Inoltre la diva ha trovato un nuovo amore nel regista francese Jacques Doillon, da cui ha avuto la figlia Lou, nata nel 1982 e divenuta famosa come modella. Una carriera sfolgorante nel cinema e nel teatro, un’immagine che le ha permesso di divenire una vera e propria icona, un’esperienza anche come fashion designer al fianco della figlia Lou (le due hanno firmato insieme una collezione per il brand La Redoute), Jane Birkin ha anche una borsa a suo nome, la mitica Birkin firmata Hermès, che la diva ha recentemente rinnegato per motivi ambientalisti. Vero e proprio oggetto di culto, It Bag tra le più costose al mondo (il prezzo varia dai 6.000 ai 120.000 euro), la celebre borsa porta il nome dell’attrice, che però lo scorso luglio ne ha disconosciuto la paternità.

Oggi la diva compie 69 anni: bellezza naturale, fieramente contraria alla chirurgia estetica, gli anni non ne hanno minimamente scalfito la classe e il grande fascino.


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