L’attore è morto dopo una breve malattia. Aveva 89 anni. È stato l’interprete più longevo del personaggio creato da Ian Fleming.
“È con il cuore pesante che dobbiamo annunciare che il nostro amorevole padre, Sir Roger Moore, è morto oggi in Svizzera dopo una breve e coraggiosa battaglia contro il cancro”. Così Deborah, Geoffrey e Christian, i figli dell’attore britannico, hanno annunciato con un tweet la scomparsa del padre, 89 anni, avvenuta in Svizzera. “L’amore con il quale è stato circondato nei suoi ultimi giorni è stato così immenso che non può essere quantificato con le sole parole”.
Quello stesso amore con il quale il pubblico, negli anni, ha ripagato la lunga e ricca carriera di uno degli attori più popolari del piccolo e grande schermo. Dai film in cui ha interpretato l’agente segreto di sua maestà (ben sette, è stato il più lungevo nel ruolo di Bond) alle serie tv, celebri anche in Italia, come Il santo, con il suo ladro gentleman Simon templar, o Attenti a quei due o, prima ancora, Ivanohoe.
Figlio di un agente di polizia, negli anni quaranta viene arruolato nell’esercito britannico poco dopo la fine della seconda guerra mondiale, prestando servizio per un certo periodo nella Germania Ovest, per poi dedicarsi al teatro e in seguito al cinema.
Dopo la serie televisiva Ivanhoe (1958), trasmessa poi in Italia nei primi anni sessanta alla Tv dei ragazzi, a cui seguono The Alaskans e Maverick, è la serie Il Santo, dove interpreta il ladro gentiluomo Simon Templar, ad aprire definitivamente le porte del successo a Roger Moore. La prima serie di questo filone è datata 1962 ed è girata ancora in bianco e nero, mentre la seconda (a colori) prende il via nel 1966. L’attore veste questo ruolo dal 1962 al 1969 e alcuni degli episodi sono stati adattati per il grande schermo.
La carriera televisiva di Roger Moore si arricchisce di un ulteriore successo grazie alla serie Attenti a quei due, telefilm, che nel 1971 lo vede al fianco di Tony Curtis. Questa serie in Italia arriva solo nel 1973 ed è un trionfo.
Nello stesso anno l’attore inglese eredita il ruolo di James Bond, l’agente segreto precedentemente portato al successo dallo scozzese Sean Connery. I produttori permettono a Moore di adottare qualche modifica rispetto al Bond di Connery, onde evitare le recensioni negative che già avevano colpito il primo sostituto di Connery, George Lazenby. L’esordio di Moore in Agente 007 – Vivi e lascia morire riscuote un successo strepitoso sia di critica sia di incassi. A questo punto la notorietà del personaggio (e anche del suo nuovo interprete) crescono ulteriormente. Roger Moore interpreta nel frattempo altre quattro pellicole della saga, Agente 007 – L’uomo dalla pistola d’oro, La spia che mi amava, Moonraker – Operazione spazio, Solo per i tuoi occhi, ma comincia a essere stanco del personaggio.
L’ultimo Bond di Moore fu in 007 – Bersaglio mobile (1985), all’età di 58 anni, criticato dallo stesso attore per la sua violenza e in parte rinnegato in quanto si sentiva troppo anziano per la parte. Fino a oggi, Moore è l’interprete che, nella serie ufficiale, ha interpretato più volte il ruolo di 007.
Dal 1990 Roger Moore è Ambasciatore Umanitario per conto dell’Unicef, l’Ente Mondiale che tutela i diritti dell’infanzia. L’attore svolge questo incarico con costante impegno e si fa spesso promotore di campagne di sensibilizzazione. Nel 2003 la Regina Elisabetta II lo ha nominato Cavaliere dell’Impero Britannico, da cui il titolo di Sir.
Sposato dal 2002 con la multimilionaria di origini danesi e svedesi Kristina Tholstrup, Moore aveva alle spalle tre precedenti matrimoni; nel 2011 è tornato a recitare prendendo parte alla commedia natalizia Natale a Castlebury Hall, mentre nel 2013 partecipa al tv-movie The Saint, remake della famosa serie-tv degli anni sessanta di cui fu protagonista.
Si spegne il 23 maggio 2017, all’età di 89 anni e 7 mesi, a Crans-Montana, dopo una breve e intensa lotta contro il cancro. I funerali si sono svolti, per suo testamento, in forma privata, a Monaco.
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Tag: Hollywood
Addio a Manlio Rocchetti : un truccatore da Oscar di fama mondiale
Beauty – Manlio Rocchetti , 73 anni , orgoglio italiano del trucco cinematografico, uomo talentuoso dall’animo nobile, ci ha lasciati tre giorni fa durante la sua permanenza in Florida.
Lo chiamavano il truccatore delle star: alle spalle aveva una gloriosa carriera ricca di successi.
Nato a Roma nel 1943 da una famiglia d’arte che si è sempre occupata di fornire parrucche al mondo dello spettacolo, Rocchetti è il rappresentante di una delle più famose famiglie italiane della storia del cinema, ma è anche il nostro unico connazionale italiano che sia mai stato premiato con un Academy Award per il miglior make-up.
Suo zio ebbe ruolo fondamentale nella sua vita in quanto lo indirizzo’ alla carriera del truccatore debuttando poi nella pellicola di Renato Castellani sulla vita di Giuseppe Verdi.
La sua carriera ebbe così inizio nei primi anni sessanta.
Il 1989 è stato il turno dell’Oscar al miglior trucco per A spasso con Daisy, il film con Morgan Freeman e Jessica Tandy.
Nel 1989 conquista un Emmy Award per il film Lonesome Dove, ha raccolto un sacco di nomination agli Emmy Awards e premi BAFTA. Con una carriera di oltre 60 film (La nuit de Varennes, C’era una volta in America, Il principe delle maree, Ricordando Hemingway, Il Libro, L’avvocato del diavolo, Brokeback Mountain, ecc), Manlio Rocchetti è stato make-up artist di scelta per Martin Scorsese, con il quale ha collaborato a l’ultima tentazione di Cristo, l’età dell’innocenza,Gangs of New York e Shutter Island.
Tutti i diritti riservati Rocchetti&Rocchetti
Negli ultimi anni Manlio non ha mai smesso di dedicarsi al suo mestiere con passione , lavorando costantemente a Roma nella sua boutique storica di parrucai e a Bologna trasmettendo ai ragazzi sua metodologia come docente di trucco cinematografico all’accademia nazionale del cinema.
Rocchetti ha lavorato per i più grandi registi del cinema italiano e internazionale, come Sergio Leone, Federico Fellini, Pier Paolo Pasolini, Roberto Rossellini, Ettore Scola, Martin Scorsese, Brian De Palma.
Tra gli attori al quale ha curato il make-up, le seguenti persone si distinguono: Al Pacino, Robert De Niro, Sean Connery, George Clooney, Leonardo Di Caprio, Jack Nicholson, Robert Duvall, Kevin Costner, Matt Damon, Charlize Theron, Morgan Freeman, Winona Ryder, Anthony Hopkins, Liza Minnelli, Keanu Reeves, Michael Caine..
Un persona umile , che ha sempre elogiato la fatica , il sudore , la determinazione , un maestro nel lavoro e nella vita.
“Non bisogna credere di essere il più bravo, bisogna dimostrarlo. Il complimento deve arrivare dagli altri e non da se stessi, non bisogna autoincensarsi”, citava.
Qui delle interessanti interviste dove Rocchetti si racconta.
Rocchetti & Rocchetti
interview with Manlio
Modificata la scritta Hollywood
Scherzo goliardico o aperta provocazione? Questo è il dilemma che ha scosso gli abitanti di Los Angeles, che hanno iniziato il 2017 con una inaspettata sorpresa. La celebre scritta che campeggia ad Hollywood è stata infatti modificata: da Hollywood ad Hollyweed, con esplicito riferimento alla marijuana (“weed” in slang americano), da oggi legalizzata in tutta la California.
Il consumo, la vendita e il possesso di erba è quindi divenuto legale a seguito del referendum dello scorso novembre: e forse proprio per festeggiare questa novità qualcuno nella notte dell’ultimo dell’anno, dopo essersi arrampicato sulla collina di Hollywood, ha modificato la celebre scritta, coprendo con due teli neri le due lettere “o”, trasformandole così in due “e”.
L’autore dell’atto vandalico, rimasto ignoto, è ricercato dalla polizia di Los Angeles, che ha annunciato che setaccerà le registrazioni delle telecamere di sorveglianza per identificare il responsabile. Intanto la zona è divenuta luogo di pellegrinaggio per centinaia di persone, che hanno immortalato la scritta, pubblicandola su tutti i social network.
Non è la prima volta che il celebre cartello diviene oggetto di atti di vandalismo: già nel lontano 1976 Danny Finegood modificava la celebre scritta in “Hollyweed”, per celebrare l’entrata in vigore di una legge che depenalizzava il possesso di cannabis in California.
La scritta “Hollywood”, simbolo dell’industria cinematografica più importante del mondo, campeggia sulla collina di Los Angeles da più di novant’anni. Illuminata da migliaia di lampadine, la scritta nacque originariamente come “Hollywoodland” e venne concepita allo scopo di pubblicizzare la vendita delle abitazioni di un nuovo quartiere ancora in costruzione. Allo scoppio della Grande Depressione la scritta venne abbandonata e nel 1949 venne ceduta alla città di Los Angeles, divenendo il simbolo della città.
(Foto cover: Twitter)
James Dean: il fascino del “Bello e Maledetto”
James Dean, riassume nella sua persona il titolo del suo più celebre film: Gioventù Bruciata. Pellicola nella quale ricopre il ruolo di un adolescente ribelle, dal nome Jim Stark. La sua incredibile popolarità deriva da soli tre film di cui è stato protagonista: La valle dell’Eden, Gioventù Bruciata ed Il gigante. Egli rappresenta una celeberrima icona culturale, sicuramente senza tempo, da cui ancora oggi molte persone traggono spunto sia per l’intramontabile classe nell’abbigliamento e sia per il suo atteggiamento da “Bello e Maledetto”.
Studiò recitazione, frequentò l’Actors Studio e fu scelto, a soli 20 anni, per interpretare il personaggio di Cal Trask, nel film La valle dell’Eden. A James Dean si aprirono immediatamente le porte del successo e fu presto considerato un eroe della gioventù americana, rappresentante del suo straniamento e della sua incomprensione: portavoce di un’intera generazione.
Lo stile di James Dean era semplice e pratico, rispecchiava i tempi che stava vivendo: contrario al conformismo e agli status sociali. Pettegolezzi dell’epoca sul suo conto lo ritraggono come un ragazzo amante del pericolo e bisessuale: frequentò i letti di molti personaggi di spicco del suo tempo. Una delle sue più grandi passioni fu quella per le auto, in particolar modo per le Porsche. Fu proprio su uno di questi veicoli brillanti che trovò la morte a soli a soli 24 anni, la sera del 30 settembre 1955 per la precisione, quando la sua Porsche Spider non poté evitare la collisione con un altro veicolo che aveva invaso la corsia che stava percorrendo.
Il suo motto fu:
“Sogna come se potessi vivere in eterno, vivi come se dovessi morire oggi”
I capi che lo contraddistinguono sono:
– I jeans Lee 101 Riders a sigaretta, taglio classico
– La polo a maniche corte bianca
– Giubbino di pelle nero
– Maglioni dalle tonalità marrone e ocra
– Completi eleganti sartoriali, dalle linee morbide
– Converse e stivaletti classici
Uno stile easy-chic, casual senza mai apparire indossato per caso, ma ancora impregnato di quella carica eversiva che gli ha regalato Dean, che torna a conquistare la moda. Le giacche a vento, perfetto connubio tra sport ed eleganza cittadina, capospalla ideale nei climi di transizione, hanno volumi definiti, lineari, ma la consistenza di materiali iper-moderni, neoprene e tessuti impermeabili di ultima generazione e si colorano di nuance accese, vitaminiche. L’abbinata perfetta è con il jeans a gamba dritta, dalle venature che gli regalano un’allure vissuta. Sono proprio i pantaloni il centro focale del look; sportivi con il giubbotto a vento, assumono un’aria di rilassata nonchalance se abbinati ad un blazer in tweed, la t-shirt coperta da una camicia di un bianco immacolato, come J. Compendio essenziale, boots in pelle, Chelsea e stivaletti.
James Dean rappresenta l’adolescente tipico con la sua espressione mutevole di un’età che custodisce gli stupori dell’infanzia, nella loro disarmante spontaneità, e l’asprezza di chi si affaccia al mondo incomprensibile degli adulti e cerca di abbatterne quelle convenzioni soffocanti, provando ad affermare quell’io ancora sfuggente a se stesso. Un’età senza età, la prima età in cui l’uomo comincia a vivere e che non dura mai abbastanza, quell’età immersa in mille pensieri e la cui profondità dello sguardo si perde in un orizzonte che solo pochi riescono ancora a vedere o forse non hanno mai visto. James Dean incarna l’età che da sempre irrita i conservatori per quella spasmodica ricerca di risposte sul motivo della nostra esistenza su questa terra, in cui i sentimenti vengono estremizzati, l’amore idealizzato e l’umore diventa vittima altalenante di ribellioni urlate ed altre ostinatamente silenziose.
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Andiamo verso la stagione autunnale e mi sembra doveroso consigliare agli uomini che vogliono farsi ispirare dalle vere icone di stile, un capo reso celebre da un certo signore, Robert Redford.
Il capo in questione è il Caban, un classico intramontabile, il cosiddetto giaccone da marinaio, diffuso ampiamente fra la gente di mare, pescatori e marinai, fin dal Settecento, dal Nord Europa al Nord America. In panno blu abbastanza pesante (circa 800 gr), presenta questi dettagli classici:
– doppiopetto con sei grossi bottoni;
– ampi revers che si possono chiudere e allacciare con un sottogola;
– maniche a giro;
– due tasche scaldamani verticali;
– linea dritta, confortevole;
– lunghezza a metà coscia.
Il 18 agosto del 1936 nasceva Robert Redford, uno degli attori e registi più carismatici e talentuosi di sempre, aiutato anche da un fascino che non passava inosservato… occhi azzurri, capelli biondi e un viso spigoloso che ancora oggi riscuote tanto successo, malgrado qualche ruga e la chioma imbiancata.
È facile dirlo adesso, ché è arrivato a 80 anni e quindi è ovvio tirare le somme, ma i tipi alla Robert Redford sembrano nati per contraddire e per avere, alla fine, sempre ragione loro. Sarà che è nato in un anno da uomini alfa, il 1936, lo stesso di Papa Francesco e di una pletora di fondatori di imperi. Sarà che al cinema ha messo assieme un bel campionario di outsider, personaggi ben determinati a smontare il sistema (da “La stangata” a “I tre giorni del Condor”). Sarà che viene da una famiglia scozzese-irlandese, ma il punto è: in quanti, Redford a parte, sarebbero riusciti ad impiantare un festival cinematografico sotto la neve dello Utah, nella terra dei Mormoni, una cosa nata con 13 volontari e che oggi attira 50 mila spettatori?
Redford possiede il fascino della sua terra, la California: indomito, primordiale, ribelle. Un luogo insieme elitario e popolare, con un’atmosfera incomparabile che nasce da un tormento interiore, impetuoso come le onde marine e il vento che smuove le cime dei pini marittimi. Robert Redford è l’esponente perfetto di un’estetica senza fronzoli e orpelli, che si nutre dell’essenziale, donando una luce particolare e personale ad ogni cosa.
In gioventù visse un periodo turbolento: figlio di una casalinga e di un lattaio, quando la madre morì, all’età di 19 anni decise di sperimentare la vita bohèmienne degli artisti europei, girando per l’Italia e la Francia. La delusione scaturita da questa esperienza fu così forte che tornò negli Stati Uniti e dopo l’incontro con la prima moglie, smise di bere e si iscrisse nel 1958 al “Prat Institut” di New York per studiare arte. Nello stesso anno uno dei suoi professori gli affidò il primo ruolo a Broadway e nel 1962, dopo alcune esperienze televisive, fece il suo debutto cinematografico come protagonista in “Caccia di Guerra” per la regia di Denis Sanders.
Consapevole del suo aspetto, estremamente americano, da ragazzo della porta accanto, è riuscito con il tempo a trasformarlo in un punto di forza, con un tocco di ironia che ha permeato ogni suo personaggio, anche quelli più drammatici. Robert Redford sapeva di essere un cliché vivente, la versione a tre dimensioni del nebuloso “sogno americano”, e su questo lavorava e attraverso questo si divertiva a stravolgere stereotipi e a demolire certezze. Cominciando dallo stile, del tutto diverso da quello che ci si sarebbe aspettati da un uomo con la sua fisicità e la sua presenza: un po’ British, un po’ reporter d’assalto, composto da giacche e berretti di tweed abbinati a jeans leggermente scampanati, completi sartoriali con camicie sportive, occhiali da aviatore con lenti fumé.
Nei suoi film, dava il meglio di sé nelle vesti di gentiluomo rampante, un po’ sprezzante, come il personaggio che interpretò ne “Il Grande Gatsby” nel 1974, vestito interamente da Ralph Lauren con abiti su misura e come non ricordarlo nei panni di John Gage in “Proposta Indecente” con la stupenda Demi Moore.
Non si può far finta di non vedere.
La moda maschile di questi tempi è zeppa di citazioni prese dal passato. Il lascito è evidente come un tratto genetico. Dal peacoat stile Robert Redford nei “Tre giorni del condor”, al giubbotto di James Dean in “Gioventù bruciata”. E poi il cappotto cammello di Richard Gere in “American Gigolò”, al berretto sempre di Redford nella “Stangata”. Uno stile cha fa venir voglia di aprire i bauli e tirare fuori pezzi d’epoca. Vintage va bene, anche perché potrebbe dare quel quid in più di personale allo stile, che stuzzica la sensibilità (modaiola) femminile, ma non bisogna esagerare. Altrimenti si rischia di sembrare un simpatico signore agé in gita a Las Vegas.
Banditi gentiluomini, miliardari libertini, giornalisti, cacciatori: Robert Redford ha dato volto e stile alle icone maschili di tre generazioni.
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Definito come “il vero ribelle di Hollywood”, Marlon Brando ha rappresentato e rappresenta il simbolo di una cultura giovanile ribelle alle regole e alle convenzioni, un sex symbol di un’America appena uscita dalla guerra, con una forte voglia di cambiamento.
Il suo stile camaleontico è cambiato nel corso degli anni, in un gioco in cui è sempre stato lui a dettare le regole, ad esempio indossando jeans alle prime dei suoi film. Un carisma ed uno charme unici, capaci di rendere il suo iconico biker look fresco come fosse ancora nel suo periodo d’oro. Celebre per la sua rude mascolinità ed il suo sguardo pensieroso, fece sì che ogni ragazzo americano volesse diventare come lui, e ogni ragazza andasse in estasi vedendolo.
Nato ad Omaha, Nebraska, nel 1924, suo padre era un fabbricante di prodotti chimici di origine francese, mentre la madre era un’attrice. Brando, dopo l’Accademia Militare nel Minnesota, dalla quale fu espulso, frequentò la Nuova Scuola per la Ricerca Sociale e si trasferì poi a New York dove iniziarono i suoi studi in Arte Drammatica, diventando poi membro dell’Actor Studio dove fu allievo della acclamata Stella Alder, da cui apprese la tecnica attoriale del cosiddetto “Metodo Stanislavsky”. La sua grande occasione arrivò con il film “Un tram si chiama desiderio”, del 1951, per il quale ottenne la nomination all’Oscar come Migliore Attore.
Il suo inconfondibile stile iconico: Jeans e Maglietta
Jeans, T-Shirt bianca e giubbotto di pelle. Gli abiti indossati nel film “Il Selvaggio” del 1954, lo celebrarono Sex Symbol del momento, a fianco di James Dean e Montgomery Clift. Una chiave di lettura che ben riassume il suo essere fuori dagli schemi, un anti-eroe dallo spiccato lato oscuro. Una simbologia ripresa nel corso della storia del cinema e del piccolo schermo, con figure come Fonzie e Dylan McKay, gli anti-eroi di Happy Days e Beverly Hills 90210.
Per l’interpretazione di questo film, decise di frequentare diverse bande giovanili come quelle della pellicola, metodo Stanislavsky VOTO: 10
Così come molti attori del tempo, Brando possedeva uno stile unico, quasi una firma: il binomio T-Shirt bianca e blue jeans fu uno dei suoi principali look, accostato da un pacchetto di sigarette nella mano; la foto celebre in sella alla sua Triumph rossa del film “Il Selvaggio”, rese la giacca di pelle un must per i giovani, tutti volevano apparire con un’immagine mascolina da bad boy, ed ancora oggi se si sceglie di indossare un chiodo di pelle, sono convinto che si debba ringraziare il mood Brando. Con quel suo innegabile appeal, è diventato una Icona di stile senza tempo.
Brando conosceva anche l’eleganza, sapeva indossare bene un abito e quando lo faceva appariva terribilmente affascinante; nodo della cravatta stretto sopra, giacca abbottonata con rever a lancia, brillantina nei capelli, insomma, non c’è da stupirsi se ancora oggi il suo stile continui ad essere così influente. Come non ricordare la sua interpretazione nel “Padrino” di Francis Ford Coppola, dove durante il provino improvvisò lui stesso il trucco perfetto per Don Vito Corleone.
Il suo è un fascino da gioventù bruciata, molto in voga nel dopoguerra americano, segnato dalla guerra fredda e dall’avvento del nuovo benessere. La genesi di un mito e il ritratto della periferia americana, della sua realtà più vera e della costante voglia di evadere, di andare contro il sistema. Marlon Brando attraversa il XX secolo, riassumendo bellezza e dannazione e si rispecchia nel suo tempo. Il volto della seduzione, della sessualità, del crimine e del male lo rendono uno dei maggiori esponenti del ‘900, lato oscuro che caratterizza purtroppo anche la sua vita privata, i suoi amori, i suoi affetti famigliari e la sua morte nel 2004, solo ed in bancarotta.
Io lo ricordo così:
“Comprendere il pieno significato della vita è il dovere dell’attore, interpretarlo è il suo problema, ed esprimerlo è la sua passione”
Marlon Brando
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Nasceva oggi Jayne Mansfield, bella e sfortunata
Nasceva oggi Jane Mansfield, conturbante attrice hollywoodiana, simbolo di un’epoca e storica rivale di Marilyn Monroe. Curve da capogiro e capelli biondo platino, l’attrice è stata a lungo considerata un sex symbol. Autentica bombshell, sublime incarnazione della bellezza anni Cinquanta, si fece strada dalle pagine di Playboy fino alla celebrità.
All’anagrafe Vera Jayne Palmer, nacque a Bryn Mawr il 19 aprile 1933. Figlia unica di Herbert William Palmer e Vera Jeffrey, i suoi antenati erano immigrati dall’Inghilterra, mentre dal ramo paterno aveva origini tedesche. Il padre, avvocato, muore a causa di un infarto quando la piccola ha appena tre anni. Dopo la sua morte, è la madre a dover provvedere alla famiglia, iniziando a lavorare come maestra, fino al secondo matrimonio con Harry Lawrence Peers e al trasferimento dal New Jersey al Texas. Jayne a sette anni suona il violino e si esibisce per strada per raccimolare qualcosa. Ben presto sorge in lei il sogno di divenire un’attrice.
Nel 1950, ad appena 16 anni, convola a nozze con Paul Mansfield e mette alla luce la sua prima figlia, Jayne Marie Mansfield, nata l’8 novembre 1950. Dopo il trasferimento ad Austin Jayne studia con successo teatro e fisica all’Università del Texas. A Dallas avviene l’incontro che la introduce nel mondo del cinema, con Baruch Lumet, padre del regista Sidney Lumet, di cui Jayne segue le lezioni al Dallas Institute of the Performing Arts, da lui fondata. La prima apparizione sul palcoscenico è del 22 ottobre 1953, nella piece Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller.
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Sempre in Texas Jayne diviene una reginetta dei concorsi di bellezza. Ma la grande avvenenza fisica ne ha a lungo oscurato la personalità. Pochi sanno che la bionda esplosiva -dal titolo di uno dei suoi film- vantava un quoziente intellettivo superiore al genio della fisica Albert Einstein (162 contro 160); inoltre l’attrice parlava correttamente cinque lingue e suonava il violino e il pianoforte. Nel 1954 l’attrice si trasferisce col marito e la figlia a Los Angeles; qui studiò teatro all’Università della California. La sua carriera cinematografica iniziò nel modo più inaspettato: venne infatti scritturata dalla 20th Century Fox come sostituta di Marilyn. Female Jungle (1954) è una delle pellicole iniziali girate dalla Mansfield, che diviene playmate del mese sulla rivista Playboy nel febbraio 1955. L’anno seguente venne premiata col Theatre World Award per la sua interpretazione nella commedia di George Axelrod Will Success Spoil Rock Hunter?
La prorompente bellezza di Jayne Mansfield continuava ad oscurarne la capacità interpretativa e ben presto l’attrice si ritrovò a fare i conti con l’immagine di oca giuliva che il pubblico le aveva ormai cucito addosso: quasi paradossale, per una donna tanto intelligente, dover sottostare a questo cliché. Ma la grandezza spesso sottovalutata della bellissima Mansfield sta anche nell’essere riuscita nell’ingrato compito di gestire la fama e l’immagine che i media le avevano appioppato sfruttandola a suo favore: ben presto Jayne inizia a rendersi protagonista di piccoli incidenti che ne sottolineano la procace bellezza. Celebre è lo scatto che la ritrae accanto a Sophia Loren in una cena in onore di quest’ultima, nel 1957. Qui Jayne perde una spallina, e l’incidente entra nel mito. Ma non tutti apprezzarono questi atteggiamenti, a partire da Richard Blackwell, che curava il suo guardaroba, che la eliminò dalla sua clientela.
Vanitosa e sopra le righe, l’attrice non era una patita del less is more: famoso è il suo Palazzo Rosa, l’enorme villa di quaranta stanze che l’attrice acquistò nel 1957 sul Sunset Boulevard, a Beverly Hills. L’arredamento prevedeva rosa all over, una vasca da bagno a forma di cuore e piccoli Cupido alle pareti. Nel 1959 il secondo matrimonio con il culturista Mickey Hargitay. Sebbene furono costantemente messe a confronto, Jayne Mansfield fu molto più sfortunata della rivale Monroe. E neanche dopo la morte di quest’ultima, avvenuta nel 1962, riuscì a prenderne il posto. Nel 1964 convolò in terze nozze con Matt Cimber, dal quale ebbe Antonio Raphael Ottaviano. Inoltre lungo è il carnet di amanti che le vennero attribuiti, da Robert Kennedy a Tony Curtis, da Dean Martin a Burt Reynolds. I rumours non perdevano occasione di descriverne l’insaziabile appetito sessuale. Nonostante alcune pellicole importanti, Jayne Mansfield non riuscì mai ad affermarsi a Hollywood e finì per comparire in melodrammi indipendenti a basso costo e commedie, fino alla parabola discendente, che la vide protagonista di esibizioni nei nightclub.
“The one and only” furono le ultime parole pronunciate dalla procace attrice a Biloxi, New Orleans, poche ore prima della sua terribile fine. Lei, che aveva sognato Hollywood sfiorandone il bagliore, ora per vivere doveva accontentarsi di squallide esibizioni nei locali notturni. Ancora una volta quel suo fisico statuario si rivelava croce e delizia per una donna consapevole e colta; dopo aver rinunciato ad una carriera cinematografica, quel corpo burroso era l’unico strumento che le restava per mantenersi. Lei, che aveva combattuto una vita intera contro il cliché di donna oggetto, si ritrovava ancora una volta ad ammettere che il fisico non l’avrebbe mai tradita, anche a costo di vedersi osservata con lascivia da decine di uomini. Dopo la separazione dal terzo marito iniziò a frequentare Sam Brody, l’avvocato che seguiva la sua pratica di divorzio. Quella sera era in compagnia di quest’ultimo. Nella Buick Electra del 1966 presa a noleggio viaggiavano l’autista appena ventenne, Ronnie Harrison, l’attrice, con i tre figli Miklos, Zoltan e Mariska, i due inseparabili chihuahua Popeicle e Monaicle e l’avvocato Brody. All’una e un quarto della notte il tragico scontro che vide come unici superstiti i tre ragazzi, che dormivano nel sedile posteriore. L’auto ridotta ad un ammasso di lamiere e l’orrore che dilaniò il corpo della diva, la cui testa venne sbalzata fuori strappandone i capelli, che restavano sull’asfalto, quasi come una macabra parrucca. Bella fino alla fine. Una tragica processione di voyers accompagnò la diva anche nei momenti successivi alla sua prematura scomparsa. I funerali si svolsero il 3 luglio 1967 a Pen Argyl, Pennsylvania. Sulla sua tomba un epitaffio che recita “Viviamo per amarti ogni giorno di più”.
Jane Mansfield, coi suoi abiti animalier, le sue curve e la sua bellezza, ha continuato ad ispirare intere generazioni: incredibile la somiglianza della diva hollywoodiana con Anne Nicole Smith, altrettanto sfortunata, mentre una celebre campagna di Guess Jeans ne ha omaggiato solo pochi anni fa lo stile, con una giunonica Kate Upton nei panni di Jayne Mansfield.
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Ava Gardner: la donna più bella del mondo
Nasceva oggi Ava Gardner. In un periodo storico in cui il termine bellezza è costantemente abusato e spesso oltraggiato, osservare le foto della celebre attrice ci riporta al significato primigenio di questa parola: sì, perché Ava Gardner è stata donna di una bellezza singolare, rara, quasi un Sacro Graal oggi inseguito invano da fanatici del bisturi e donne che non godono della simpatia di Madre Natura. Ma nel caso dell’attrice non era solo una questione prettamente estetica: aggressiva, sfrontata, la diva nella sua vita privata come in quella pubblica è stata sublime incarnazione della femme fatale per antonomasia.
Eccessiva in tutto, dalla sfacciata fisicità agli amori turbolenti, Ava Lavinia Gardner nacque a Smithfield, in North Carolina, il 24 dicembre 1922, la più giovane dei sette figli di due agricoltori. La futura diva trascorre un’infanzia povera e disagiata, e il padre muore quando lei ha solo 15 anni.
Nel 1941 la bella Ava va a trovare a New York la sorella Beatrice ed attira l’attenzione del marito di quest’ultima, Larry Tarr, fotografo professionista, che le chiede di posare per lui. Il risultato di quella prima sessione fotografica, quasi improvvisata, è talmente sorprendente che Tarr decide di esporre uno scatto nella vetrina del suo studio fotografico, sulla Quinta Strada. Il volto luminoso e perfetto d Ava cattura un giorno l’occhio di Barnard Duhan, talent scout della MGM. Duhan entra nello studio e chiede il numero telefonico della ragazza, dovendo insistere per superare le iniziali perplessità del suo interlocutore. La chiamata per Ava arriva quando lei è ancora una studentessa diciottenne presso l’Atlantic Christian College. Prontamente la giovane si precipita a New York, per sostenere il provino negli uffici di Al Altman, capo del dipartimento talenti della MGM. Alla giovane viene chiesto di fare pochi piccoli gesti, ma non deve aprire bocca, in quanto il suo accento del Sud risulta quasi incomprensibile. Il provino viene tuttavia superato brillantemente ma la prima cosa che le viene ordinato è un corso accelerato di dizione.
La carriera cinematografica di Ava Gardner inizia con pellicole di poco conto ma nel 1946 arriva la svolta: è semplicemente impossibile non notare quella giovane bruna dallo sguardo altero, fasciata in un abito nero. Siamo sul set de I gangsters, in cui l’attrice recita accanto a Burt Lancaster. L’anno seguente lavora con Clark Gable nel film I trafficanti. Intanto ha già mandato a monte il primo matrimonio con l’attore Mickey Rooney, che aveva sposato il 10 gennaio 1942, quando lei aveva solo 19 anni. Il secondo matrimonio, col musicista jazz Artie Shaw -ex di Lana Turner– dura meno di un anno.
Nel 1948 Ava Gardner viene scelta come protagonista de Il bacio di Venere: e chi altro avrebbe mai potuto interpretare la dea della bellezza? Il film omaggia la sua fisicità, proponendoci l’attrice drappeggiata in un peplo greco, quasi come una novella Venere di Milo. Contemporaneamente la diva si fidanza con Frank Sinatra, soprannominato “The Voice” per le ineguagliabili doti canore. Per la diva Sinatra lascia la sua prima moglie Nancy e i due convolano a nozze nel 1951. Tuttavia la coppia sembra male assortita: lei appare forse troppo prorompente per il mingherlino Frank, ma i due vanno avanti nonostante il rapporto sia burrascoso, fino al divorzio, nel 1957.
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Nel 1949 recita accanto a Gregory Peck nel film Il grande peccatore mentre nel 1951 inizia ad incarnare anche sullo schermo la più autentica femme fatale: accade con Voglio essere tua, di Robert Mitchum. Nel 1953 prende parte a Mogambo, pellicola ad alto tasso di sensualità che vede un inedito triangolo amoroso, costituto da Ava Gardner, Grace Kelly e Clark Gable, ambientato nelle atmosfere tropicali di un paesaggio esotico. Per questa pellicola la Gardner ottiene una nomination agli Oscar. L’anno successivo è la consacrazione artistica, con La contessa scalza: bella come nessuna, Ava mixa sapientemente la sua bellezza sofisticata ad una sensualità felina. Nel film la diva danza come una principessa ribelle suscitando primordiali istinti. L’attrice, passionale come poche, non sa stare da sola. Il suo nuovo amore parla italiano: è l’attore comico Walter Chiari a farla capitolare, dopo il loro primo incontro sul set del film La capannina. Intanto l’attrice è preda dell’alcolismo, che ne offusca l’incredibile bellezza.
Inserita dall’American Film Institute al venticinquesimo posto tra le più grandi star della storia del cinema, nel 1964 la sua interpretazione nel film La notte dell’iguana le vale una nomination ai Golden Globes, mentre nel 1976 recita -già matura ma sempre splendida- nel film Cassandra Crossing, accanto a Sophia Loren. Fumatrice di lungo corso e alcolista, Ava Gardner sfiorisce presto: non ancora sessantenne, la diva soffre di enfisema polmonare e di una malattia autoimmune non meglio identificata. Due colpi apoplettici la lasciano parzialmente paralizzata e costretta a letto. La diva muore di polmonite all’età di 67 anni, nel suo appartamento londinese, il 25 gennaio 1990.
Negli ultimi anni della sua vita, Ava Gardner chiede al giornalista Peter Evans, ex corrispondente del Daily Express, di farle da ghost writer nella stesura della sua autobiografia, basata sulle loro conversazioni notturne. Il volume viene pubblicato poco dopo la morte di Evans, avvenuta nel 2012: esce così negli USA nel luglio 2013 Ava Gardner: The Secret Conversations, edito da Simon & Schuster, un libro destinato a fare scalpore. Qui la diva ci rivela succulenti aneddoti sulla sua burrascosa vita amorosa.
Tantissimi sono gli uomini che le cadono ai piedi, dal torero Luis Miguel Dominguín allo scrittore Ernest Hemingway, da Howard Hughes a Clark Gable; forte e ribelle, indipendente e moderna, indomabile e femmina come poche, riuscire a tenere testa ad Ava Gardner è roba per pochi. La diva non cede alle avances di Aristotele Onassis, che descrive -testuali parole- come “un piccolo stronzo allupato”; etichetta Humphrey Bogart come un bastardo, e descrive persino le perverse abitudini sessuali del primo marito, l’attore Mickey Rooney. Inoltre non mancano giudizi al vetriolo anche su alcune colleghe, come Liz Taylor, di cui la Gardner scriverà «Non è bella, è carina. Io ero bella». Di Grace Kelly la diva racconta quanto adorasse scommettere, ricordando la volta in cui, vinta una scommessa, ricevette dalla principessa Grace 20 dollari, un Magnum di Dom Pérignon ed un pacchetto di aspirine che le sarebbero servite post sbornia. Graffiante ed autoironica -perché il sex appeal passa inevitabilmente da qui- la diva rivive con tutta la sua straripante personalità nei suoi scritti. La vita di una dea molto più alla mano di quanto si potesse mai pensare.
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Buon compleanno, Jane Fonda
Spegne oggi 78 candeline Jane Fonda. Attrice di fama mondiale, icona di bellezza e guru dell’aerobica, una carriera sfolgorante che l’ha resa un vero e proprio mito: vincitrice di ben due Premi Oscar, 6 Golden Globe e innumerevoli altri riconoscimenti, protagonista di pellicole che sono entrate di diritto nella storia del cinema, Jane Fonda è stata attrice simbolo di almeno tre decenni, dagli anni Sessanta agli anni Ottanta. La bellezza e la maliziosa sensualità, il glamour e le atmosfere spaziali di Barbarella, l’indimenticabile film che le diede la fama a livello internazionale, e poi l’impegno politico e il femminismo, di cui la diva è stata pasionaria.
Jane Seymour Fonda è nata a New York il 21 dicembre 1937, da Henry Fonda e Frances Seymour Brokaw. Nelle sue vene scorre sangue inglese, scozzese, francese e italiana; i suoi antenati per linea paterna emigrarono nel Cinquecento da Genova nei Paesi Bassi, per poi trasferirsi nel Seicento nelle colonie britanniche del Nord America, in una cittadina attualmente chiamata Fonda, nell’attuale stato di New York. La bella Jane vanta origine italiana anche dal ramo materno, in quanto discendente dell’aristocratico vicentino Giovanni Gualdo. Il matrimonio infelice dei suoi porta la madre di Jane a compiere un gesto disperato, togliendosi la vita; il padre, tolti i panni di divo cinematografico, nella vita domestica è un uomo freddo e distaccato, che non fa che ripeterle che è grassa e che dovrebbe dimagrire. Come la stessa Jane Fonda dichiarerà più avanti nel corso delle sue interviste, il sentirsi disprezzata da parte del padre fu la molla che la gettò nel baratro dei disturbi alimentari.
La giovane Jane non sembra inizialmente interessata alla carriera cinematografica. Dopo il diploma, conseguito presso il Vassar College, e dopo un periodo trascorso in Europa, fa ritorno negli States con l’intenzione di lavorare come modella. Il volto dai lineamenti vagamente infantili, i capelli biondi e la grande fotogenia colpiscono fotografi del calibro di Horst P. Horst, che la immortala su Vogue nel corso degli anni Cinquanta. Ma è l’incontro con Lee Strasberg ad aprirle le porte del cinema, convincendola a frequentare le lezioni di recitazione presso il celebre Actor’s Studio. Il debutto cinematografico avviene nel 1960 con In punta di piedi, dove Jane Fonda recita accanto ad Anthony Perkins. Nel corso degli anni Sessanta l’attrice prende parte a numerosi film di successo, alternando con disinvoltura il genere drammatico alla commedia. Ha come partner lavorativi attori celebri, da Marlon Brando a Robert Redford, con cui recita nell’indimenticabile A piedi nudi nel parco.
Sbarazzina e insieme sofisticata, nel 1964 Jane viene inserita dal regista Roger Vadim nel cast di Il piacere e l’amore. Tra i due nasce una relazione amorosa che sfocia in un matrimonio, celebrato l’anno successivo. Vadim intuisce fin da subito il potenziale erotico dell’attrice e la dirige in pellicole che la consacrano come sex symbol internazionale. La fama arriva con il celebre film Barbarella, del 1968, interamente incentrato sulla bellezza della protagonista, su uno sfondo fantascientifico. Ma a Jane Fonda l’etichetta sexy sta stretta: la diva è troppo intelligente per non capire quanto la sua strabordante sensualità possa essere un’arma a doppio taglio, che alla lunga rischia di comprometterne le capacità drammatiche. Icona femminista, la diva si ribella all’immagine di bella svampita che i media le attribuiscono e scende in politica, come attivista contro la guerra del Vietnam. La sua visita ad Hanoi assume portata quasi storica, come anche la sua propaganda filo-nord-vietnamita. L’opinione pubblica si schiera apertamente contro di lei e le affibbia il soprannome di “Hanoi Jane”. Solo molti anni più tardi l’attrice rivedrà le sue posizioni politiche, commentandole a posteriori con rinnovato senso critico.
Intanto indirizza la sua carriera verso ruoli di maggiore spessore drammatico: arriva così nel 1969 la prima delle sue sette candidature all’Oscar con il film Non si uccidono così anche i cavalli?, di Sydney Pollack; nel 1971 vince l’Oscar come miglior attrice protagonista con Una squillo per l’ispettore Klute, nel ruolo della prostituta Bree Daniel. La seconda statuetta arriva nel 1978 per Tornando a casa di Hal Ashby. Intanto il matrimonio con Vadim naufraga e Jane sposa in seconde nozze il politico Tom Hayden, che ha un passato da pacifista. Nei primi anni Ottanta prende parte al film Sul lago dorato, dove recita per la prima ed unica volta accanto al padre Henry. Successivamente accantona la carriera cinematografica per abbracciare la nuova passione per la fitness. I suoi video di esercizi di ginnastica aerobica divengono un vero e proprio fenomeno. L’attrice, dopo anni di lotta contro la bulimia, sdogana l’esercizio fisico come nuova moda, e neanche un infarto riesce a fermarla. Nei primi anni Novanta il terzo matrimonio con il magnate della comunicazione Ted Turner, che durerà un decennio.
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Icona femminista, Jane Fonda si è apertamente schierata contro l’emarginazione in cui vengono relegate le donne di una certa età ad Hollywood come anche nella vita comune. Celebre la sua presa di posizione al riguardo, per cui “se un uomo ha molte stagioni, una donna ha diritto solo alla primavera.” Attiva sul piano umanitario, la diva nel 2001 ha donato alla Scuola di Educazione dell’Università di Harvard la somma di 12.5 milioni di dollari, al fine di creare un “Centro per gli Studi educativi”: secondo l’attrice la cultura dominante darebbe messaggi sbagliati e diseducativi alle future generazioni che distorcerebbero i rapporti tra uomini e donne. Nel 2005 è stata pubblicata la sua autobiografia, intitolata La mia vita finora. Vulnerabile e insieme tagliente, la diva ha recentemente ammesso di essere ricorsa al bisturi, e che in virtù di tali interventi estetici avrebbe guadagnato un altro decennio di attività lavorativa, in un ambiente in cui invecchiare è considerato quasi uno scandalo. Il suo volto non ha perso fortunatamente la straordinaria espressività che ce l’ha fatta amare in film indimenticabili. Ancora splendida nonostante il passare del tempo, sagace ed ironica come di consueto, ha ammesso che il sesso costituisce oggi una parte fondamentale della sua vita. Attualmente residente ad Atlanta, in Georgia, la diva ha iniziato un percorso di rinascita per abbracciare la fede cristiana.
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Grace Kelly: ghiaccio bollente
Nasceva oggi l’indimenticabile Grace Kelly: diva di Hollywood e attrice Premio Oscar, poi divenuta Principessa consorte di Monaco, sposando Ranieri III.
Un volto dai lineamenti perfetti e una classe unica, l’attrice è stata un’icona indiscussa degli anni Cinquanta.
Definita da Alfred Hitchcock “ghiaccio bollente”, sotto una patina apparentemente glaciale ribolliva in lei una sensualità torbida, che incantò il maestro del brivido, per il quale fu una musa.
Grace Patricia Kelly nacque a Philadelphia il 12 novembre 1929, in una ricchissima famiglia di origine irlandese e di fede cattolica. Il padre di Grace, John Brendan Kelly, era un uomo bello e carismatico, oltre ad essere un milionario: perfetta incarnazione del self-made man, aveva costruito un impero e agli occhi della figlia era un modello quasi insuperabile. La madre di Grace, Margaret Majer, era di origine tedesca: avvenente ed atletica, fu la prima donna a insegnare educazione fisica all’Università della Pennsylvania.
Vincitrice del Premio Oscar come migliore attrice per il film La ragazza di campagna, del 1955, inserita dall’American Film Institute al tredicesimo posto tra le più grandi star della storia del cinema, la carriera di Grace Kelly fu inizialmente osteggiata dalla sua famiglia. Dopo qualche esperienza come indossatrice, la bionda Grace ottenne il suo primo ruolo all’età di 22 anni, nel film 14ª ora (1951), e l’anno seguente fu co-protagonista con Gary Cooper nel film western Mezzogiorno di fuoco.
Ma è nel 1953 che la splendida attrice ottiene la fama internazionale, grazie alla sua interpretazione in Mogambo. Un film drammatico ambientato nella giungla del Kenya che vede un inedito triangolo amoroso tra la Kelly, un’altra bellissima del cinema come Ava Gardner e il bel tenebroso Clark Gable. La pellicola valse a Grace Kelly una nomination all’Oscar come miglior attrice non protagonista. La sua algida bellezza incantò il maestro del brivido Alfred Hitchcock, che la volle come protagonista di tre film storici: Il delitto perfetto, del 1954, La finestra sul cortile, in cui fecero storia anche i magnifici costumi disegnati per Grace Kelly dal genio di Edith Head, e Caccia al ladro (1955). Sul set di quest’ultimo film, girato nel Principato di Monaco, la bella attrice conobbe il Principe Ranieri, suo futuro marito.
Nel 1956 l’attrice interpretò il ruolo di una principessa nel film Il cigno, quasi un presagio di quella che sarebbe stata di lì a poco la sua vita. Con la commedia musicale Alta società, sempre del 1956, la diva diede l’addio alle scene, prima di convolare a nozze con il Principe Ranieri III di Monaco. Prima di lui rumours indicano relazioni con numerosi colleghi, tra cui Clark Gable, Gary Cooper, Bing Crosby, Ray Milland, Burt Lancaster, William Holden e Jean-Pierre Aumont, e con lo stilista Oleg Cassini.
Il matrimonio con il Principe Ranieri non fu solo il felice epilogo di una storia da favola. Reduce da una relazione con l’attrice francese Gisèle Pascal, che secondo una visita medica non avrebbe potuto dargli un erede, il principe Ranieri valutò la scelta della splendida Grace come sua consorte anche per ragioni di natura politica. In assenza di un erede, infatti, il Principato di Monaco sarebbe passato alla Francia. La presenza di Grace Kelly al fianco di Ranieri si rivelò quindi strategica sia per la possibilità dell’attrice di avere figli che per lo charme che ella seppe conferire a Monte Carlo, trasformandolo in un luogo d’élite ambito dalle celebrities.
Dal matrimonio tra Grace e Ranieri, celebrato nel 1956, nacquero tre figli: la Principessa Carolina Luisa Margherita, nata nel 1957, il principe Alberto Alessandro Luigi Pietro, Marchese di Baux, nato nel 1958, e la principessa Stefania Maria Elisabetta, nata nel 1965. Un animo nobile e modi gentili, grandi opere di beneficenza e una generosità senza precedenti resero Grace Kelly la principessa ideale. La sua prematura scomparsa, avvenuta il 14 settembre 1982, a seguito di un incidente stradale, lasciò un vuoto enorme tra gli abitanti del Principato. Un breve tragitto in macchina con la figlia Stefania, la principessa Grace che perde il controllo della vettura: in pochi istanti si consumò una tragedia. Se la figlia Stefania se la cavò con qualche escoriazione e qualche frattura, la principessa non riprese mai più conoscenza. Moriva così, ad appena 52 anni, una delle più grandi attrici della storia del cinema ed una delle donne più belle di tutti i tempi, il cui charme e la cui bellezza rimarranno sempre indimenticabili.
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Dita Von Teese per MAC
Hedy Lamarr: genio e bellezza
Chi tende ancora a sostenere il vecchio e quantomai datato pregiudizio per cui le donne belle non possano brillare anche per intelligenza sarà costretto a ricredersi: la storia ci ha fornito illustri esempi di donne di grande bellezza che, grazie anche al loro carisma e alla loro intelligenza, sono riuscite ad imporsi e spesso a cambiare le sorti della storia.
Un volto splendido e una classe fuori dal comune caratterizzavano Hedy Lamarr, attrice degli anni Quaranta a cui oggi Google dedica il suo Doodle, nel 101/mo anniversario della nascita della diva.
Una bellezza e un’intelligenza fuori dal comune resero Hedy Lamarr una delle attrici più affascinanti del cinema e una delle prime donne al mondo ad imporsi nel settore scientifico. Nata a Vienna il 9 novembre 1914, all’anagrafe Eva Maria Kiesle, nelle sue vene scorreva sangue ungherese ed ucraino.
La conturbante bellezza della giovane impressionò alla fine degli anni Venti il produttore cinematografico Max Reinhardt che la iniziò agli studi cinematografici. Il primo film è Ekstase di Gustav Machaty, girato quando la ragazza ha solo 18 anni. Un film scandalo, a causa di alcune scene a seno nudo, fortemente sensuali per l’epoca.
Nel 1933 la bella attrice sposa il mercante d’armi Friedrich Mandl, che compra quante più copie possibile di quella pellicola. La loro abitazione diviene in breve teatro di numerose feste a cui presero parte, tra gli altri, Adolf Hitler e Benito Mussolini, oltre che diversi esponenti del mondo scientifico, che iniziarono la diva alla passione per le tecnologie. Mandl tuttavia è geloso della sua bellissima moglie e, come lei stessa dichiarò in seguito, tentò di farla vivere segregata. Fu così che, nel 1937, la bella attrice scappò a Parigi. Qui conobbe il produttore cinematografico statunitense Louis B. Mayer, tra i fondatori della casa di produzione cinematografica Metro-Goldwyn-Mayer. Il nome di Hedy Lamarr fu scelto proprio da Mayer, in omaggio a Barbara La Marr, diva del cinema muto.
Nel 1938 Hedy si trasferisce ad Hollywood e qui inizia la sua sfolgorante carriera nel cinema. Prende parte a più di 30 film, tra cui spiccano La febbre del petrolio, dove Hedy recita al fianco di Clark Gable e Spencer Tracy, nel 1940, e Corrispondente X, sempre con Clark Gable, due anni dopo.
Il ruolo forse più celebre fu quello di Dalila nella produzione di Sansone e Dalila di Cecil B. DeMille.
Oltre alla sua straordinaria bellezza e fotogenia, pochi sanno che Hedy Lamarr fu anche una delle prime donne scienziato della storia. Durante la Seconda Guerra mondiale ideò insieme a George Antheil un sofisticato sistema per realizzare messaggi criptati via radio, affinché non potessero essere intercettati. Il prototipo, basato sul meccanismo del pianoforte, fu brevettato nel 1942 e fu utilizzato per la prima volta circa venti anni più tardi dalla marina militare degli Stati Uniti. La diva fu inserita nella Inventors Hall of Fame degli Stati Uniti nel 2014 per questa sua invenzione, che è ancora oggi alla base di molti sistemi tecnologici nonché della telefonia mobile.
Inoltre Hedy Lamarr brevettò anche altre invenzioni, tra cui una compressa per ideare bibite gasate ante litteram e un ingegnoso prototipo di semaforo per regolare il traffico cittadino. La sua lunga carriera cinematografica negli anni Settanta era ormai agli sgoccioli: dopo il ritiro dalla vita pubblica, nel 1981, la diva appariva ossessionata dalla chirurgia estetica. Hedy Lamarr morì il 19 gennaio del 2000, all’età di 85 anni, e le sue ceneri furono disperse nella Selva Viennese.
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