Chi vincerà le elezioni presidenziali Usa 2016?
Lo show è previsto per la notte tra l’8 e il 9 novembre.
Di show si tratterà, con oltre 250 testate accreditate presso i comitati dei due maggiori candidati: un mare di circa duemila persone tra stampa, televisione radio, e naturalmente tanto web. Da ogni parte del mondo.
Solo in America si stimano 150 milioni di telespettatori nella curva dele quattro ore, da costa a costa. Il web si attende oltre 3 miliardi di pagine visitate ogni ora (e l’attacco del 21 ottobre non promette nulla di buono in proposito).
Il sentiment europeo è tutto per Hillary Clinton.
Quanto questo sia corrispondente al sentiment degli elettori americani è un altro discorso.
Anzi, la prima cosa di cui tenere conto è proprio questa: una Clinton benvista all’estero come interlocutore e partner è esattamente la sua debolezza interna. L’America che cresce poco dopo la recessione pre-Obama e che ha perso milioni di posti di lavoro è stata fortemente sollecitata dagli slogan di Trump. Quel “prima gli americani” e “America nuovamente forte” fa breccia in quelle masse che vedono le enormi spese militari all’estero e la fuga delle imprese a caccia di salari più bassi come un problema che difficilmente “un nome noto” e protagonista della politica Usa degli ultimi trent’anni potrà affrontare.
Del resto Trump ha vinto proprio perché vendutosi e percepito come uomo fuori dagli schieramenti e dalla carriera politica.
Il vero tema che emerso è la straordinaria debolezza e mancanza di leader in campo repubblicano: distrutto prima dal Tea-Party, che lo ha radicalizzato a destra, fortissimo nelle competizioni locali (e non a caso da decenni detentore delle maggioranze al Congresso e spesso anche al Senato), il partito conservatore americano fa fatica a trovare un candidato forte, che emerga tra i nomi noti della leadership e capace di unire il partito.
E non è un caso che nella sfida tra i senatori Marco Rubio e Ted Cruz, il Governatore della Florida Jeb Bush, il Governatore del New Jersey Chris Christie, Carso, Fiorina, e Governatori o ex come Gilmore, Scott Walker, Jindal, Huckabee, Kasich, Pataki, Perry o Senatori e ex come Graham, Rand Paul, Marco Rubio, Rick Santorum, alla fine abbia prevalso Donald Trump.
Nessun primo inter pares che ha lasciato campo libero a qualcosa che va oltre il semplice populismo tipico dei “miliardari americani in cerca di potere”.
Ed un tema di mancanza di leadership che si riproporrà tra quattro e forse anche otto anni.
Ago della bilancia saranno, ancora una volta, tre categorie di persone ed elettori, che almeno sulla carta nessuno dei candidati rappresenta davvero.
Sono i giovani alla prima esperienza elettorale, sono gli immigrati di prima generazione al primo accesso al voto e quelli di seconda generazione a seconda che si registrino o meno al voto.
Sono le donne, soprattutto le donne, che come abbiamo visto sono state quelle più chiamate in causa e che per la prima volta hanno una propria candidata che può vincere, soprattutto contro un candidato che, al di là delle parole, chiaramente non le rappresenta (e ne ha scarsa considerazione).
E tuttavia va ricordato che li Stati Uniti sono un paese vasto (ben sei ore di fuso orario) e molto eterogeneo. Un insieme di stati centrali, normalmente tendenzialmente conservatori, che salvo rare eccezioni sono anche poco densamente popolati, ed esprimono quindi “pochi voti presidenziali”.
Gli stati della costa, più giovani, industrializzati, ricchi e tecnologici, non privi di contraddizioni anche politiche.
La California ad esempio, che esprime spesso due senatori democratici, ma quasi sempre amministrata da governatori repubblicani. O lo Stato di New York, in cui hanno convissuto un sindaco repubblicano, una maggioranza in congresso e in senato democratica e un governatore repubblicano.
In America si vince con la maggior parte dei voti presidenziali, e non con la maggior parte dei voti popolari. Per cui si può anche stravincere da qualche parte in termini di voti, e perdere di strettissima misura in Stati chiave, e perdere quindi le elezioni complessive.
Andrà quindi con attenzione compreso sino a che punto i candidati al Congresso, in Senato, i Governatori e i Sindaci dei singoli Stati spingeranno con forza, fondi e determinazione per il corrispondente candidato Presidente, o se tutto verrà sostanzialmente lasciato al sentiment dell’elettorato, smarcando il proprio destino dal candidato alla Casa Bianca (ipotesi molto probabile per Trump, meno per la Clinton).
Stando ai sondaggi di quindici giorni prima del voto i rapporti dovrebbero essere – in termini di intenzioni di voto quantitativo sul voto popolare – di 48 a 42.
Quanto sia poi spalmato questo voto non è dato sapere, anche se la conta pare sia abbastanza netta, con pochi stati in bilico.
262 voti sono praticamente già accreditati per la Clinton, 164 già attribuiti a Trump, e solo 112 sarebbero i voti ancora da assegnare (va ricordato che viene eletto chi si aggiudica almeno 288 voti).
Con la Clinton sarebbero
Michigan (16)
Illinois (20)
New Jersey (14)
Washington (12)
Rhode Island (4)
Delaware (3)
Maine CD1 (1)
New Hampshire (4)
Maine (2)
Wisconsin (10)
Colorado (9)
Oregon (7)
Pennsylvania (20)
Virginia (13)
Connecticut (7)
New Mexico (5)
Massachusetts (11)
New York (29)
California (55)
District Of Columbia (3)
Hawaii (4)
Maryland (10)
Vermont (3)
Sarebbero assegnati a Trump
Indiana (11)
Texas (38)
Missouri (10)
South Carolina (9)
Utah (6)
Louisiana (8)
Mississippi (6)
Montana (3)
South Dakota (3)
Tennessee (11)
Alaska (3)
Kansas (6)
Nebraska CD2 (1)
Alabama (9)
Arkansas (6)
Kentucky (8)
Idaho (4)
Nebraska (4)
North Dakota (3)
Oklahoma (7)
West Virginia (5)
Wyoming (3)
Ancora da assegnare secondo gli analisti sono
Georgia (16)
Florida (29)
Ohio (18)
North Carolina (15)
Nevada (6)
Minnesota (10)
Iowa (6)
Arizona (11)
Maine CD2 (1)
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Cosa è successo nel terzo dibattito tra Trump e la Clinton?
Il terzo ed ultimo dibattito tra Donald Trump e Hillary Clinton può essere annoverato come un esempio da manuale sotto tutti e tre i punti di vista.
Esempio di ottima ed equilibrata moderazione da parte del conduttore Chris Wallace, una vera icona del giornalismo americano. Figlio di Mike Wallace, reporter di “60 minuti alla CBS”. Dopo il divorzio dei genitori suo patrigno è stato Bill Leonard, presidente della CBS News, che lo ha affiancato a Walter Cronkite già nel 1964. Ha lavorato per la carta stampata (al Boston Globe, uno dei giornali più rigorosi al mondo, quando era studente ad Harvard e a Yale), ma la passione per il giornalismo politico lo ha proiettato prevalentemente in televisione, in NBS e Fox, sempre ai vertici dei programmi di approfondimento come della cronaca politica, già dal 1982 al 1989 quando fu tra i più longevi “corrispondenti anziani” dalla casa Bianca.
Un curriculum di grande rispetto con una conoscenza della politica e del giornalismo politico che abbiamo visto perfettamente applicato al terzo dibattito. Nessuna remora a interrompere i candidati, a riportarli sul punto della domanda, nessuna soggezione alla storia politica, alla reputazione ed all’atteggiamento dei suoi interlocutori, perfetta conoscenza del tema di domanda, e grandissima esperienza nella moderazione dei temi, riuscendo nel difficile compito anche di far rispettare i tempi della risposta e delle repliche.
Un giornalismo d’altri tempi che è risultato imparziale ed equilibrato ed ha consentito ai telespettatori di entrare nel merito (primo blocco in particolare) delle rispettive posizioni su temi di cronaca e attualità della politica nazionale.
Esempio da manuale di come si gestisce un dibattito da parte di un candidato. È il caso della Clinton che ha preparato a lungo le risposte per stare nei tempi e nelle giuste percentuali: 2/3 del tempo per essere precisa nell’esporre la sua posizione e la sua risposta su ogni punto, e 1/3 per attaccare l’avversario.
Lo si è visto su tutto: nomine alla Corte Suprema, aborto, controllo delle armi, immigrazione, controllo confini, mailgate, nucleare, economia interna, rispettive fondazioni benefiche, trattamento di donne e immigrati.
La Clinton ha prevalso su qualsiasi argomento, anche quelli teoricamente più congeniali ai repubblicani ed a Trump, come immigrazione, intervento militare, capacità di comando, sicurezza interna.
Il passaggio probabilmente più “potente” è stato sul cavallo di battaglia di Trump che si è sempre speso come “l’uomo contro i politicanti” che non fanno nulla, mentre lui ha costruito una grande azienda: la Clinton ha replicato ricostruendo cosa faceva Trump in parallelo al suo curriculum “mentre io ero nella stanza dei bottoni durante la cattura di Bin Laden Trump produceva miss Universo, mentre io difendevo i diritti delle minoranze Trump veniva accusato di discriminazione, mentre io mi laureavo con le mie forze Trump avviava la sua azienda con i soldi di papà, mentre io pago le tasse Trump non mostra la sua dichiarazione dei redditi e non ha versato un solo dollaro di tasse federali, e ne paga meno degli immigrati che insulta”.
Un parallelo senza concessioni. E senza diritto di replica. Fondato su semplici fatti esposti in maniera sequenziale, manichea, diretta, semplice.
Esempio infine da manuale di come non si deve affrontare un dibattito in televisione. È il caso di Trump che è apparso sconclusionato, non organizzato, violento (cosa che è maggiormente emersa in senso negativo essendo la sua avversaria una donna), irrequieto.
Non ha mai risposto nel merito, ha sempre cambiato discorso e spostato l’attenzione su altri argomenti. Non ha presentato un solo dato che avesse un minimo di fonte.
Ha negato l’evidenza di sue stesse dichiarazioni e posizioni precedenti – cosa che ci stava due mesi fa ma non all’ultimo dibattito quando non si ha tempo per una polemica e precisazioni successive in campagna elettorale.
Il suo cedimento maggiore è stato ripetere più volte “una presidenza Clinton” rivolgendosi alla sua antagonista, il che ha reso materiale e concreto il successo della sua avversaria.
Peggio ancora il discorso libero finale con l’invito al voto: Trump non ha fatto il suo, si è limitato ad attaccare e replicare a quanto detto dalla Clinton, che altro non era che un invito all’unità nazionale ed al bisogno che tutti partecipassero al voto ed alla campagna.
La pietra tombale è stata la domanda tecnica, se avrebbe accettato il risultato: alla posizione presidenziale della Clinton “abbiamo una tradizione di elezioni libere e noi accettiamo i risultati anche se non ci piacciono, ed è questo che ci si deve aspettare da ogni candidato”, la risposta di Trump è stata “non lo so, vedrò quel giorno”, il risultato del voto è falsato “da una stampa corrotta e iniqua, e un voto a cui si registrano milioni di persone che non ne hanno diritto” e ancora “abbiamo un candidato come la Clinton che per i suoi reati non dovrebbe nemmeno poter concorrere”.
Un assist alla Clinton formidabile per replicare: “un anno di indagini mi hanno prosciolto da qualsiasi ipotesi di accusa, non sono stata accusata di niente, ogni volta che Trump pensa che le cose vadano diversamente da come vuole lui, dice che tutti ce l’hanno con lui, quando ha perso alcune primarie repubblicane lì il voto era corrotto, quando non ha avuto un Emmy per i suoi programmi, anche i Emmy erano corrotti” per chiudere “sarà anche divertente ma non è così che funziona la nostra democrazia”.
La conclusione da cronaca del conduttore “abbiamo una tradizione in cui la sera dei risultati il candidato perdente chiama il vincitore per congratularsi ed accettare il risultato, lei sta dicendo che non lo farà”.
Un messaggio di sintesi che ha colpito certamente la parte moderata degli elettori di tutti gli schieramenti, anche gli indipendenti, che di certe tradizioni democratiche fanno un fondamento dell’unità dello stato e della democrazia americana. E in questo passaggio, per molti, più che per i singoli temi e punti di vista, Trump è stato percepito come un pericolo.
Il sondaggio del giorno dopo ha visto il minimo storico di Trump nelle intenzioni di voto con un 38 a 52. Una forbice che è probabilmente destinata anche a crescere.
Come il web aiuta i Hillary Clinton
Qualche mese fa si parlò di una riunione tra i vertici delle big company della silicon Valley preoccupate per i successi alle primarie di Donald Trump.
Che non sempre le web company siano state del tutto con i Democratici era cosa nota; parliamo pur sempre di aziende multimiliardarie, di dimensione globale, i cui manager e fondatori (anche loro multimiliardari) se possono non disdegnano una politica economica americana con maglie fiscali più larghe.
Ma Trump deve essere stato stretto anche a loro, visto che hanno finanziato durante le primarie il “fondo repubblicano contro Trump”. E non riuscendo nell’intendo di arrestarne quanto meno la corsa, oggi appoggiano direttamente – ma soprattutto indirettamente – la certamente più amica Hillary Clinton.
Che il web abbia contato moltissimo dalla prima vittoria alle primarie di Obama, e poi nelle due successive campagne presidenziali è cosa nota.
Nota al punto che da quelle esperienze anche la “vecchia politica europea” ha comunicato a comprendere il fenomeno ed attrezzarsi, anche quando poco e male.
Il web crea dibattito, sposta elettorato, dà visibilità quando i media mainstream la limitano, e fa da eco a notizie che possono diventare virali e di pubblico dominio.
Gaffe, dichiarazioni, foto, video che spesso non sarebbero emersi, col web finiscono con il fare notizia.
La parte nota di questa campagna è quella relativa ai finanziamenti.
Le web company non solo stanno contribuendo massicciamente alla campagna presidenziale diretta, ma fanno confluire anche notevoli somme sui comitati elettorali di senatori e congressisti in lizza.
La parte meno nota ma che invece comincia ad essere visibile, è un impegno civico, che di fatto si traduce in un aiuto notevole alla campagna democratica.
Wordpress, ad esempio, ha sviluppato un widget di “invito a registrarsi per il voto” da inserire anche sui blog.
Il calcolo è presto fatto: tolto lo zoccolo duro di circa 170 milioni di elettori, si stima che ogni tre nuovi iscritti, ben due siano orientati sui democratici, perché ad esempio giovani, immigrati, appartenenti a minoranze, persone alla prima esperienza elettorale.
I social si stanno scatenando sia nella produzione di dirette video dei dibattiti, sia nella viralizzazione delle sintesi degli stessi.
Questo per raggiungere tutti i “non appassionati” di politica televisiva e di giornali.
Anche in questo caso una fetta di popolazione che – come indicano i big data – sarebbe orientata verso un voto democratico.
Quanto inciderà tutto questo lo scopriremo il girono dopo.
Di certo questo impegno non è marginale, nemmeno dal punto di vista economico, tanto che alcuni analisti si sono spinti a fare una stima per difetto di circa 500milioni di dollari.
Ma i candidati possono stare tranquilli: il mondo del web sa come muoversi nelle maglie della regolamentazione sui finanziamenti elettorali, e nessuno potrà dire che queste iniziative sono “un finanziamento diretto” da inserire a bilancio.
Anche questo è web.
Il secondo dibattito tra Hillary Clinton e Donald Trump
Donald Trump aveva due obiettivi per il secondo dibattito presidenziale della notte scorsa: 1) distogliere l’attenzione dalle dichiarazioni registrate del 2005 in cui si vantava della sua capacità di “assaltare” le donne e 2) doveva mantenere la sua base elettorale, e recuperare quanti, nel partito repubblicano, lo avevano abbandonato la settimana scorsa.
Per raggiungere questi obiettivi è tornato alla strategia con cui ha vinto le primarie e ottenuto al nomination, definita dai commentatori politici “carne al sangue” (per qualcuno “carne cruda”).
Prima dell’inizio del dibattito il suo team ha trasmesso un incontro tra Trump e quattro donne che hanno accusato Bill e Hillary Clinton i vari misfatti, tra cui Paula Jones , Kathleen Willey , Juanita Broaddricke Kathy Shelton. Inoltre – dopo un video in cui era apparso imbarazzato e chiedeva scusa per le sue dichiarazioni del 2005 – le ha ridimensionate durante il dibattito a “chiacchiere da spogliatoio da palestra” e “solo parole”.
A parte i primi venti minuti, in cui Trump è apparso sulla difensiva e faticava a trovare un ritmo, il dibattito si è trasformato in un match di wrestling, teatrale e retorico, favorito anche dall’impianto con i candidati in piedi, a microfono mobile e liberi di muoversi.
Trump ha attaccato a mani basse praticamente su tutto, cambiando spesso argomento, senza praticamente mai rispondere nel merito, cercando sempre e solo di svicolare, arrivare ai suoi slogan vincenti, e dimostrare di non essere stato messo all’angolo.
Ha detto che se fosse stato eletto, che avrebbe chiamato per un procuratore speciale per indagare sull’uso da parte della Clinton di mail private quando era Segretario di Stato. Una politicizzazione del Dipartimento di Giustizia che ha ricordato agli analisti più attenti l’ultima spiaggia di Richard Nixon e che ha ricordato al pubblico l’immagine di Kennet Starr che indaga sul caso Clinton-Lewinsky.
La Clinton non è stata così forte come era nel primo dibattito, né forse così determinata.
Immaginava un Trump dimesso e in svantaggio per il calo dei consensi nel suo stesso elettorato, e non ha voluto affondare il colpo in attesa della replica di Trump sugli scandali sessuali del marito Bill. Particolarmente evidente è stato il passaggio in cui ha citato Michelle Obama, “quando lui abbassa il livello, tu innalzalo”, ma che ha evidenziato sostanzialmente una non risposta dell’ex first-lady.
Quanto alla sostanza delle cose dette, anche non essendo direttamente parte della politica e della società americana, il dibattito è stato farcito davvero da tantissime balle. Opinione riscontrata anche dal titolo del resoconto di factcheck.org – sito indipendente che “verifica le affermazioni nei dibattiti pubblici americani” che ha affermato letteralmente: Abbiamo trovato una montagna di dichiarazioni false e fuorvianti.
Il Wall Street Journal ha affermato che Trump “ha trovato il suo passo”. Il New York Times ha detto affermato che Trump era migliore di quanto non fosse nel primo dibattito e che la Clinton peggiore, ma non ha dichiarato un vincitore.
Un sondaggio della CNN ha rivelato che il 57 per cento degli intervistati ha consegnato il dibattito a Clinton e solo il 34 per cento ha dichiarato Trump vincitore. I bookmakers – vero autorevole player dei sondaggi elettorali – non sono mai stati così certi che la Clinton vincerà le elezioni, aumentando la loro previsione ad una probabilità dell’87 per cento dall’80 di pochi giorni fa.
Come tutti gli show, a quanto pare, anche la campagna per le elezioni presidenziali Usa2016 si deciderà all’ultimo dibattito, a due settimane dal voto, salvo assoluti colpi di scena.
Vanno però segnalate due curiosità.
La prima è la base elettorale: la Clinton con il suo richiamo all’essere uniti cerca – ovviamente – di espandere il suo elettorato a quei repubblicani moderati che non disdegnano una collaborazione tra i due partiti nelle scelte centrali del governo del paese.
Trump, che ha in parte perso l’appoggio repubblicano, e che ha visto lo spettro di una richiesta di ritiro – che dopo il dibattito è poco probabile che ci sarà – ha richiamato più volte l’attenzione su uno zoccolo duro personale, quei 25milioni di follower che lo seguono sui social: un patrimonio suo, personale, che sbaraglia ogni repubblicano candidabile.
La seconda è un articolo fatto davvero molto bene pubblicato dal Washington Post, una sorta di “guida al linguaggio del corpo” durante i dibattiti elettorali, che integra le molte cose scritte e valutate dagli analisti ed offre qualche elemento in più – utile anche per noi e per la politica di casa nostra, nell’osservare i politici mentre cercano di guadagnarsi il consenso attraverso lo strumento televisivo.
Donald Trump, in un video commenti sessisti anche alla figlia Ivanka
Il secondo dibattito Trump – Clinton che si è svolto stanotte non poteva cominciare sotto una luce più nefasta per il magnate della finanza. Donald Trump ha partecipato al confronto con la sua rivale alla carica presidenziale, Hillary Clinton, nel pieno della bufera scatenata da un video della Cnn di venerdì. Si tratta di un audio rubato al tycoon nel 2005, mentre si stava recando sul set di uno show insieme al conduttore televisivo Billy Bush. Ancora insulti alle donne e commenti sessisti da parte di Donald Trump, colti dal microfono acceso del conduttore. A pochi mesi dal suo terzo matrimonio con Melania Trump, l’uomo dichiarava di aver provato a portare a letto una donna sposata. «Quando sei una star le donne te lo lasciano fare» dichiara nel video, riferendosi ad apprezzamenti pesanti, palpeggiamenti e rapporti sessuali.
Ma cosa ha detto Trump nell’ennesimo video che ha indignato l’America e il mondo intero? «Ho tentato di sc*****a, era sposata. Ci ho provato come si fa con una prostituta, ma non ce l’ho fatta». Trump ha dedicato frasi sessiste anche alla compagna del conduttore, l’attrice Arianne Zucker, facendo apprezzamenti sul suo fondoschiena. Perfino Ivanka Trump, allora ventiquattrenne, ha avuto la sua dose di commenti poco lusinghieri. «Va bene se chiamano Ivanka un pezzo di f***» ha detto, aggiungendo che se non fosse stata sua figlia ci avrebbe provato e anche con lei perché non si pone limiti di età. A poche ore dal dibattito Trump – Clinton questo video, pubblicato dalla Cnn e poi diffuso da tutti i media, ha provocato un’incontenibile bufera su Donald Trump e sulla sua candidatura. I suoi stessi compagni di partito auspicano un suo ritiro, a partire dal suo vice Mike Pence che si è dichiarato offeso dai commenti sessisti in quanto marito e padre. Il Presidente uscente Obama ha commentato il video semplicemente con l’espressione «cose inquietanti» e la rivale Hillary Clinton ha chiesto in un tweet che le donne americane lo fermino. Anche un personaggio dello spettacolo come Robert de Niro ha girato un video in cui dichiara «È un cane, un maiale, a me piacerebbe prenderlo a pugni». Perfino la moglie del magnate, Melania Trump, si è vista costretta a commentare l’accaduto. «Le parole di mio marito sono inaccettabili ed offensive. Non rappresentano l’uomo che conosco – ha dichiarato la moglie di Trump, aggiungendo – Spero che la gente accetti le sue scuse, come ho fatto io».
Cosa ha detto Trump di tutto questo trambusto? «Erano chiacchere da spogliatoio. Bill Clinton mi ha detto cose molto peggiori, giocando a golf. Comunque mi scuso se qualcuno si è offeso» – ha dichiarato in un tweet. Per poi aggiungere «Vogliono farmi fuori, ma io non mi ritiro».
Elezioni Usa, Hillary Clinton è la prima donna in corsa per la Casa Bianca
Con l’inattesa vittoria alle primarie Usa in California, lo stato più popoloso e influente, Hillary Clinton conquista la “nomination” per la corsa alla Casa Bianca, la prima di una donna nei 240 anni della storia degli Stati Uniti. Ieri si è aggiudicata la vittoria in California, New Jersey, New Mexico e South Dakota contro l’avversario di partito Bernie Sanders e avendo superato la soglia di 2.383 delegati è ormai la candidata del Partito Democratico per le elezioni presidenziali di novembre. «Grazie a tutti, abbiamo raggiunto una pietra miliare, e’ la prima volta nella storia della nostra nazione che una donna sara’ la candidata di un partito importante – ha dichiarato alla folla riunita al Brooklyn Navy Yard di New York per festeggiare – Questa vittoria non riguarda una persona. Appartiene a generazioni di donne e uomini che hanno combattuto, si sono sacrificate, e hanno reso questo momento possibile».
Hillary Clinton ha fatto pacate congratulazioni «per la straordinaria campagna che ha condotto» a Bernie Sanders, che pure dichiara di non arrendersi e di sperare ancora che la convention di luglio possa ribaltare il risultato delle primarie Usa. L’attuale Presidente Barack Obama ha già chiamato ieri sera i due candidati del partito democratico, invitandoli ad unire le forze per battere il repubblicano Donald Trump, e a questo scopo vedrà Sanders domani pomeriggio per convincerlo ad appoggiare Hillary. Dal canto suo, anche il magnate ha festeggiato ieri un importante traguardo, cioè un numero record di votanti alle primarie repubblicane. Festeggiamenti che si sono dimostrati l’ennesima occasione per lanciarsi a testa bassa in una serie di invettive contro Obama e i Clinton, accusati di fallimenti ed errori di varia natura e di aver «trasformato la politica dell’arricchimento personale in una forma d’arte per se stessi». Nonostante gli apparenti successi, il suo stesso partito fatica a perdonare il discorso decisamente razzista di lunedì in cui Trump ha messo in dubbio l’attendibilità dei giudici ispanici.
Le spaccature che attraversano sia il partito democratico che quello repubblicano rendono quindi sempre più incerto l’esito delle elezioni Usa del prossimo novembre. La maggioranza degli uomini bianchi dichiara di votare Donald Trump, ma Hillary ha dalla sua sicuramente le minoranze e molti dei cittadini americani più giovani sono stati avvicinati all’ala democratica da Sanders. C’è da dire che la Clinton, considerata per 20 anni consecutivi la donna più ammirata d’America (secondo i sondaggi Gallupp) oggi non gode in toto delle simpatie femminili. Nonostante la portata storica della sua candidatura alle elezioni presidenziali, è infatti accusata di essere “un prodotto della cultura maschilista” e di essersi fatta strada nel mondo della politica grazie alle influenze del marito Bill.
Verso USA 2016
Manca oltre un anno al voto presidenziale americano, e le primarie sono già cominciate qualche mese fa. Ufficialmente ad aprile, con le varie dichiarazioni di “discesa in campo”, a caccia di sostenitori e finanziatori. La prima sfida è esattamente questa: assicurarsi per tempo un certo numero di comitati, sedi, volontari, macchine organizzative, banche dati, e ovviamente cospicui fondi elettorali. Tutto questo è “la dote” che i candidati porteranno – alla fine – a ciascuno dei due candidati del proprio schieramento politico che risulteranno vincitori, e il peso politico di ciascuno si misurerà esattamente in questa forza e nelle risorse raccolte e disponibili per la “campagna vera”.
Ad oggi di sorprese ce ne sono almeno due.
La prima è in casa democratica. Prevedibile che la corsa di Biden fosse solo strategica, ma addirittura doppiato da Sanders nessuno se lo aspettava. Prevedibile che la Clinton, senza avversari veri, soprattutto a sinistra, battesse tutti, ma non addirittura che superasse il 50% delle preferenze nonostante una politica presidenziale che mese dopo mese le “sottrae” progressivamente molti argomenti: dall’Iran a Cuba ai diritti lgbt.
La seconda, vera, grande sorpresa è però in casa repubblicana, dove il miliardario Donald Trump sta letteralmente doppiando ovunque i due avversari diretti e “veri” di queste presidenziali: Jeb Bush e Marco Rubio. Il dato è straordinario anche perché entrambi gli sfidanti non hanno alcun problema di raccolta fondi o organizzativo, ed entrambi sono politici navigati, con una struttura solida e ottimi argomenti. Ed anche nei dibattiti televisivi, nonostante gli altri siano più preparati è sempre Trump a dominare la scena, nonostante evidenti gaffe.
Certo, non si è ancora votato in Stati popolosi e determinanti, né in quelli propriamente repubblicani, ma il dato va letto in molti modi. Intanto la classe media elettrice repubblicana non si fida più dei politici di professione. Quell’elettorato prematuramente stimolato da Ross Perot stavolta sembra maturo per una scelta “diretta”. Trump, da miliardario, appare meno “succube” e ricattato dai finanziamenti delle lobby, e questo alone di indipendenza fa gioco in questa fase.
Che voglia davvero arrivare alla fine della corsa non è dato sapere, di certo il segnale è politicamente chiaro: il mondo dei miliardari americani che fanno l’economia vogliono partecipare in maniera diretta e determinate alle scelte politiche, e non solo finanziare e pesare dietro le quinte per ottenere favori occasionalmente e quando politicamente la cosa non disturba.
Se questo è il messaggio politico che consegna al GOP la candidatura di Trump, la risposta dell’elettorato non si fa attendere: Trump può anche vincere le primarie interne ma è anche quello che con maggiore certezza perderebbe le elezioni vere contro i democratici, già a prescindere favoriti, mentre la Clinton avrebbe vita certamente più difficile con Bush e Rubio.
Questa la situazione ad oggi, a 360 giorni dalla chiusura delle primarie dei due partiti.
Un anno per ampliare e consolidare le proprie forze e risorse, e per decidere entro marzo a chi consegnare – in caso di ritiro – il proprio capitale politico, stringere alleanze, ottenere candidature e posizioni di potere in vista del novembre 2016.
E tutto questo a meno di sorprese e new entry che nella politica americana non mancano mai.
SARÀ HILLARY L’AMERICA DOPO OBAMA?
Nel lungo – per molti critici troppo lungo – passato politico di Hillary Rodham Clinton ci sono stati molti momenti difficili. A cominciare dall’essere transitata in gioventù nelle fila repubblicane addirittura come una fan e un’attivista di Barry Goldwater, probabilmente il più reazionario di tutti i candidati repubblicani sulla scena politica americana. Crescendo é diventata un brillante avvocato, si è sposata con Bill governatore dell’Arkansas e ha dovuto affrontare scandali devastanti. Donna di grande intelligenza e carattere, dotata di eccezionali capacità professionali e un’ambizione smisurata si è trovata al centro prima di un intrigo d’affari, di potere e di morte (il suicidio di un suo socio e collaboratore), poi dello scandalo provocato dall’avventura del marito presidente con una stagista della Casa Bianca. In entrambi i casi seppe reggere e governare la furia degli eventi esuperare l’umiliazione pubblica ricominciando da capo e risorgendo al successo. Senatrice di New York e poi segretario di Stato negli ultimi anni si accinge ora a competere per la Presidenza. Ha alle spalle vent’anni di scena pubblica e politica e appare come il personaggio politico più esperto e più accreditato, una democratica sostanzialmente non molto diversa da un repubblicano moderato, una donna determinata come un uomo molto determinato.
Tuttavia non credo che la sua campagna sarà una passeggiata e non solo per la presenza in queste elezioni della più estremista delle correnti conservatrici, quei tea-party della destra americana che non le daranno tregua sfruttando ogni ombra del passato e ogni umana debolezza passata, presente o proiettabile nel futuro di un presidente.
Per la sinistra del suo partito Hillary è troppo legata all’establishment economico, mediatico, di potere; per i repubblicani non solo è l’ex first Lady del fortunato e scandaloso Bill, ma soprattutto la prima autrice della odiata riforma sanitariapubblica che solo Obama riuscirà a portare a un controverso risultato.
Già, quell’Obama che la sconfisse e che per riunire il partito le offrì – volente o nolente – la Segretaria di Stato, l’equivalente americano del nostro Ministero degli Esteri. Come atteggiarsi con l’eredità di Obama? Se Hillary prende troppo le distanze da un presidente amato e respinto rischia di allontanare i suoi seguaci e i suoi ammiratori che hanno vinto nel 2008 e nel 2012 rinnovando la costituency democratica, la sua base elettorale con una coalizione fatta di neri, ispanici, donne, poveri, gay mobilitata a un sostegno elettorale attivo e a una impressionante raccolta fondi via Internet che sbaragliò le ricche donazioni dei milionari repubblicani. Se, viceversa, Hillary sarà troppo coerente e in continuità con Obama ne erediterà anche l’immagine d’incertezza e, a detta dei suoi nemici, di ritirata dai fronti caldi e di rassegnato pacifismo in politica estera. Sul piano economico viceversa i successi di Obama segnano una strada utile e percorribile anche per Hillary se Hillary vorrà mantenerla.
Tradizionalmente, negli USA, nessun partito ha mai conquistato un terzo mandato presidenziale consecutivo, ma c’è sempre una prima volta e, sempre, a fare la differenza in uno scontro diretto è la personalità dei candidati.
Hillary e il suo staff sono certamente consapevoli di tutti questi fattori e condizionamenti e opportunità divergenti. Aver deciso di annunciare la candidatura non con un big event politico e spettacolare con le grandi personalità democratiche e un corteo di stars holliwoodiane, ma con un umile annuncio su YouTube è già una scelta caratterizzante: il mezzo è il messaggio e usare YouTube significa scegliere al posto delle grandi catene televisive la forma di contatto e di comunicazione più umile, più semplice e più diretta, più individuale e più di massa. Mi sembra un buon inizio proprio perché contro corrente rispetto allo stile dei Clinton un po’ troppo provinciali, un po’ troppo benestanti, un po’ troppo piacioni. Allora chi o cosa, al netto di candidati competitivi che ancora non ci sono, potrà insidiarla davvero?
“Guardatela, è brutta e vecchia, mica possiamo passare i prossimi quattro anni a guardare le sue rughe che si infittiscono e scavano solchi sempre più profondi sul suo viso”.
Fu l’ultimo argomento, nel 2007, della propaganda repubblicana contro Hillary Clinton, prima donna candidata alle primarie democratiche per conquistare la presidenza degli Stati Uniti d’America. L’argomento della giovinezza e dell’avvenenza che se ne vanno fu usato da un giornalista mediocre e fazioso commentando una foto impietosa della ex first Lady colta al termine di una massacrante giornata di campagna elettorale, quando lo sfinimento ti rifà i connotati. Oltretutto un argomento così subdolo può essere efficace solo se rimane non detto, subliminale. Diversamente, se lo si urla, se si infierisce, se si strumentalizza un attimo di défaillance fisica ed estetica si ottiene l’effetto contrario. Come chi si accanisse su un portatore di handicap finirebbe col suscitare una reazione indignata contro se stesso e un sentimento di compassione e di solidarietà verso la vittima. Insomma, attaccarsi all’età e all’aspetto dell’avversario può risultare impopolare e controproducente. Sembra chiaro, quasi ovvio, almeno finchè restiamo sul piano razionale. Tuttavia, sull’inconscio di massa, bombardato dalla pubblicità di corpi scultorei e di volti radiosi come dall’assordante, insignificante chiacchiericcio in cui siamo immersi quell’argomento cosi politicamente scorretto e così umanamente sgradevole qualche effetto lo può avere ancora come l’ebbe nell’ormai lontana competizione del 2007. Hillary aveva sessant’anni e il suo volto per un momento trasmise tutta la fatica e quasi l’intollerabilità fisica ed estetica di uno stress prolungato.
Da allora, da quell’episodio, sono passati otte anni, gli anni di Obama che nelle primarie del 2008 sconfisse Hillary e la macchina elettorale dei Clinton. Da oggi, giorno dell’annuncio della sua nuova candidatura, passerà un altro anno e mezzo tra primarie democratiche ed elezioni presidenziali.
Al momento sembra non avere nel suo partito rivali in grado di impensierirla. Ma anche nel 2008 partì favorita rispetto ad Obama che molti consideravano un candidato impossibile. E, comunque, anche se Hillary vincesse le primarie del suo partito e diventasse la candidata presidente inevitabilmente, inconsciamente, non pochi elettori si chiederanno con quale volto, con quale energia, con quale resistenza alla fatica e allo stress nervoso una donna non più giovane guiderà la nazione più potente del mondo.
Negli ultimi ventiquattro anni tre presidenti – Clinton, Bush, Obama – hanno trasmesso un’immagine di giovinezza, di energia, di disinvolta supremazia sulla fatica mentre quella foto ha inciso un’immagine di fragilità e scoperto un punto debole della determinatissima Hillary.
Un punto debole che gli otto anni in più renderanno più evidente.
Un messaggio insidioso che non va sottovalutato né frainteso.
Non è più tanto una questione di estetica, né di età, né di genere. In Germania, in Brasile, in Argentina hanno vinto, hanno governato e governano con piglio robusto donne meno avvenenti della Clinton. Quel che l’istantanea invecchiata di otto anni ha fissato ed esasperato, quel che resta impresso nella memoria non è un inestetismo: è qualcosa di molto più insidioso é l’immagine di un cedimento.
La civiltà dell’immagine esige che tu sia sempre sorridente e, soprattutto, sempre in forma: il prezzo del successo non fa sconti. Se fossi nel team elettorale della Clinton mi preoccuperei di prevenire ed allontanare un rischio simile, il rischio di un nuovo cedimento, prima che un sondaggio onesto o disonesto la diano per perdente. Ormai lo sappiamo: i sondaggi possono aggravare lo stress, lo stress può peggiorare i sondaggi.