La stagione delle grandi mostre d’autunno a Milano vede, di nuovo, come protagonisti, i grandi del Novecento: Picasso a Palazzo Reale, Modigliani e Klee al MUDEC, Magritte alla Fabbrica del Vapore e altri ancora.
Sempre nella cornice dello spazio espositivo di Piazza Duomo, un’altra mostra degna di nota è quella dedicata a Carlo Carrà, uno dei più grandi pittori del XX secolo italiano. Organizzata da Comune di Milano in collaborazione con Civita e curata dall’equipe Maria Cristina Bandera – Luca Carrà (nipote dell’artista, n.d.r.), la mostra presenta circa 130 opere, provenienti dalle più prestigiose collezioni pubbliche e private del Mondo, dalla Pinacoteca di Brera alla GAM di Torino e al Museo Pushkin di Mosca, insieme, elemento peculiare dell’esposizione, a libri, riproduzioni di fotografie che ritraggono Carrà con la moglie Ines e con amici artisti, e cimeli, come i pennelli originali usati dal pittore. Dal 4 ottobre 2018 al 3 febbraio 2019 è possibile percorrere, nelle sale di Palazzo Reale, un percorso all’interno della produzione pittorica e delle vita di uno dei massimi artisti del nostro Novecento.
La mostra, infatti, si articola come un percorso biografico, che parte dalle origini piemontesi del pittore, nato a Quargnento, vicino Alessandria, nel 1881 e dai suoi esordi pittorici divisionisti, realizzati durante i suoi primi anni a Milano e a Monza, dove iniziò la carriera come decoratore. Allora la sua Pittura era totalmente influenzata da Previati, dai Grubicy de Dragon e da Faruffini, ed è per questo motivo, proprio partendo dalle sue origini, che lo si può considerare come un vero erede della tradizione ottocentesca lombarda e piemontese, con uno stile che mescolava pennellate rapidissime, quasi spighe di grano impresse sulla tela, a una luce intensa e profonda, pari a quella delle Maternità di Previati. A questo substrato, Carrà aggiunse, durante i viaggi giovanili a Londra e a Parigi, suggestioni dalla Pittura tardoromantica e simbolista francese, ma anche dal vedutismo inglese di Constable e Turner.
La seconda fase della sua vita fu quella che lo consacrò alla Storia dell’Arte. Dopo un accenno liberty sulle tracce di Sartorio, come prova la meravigliosa Allegoria del Lavoro in mostra, Carrà scoprì il fascino del dinamismo e della voglia di rompere con lo schema accademico che, fino ad allora, aveva contraddistinto il suo stile. Sempre nella capitale artistica italiana dei primi del ‘900, Milano, Carrà mosse i primi passi verso il Futurismo. In città, nel 1908, conobbe Marinetti, Severini, Balla e Boccioni, che iniziò a frequentare e con i quali, in una notte successiva a una delle tempestose serate che li caratterizzava, scrisse di getto il Manifesto della Pittura Futurista, risalente all’aprile del 1910. Di questa fase, in mostra, sono prove i disegni, autentici schizzi di figure in rapido movimento e parole in libertà (notare il motto Zang Tumb Tumb tanto caro a Marinetti e a Palazzeschi!), ma anche quadri, come quello raffigurante un simbolo di dinamismo moderno e non “passatista”, come scrisse lo stesso Carrà nel Manifesto: un tram, antenato dei mitici 1928 che vediamo ancora oggi per le strade di Milano, che sferraglia producendo scintille e bagliori di luce che scompongono i piani su cui il mezzo si muove. In questo periodo, Carrà iniziò anche a interessarsi di Politica, facendosi affascinare, anche grazie alla relazione sessuale con una donna anarchica, dalle teorie di Bakunin. Uno dei suoi capolavori futuristi, non a caso, è la tela raffigurante I funerali dell’anarchico Galli, in cui movimento, ribellione e rabbia sociale sono tutt’uno. Durante i suoi sei anni di militanza futurista, Carrà, però, passò dall’anarchismo al nazionalismo interventista. Prima della Guerra, l’artista si cimentò anche con il collage, avvicinandosi agli esiti cubisti di Braque, pur mantenendo la struttura futurista, dal dinamismo impetuoso e magmatico.
Dopo la Grande Guerra, Carrà rimase folgorato dalla Metafisica di Giorgio De Chirico. Già durante gli anni del ’15-’18, il pittore, ricoverato a Ferrara, abbandonò l’attività politica interventista per dedicarsi nuovamente all’Arte. Nel 1917 conobbe De Chirico e Filippo De Pisis, dando vita alla cosiddetta Pittura Metafisica. Di questa fase, in mostra, spiccano Madre e figlio (1917) e La Musa metafisica, dello stesso anno. Se, nella prima, lo stile è ancora quello di De Chirico, tra arcaizzante e primitivo, con la seconda Carrà elabora uno stile tutto suo, reduce dell’esperienza futurista e memore del suo interventismo (come prova la mappa dell’Istria e della Venezia Giulia), ma anche già proiettata verso quell’alone di magia tipica di Morandi e di sospensione tra Mondi paralleli che sarà tipica del Surrealismo.
Come De Chirico, anche Carrà, poi, tornò alla figura, all’Ordine. Con gli anni ’20, l’artista iniziò a dipingere vedute, paesaggi e figure al bagno che riassumevano tutte le sue fonti artistiche. Per i colori, tornò a guardare al ‘300 fiorentino e senese, mentre per i ritratti umani prese a modello la statuaria antica romana ed ellenistica, riproposta in chiave meno ideale e più primigenia, con donne dai fianchi larghi e dai seni prosperosi e uomini muscolosi, quasi atletici. I suoi paesaggi degli anni ’20 risentirono anche dell’influsso dei Macchiaioli: non a caso, anche Carrà, come Fattori, dipinse sul litorale maremmano ritraendo cavalli sullo sfondo delle spiagge sul Tirreno. Dal suo ritiro montano di Varallo, in Val Sesia, Carrà dipinse varie vedute dei borghi valligiani, esposte in mostra, ispirandosi ancora alle prove inglesi di Turner, ma anche, nelle gamme cromatiche all’Impressionismo.
Con gli anni ’30 e l’affermazione del potere fascista, per Carrà, considerato “vero pittore italiano” al pari degli amici Sironi, Oppi, Funi e Casorati, pur non essendosi mai schierato ufficialmente con Mussolini, arrivarono anche grandi committenze pubbliche, come quella della decorazione ad affresco di alcune sale del Palazzo di Giustizia di Milano, progettato dall’architetto ufficiale del regime, Marcello Piacentini. L’artista dipinse, sulle pareti della Corte d’Appello, una scena storica e una sacra, con Giustiniano che libera lo schiavo e Il Giudizio universale. In mostra, è possibile vedere i cartoni preparatori per questi grandi e trionfali affreschi, che andavano ad affiancarsi ai mosaici celebrativi di Sironi all’interno di quello che fu il più significativo esempio di razionalismo fascista a Milano. Lo stile di Carrà, per questa prova, risentì nuovamente dell’influenza di Giotto e Simone Martini, anche se i cartoni svelano ben altro: studi anatomici approfonditi, torsioni dinamiche e sensualità femminile che fanno pensare più a Michelangelo e a Tiziano. In questi stessi anni, Carrà iniziò ad affrontare anche il mondo dello Sport, come prova la tela del 1932, che è una delle prime raffigurazioni, nella Storia dell’Arte, di una partita di calcio, molto probabilmente della fortissima Nazionale di allora, viste le maglie azzurre.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, Carrà ottenne la cattedra di Pittura all’Accademia di Brera. L’ultima sezione della mostra è dedicata a questi ultimi vent’anni della sua vita, in cui riprese le lezioni del passato, pur mantenendosi sempre all’interno del recinto figurativo: di nuovo paesaggi e ritratti, tra cui spiccano le Bagnanti degli anni ’50, ancora influenzate da Renoir e da Degas, ma anche scene di vita quotidiana e Nature Morte. Proprio con una di queste, Carrà ci lasciò nel 1966: aveva appena finito di dipingerne una variante con chicchera quando morì nella sua casa milanese.
Concludono la mostra tre autoritratti dell’artista, eseguiti in tre diverse fasi della sua vita: spicca quello piccolissimo, custodito a Brera, in cui Carrà con la sua espressione meditabonda, ma burbera, sembra quasi salutarci.
Carlo Carrà
Palazzo Reale, Piazza Duomo 12, 20121 Milano
Orari: lunedì: 14.30 -19.30, martedì, mercoledì, venerdì e domenica: 9.30 – 19.30, giovedì e sabato: 9.30 – 22.30
Biglietti: Open 16,00 €, Intero 14,00 €, Ridotto semplice 12,00 €
Info: tel. 199.15.11.21, web mostracarra@civita.it, www.mostracarlocarra.it