Il primo mandato di Roosevelt si aprì a poche settimane dall’insediamento di Hitler in Germania e dalla decisione giapponese di lasciare la Società delle Nazioni, due episodi che mostravano la fragilità degli equilibri mondiali. La crisi economica internazionale condizionò pesantemente anche la politica estera di Roosevelt.
Il primo mandato della presidenza di Roosevelt fu caratterizzato, come egli stesso programmò il giorno dell’insediamento, da una “politica di buon vicinato, quella di chi ha il massimo rispetto per se stesso e così facendo rispetta anche i diritti degli altri”.
Ciò si tradusse nella continuazione del disimpegno militare americano in America Latina, avviato dai suoi predecessori repubblicani.
La convenzione democratica, riunitasi nel giugno 1936, confermò con entusiasmo Roosevelt quale candidato alle elezioni presidenziali di quell’anno. Egli esaltò i risultati raggiunti con il New Deal e promise di continuare su quella strada. I repubblicani invece condannavano tali provvedimenti e accusavano il presidente di aver usurpato i poteri del Congresso scegliendo come candidato un repubblicano progressista, Alf Landon dal Kansas, l’unico governatore repubblicano che era riuscito a mantenere la carica nelle elezioni del 1932, vinte in maniera schiacciante dai democratici.
I toni della campagna elettorale furono spesso aspri: Roosevelt usò parole dure contro gli uomini dell’alta finanza; in cambio i repubblicani lo accusarono di essere un demagogo privo di principi morali. I risultati delle elezioni invece diedero a Roosevelt una vittoria ancora più marcata e netta di quattro anni prima: egli ottenne quasi ventotto milioni di voti (pari al 60,80%), vinse in ben 46 stati su 48 e conquistò la cifra record di 523 grandi elettori contro i soli 8 di Landon. Il partito del presidente ottenne tre quarti dei seggi al Senato e i quattro quinti della Camera dei rappresentanti. Il voto dimostrò l’appoggio del popolo americano alle politiche di Roosevelt e bocciò sonoramente l’opposizione repubblicana.
Con una mossa senza precedenti, Roosevelt cercò un terzo mandato consecutivo nel 1940.
Fino a quel momento tutti i presidenti avevano rispettato la regola non scritta stabilita da George Washington, che nel 1793 aveva rinunciato al terzo mandato affermando che troppo potere non doveva essere accentrato per troppo tempo nelle mani di un solo uomo. In seguito, nel 1951, questa regola fu resa esplicita con un emendamento costituzionale; pertanto Roosevelt rimarrà per sempre l’unico presidente ad avere svolto più di due mandati consecutivi.
Sebbene molti nel Partito Democratico vedessero che Roosevelt era già sofferente, al punto che non si era certi che potesse ricoprire un quarto mandato, non ci fu quasi discussione sul fatto che, in tempo di guerra, sarebbe stato il candidato del partito nelle elezioni del 1944.
Tenendo conto della salute di Roosevelt, convinsero il senatore del Missouri Harry Truman a formare la coppia di candidati democratici nel 1944. La coppia Roosevelt e Truman vinse le elezioni, tenutesi il 7 novembre 1944, sconfiggendo lo sfidante, il popolare repubblicano Dewey.
Nel 1941 gli interessi contrapposti del Giappone e degli Stati Uniti in Asia e nel Pacifico, specialmente in Cina, produssero una rottura delle relazioni diplomatiche al punto che la guerra sembrava inevitabile. Roosevelt finanziò largamente le spese di guerra con emissioni di titoli a lungo termine emessi dal Tesoro, i Titoli Serie E, ideati dal suo amico ed allora segretario del Tesoro degli Stati Uniti, Henry Morgenthau
Il 14 gennaio 1943 Roosevelt fu il primo presidente degli Stati Uniti a viaggiare in aereo durante la carica, con il suo volo da Miami al Marocco per incontrare Winston Churchill e discutere della seconda guerra mondiale. L’incontro si concluse il 24 gennaio. Tra il 4 e l’11 febbraio del 1945 partecipò, insieme a Stalin e Churchill, alla Conferenza di Jalta, il più famoso degli incontri nei quali fu deciso quale sarebbe stato l’assetto politico internazionale al termine della guerra.
Il suo messaggio al Congresso e alla nazione l’8 dicembre 1941, dopo l’attacco di Pearl Harbor, entrò nella storia con la frase: «Il 7 dicembre 1941 – una data che vivrà nell’infamia». Dopo questo discorso gli Stati Uniti entrarono nella seconda guerra mondiale a fianco degli Alleati.
Nel 2000 il fotografo Robert Stinnett, dopo un lungo lavoro di ricerca, ha riproposto la teoria della cospirazione architettata da Roosevelt e i suoi collaboratori per indurre i giapponesi ad attaccare Pearl Harbor; le tesi di Stinnett in sintesi sono che Roosevelt avrebbe applicato un piano per provocare l’attacco giapponese contro gli Stati Uniti e che all’ammiraglio Kimmel sarebbe stato impedito di condurre esercitazioni che avrebbero fatto scoprire la flotta giapponese in arrivo, flotta che in realtà, secondo Stinnett, non avrebbe mantenuto il silenzio radio e, anzi, i suoi messaggi sarebbero stati intercettati e decifrati dai servizi statunitensi. Il lavoro di Stinnett è stato tuttavia fortemente criticato da altri studiosi, che lo hanno smentito in vari modi, e le sue deduzioni sono state ritenute non esatte.
I servizi segreti britannici e dell’FBI avevano delle informative su possibili attacchi a quasi tutte le installazioni militari statunitensi (sabotaggi, attacchi aerei o navali, spionaggio) attribuite alle potenze dell’Asse o all’URSS (percepita già dai servizi informativi dell’FBI come la maggiore minaccia).
La possibilità di un attacco a Pearl Harbor arrivò a John Edgar Hoover, l’allora direttore dell’FBI, attraverso dei contatti informali con i servizi segreti britannici, che passarono agli USA il loro agente Dušan Popov, al servizio dei tedeschi ma in realtà doppiogiochista schierato con gli Alleati. Popov informò i suoi superiori sull’attenzione mostrata dai giapponesi verso l’attacco di Taranto e le installazioni militari alle Hawaii.
In ogni caso l’FBI non ritenne Popov affidabile e non prese in considerazione le sue soffiate, ostinandosi inoltre a non collaborare con i servizi segreti britannici. Subito dopo l’attacco Hoover si accorse di aver commesso un grave errore, diventando uno dei registi occulti delle teorie cospirative contro Roosevelt in modo da creare una cortina di nebbia attorno alla propria negligenza.
Ieri, 7 dicembre 1941 – una data che resterà segnata dall’infamia – gli Stati Uniti d’America sono stati improvvisamente e deliberatamente attaccati da forze aeree e navali dell’Impero del Giappone.
Gli Stati Uniti con loro erano in pace e su sollecitazione Giapponese, eravamo ancora in fase di colloquio, col loro governo e con l’imperatore, per mantenere questo status nel area Pacifica.
In realtà, un’ora dopo squadroni aerei giapponesi aveva iniziato i bombardamenti sull’isola americana di Oahu, l’Ambasciatore giapponese negli Stati Uniti e il suo collega hanno consegnato al nostro Segretario di Stato una risposta formale ad un recente messaggio americano. Sebbene questa risposta affermava che sembrava inutile proseguire i negoziati diplomatici in corso, non conteneva alcuna minaccia o accenno di guerra o attacco armato.
Verrà ricordato che la distanza delle Hawaii dal Giappone rende evidente che l’attacco sia stato deliberatamente programmato molti giorni o addirittura settimane fa. Nel contempo il governo giapponese ha intenzionalmente cercato di ingannare gli Stati Uniti con false dichiarazioni e espressioni di speranza a favore di una pace duratura.
L’attacco di ieri sulle isole hawaiane ha causato gravi danni alle navali americane e alle forze militari. Mi spiace dirvi che molti americani hanno perso la vita.
Inoltre, le navi americane sono state bersaglio di siluri in alto mare tra San Francisco e Honolulu.
Ieri il governo giapponese ha anche lanciato un attacco contro Malaya.
La scorsa notte le forze giapponesi hanno attaccato Hong Kong.
La scorsa notte le forze giapponesi hanno attaccato Guam.
La scorsa notte le forze giapponesi hanno attaccato le Isole Filippine.
Ieri sera, i giapponesi hanno attaccato Wake Island.
E questa mattina, i giapponesi hanno attaccato le Isole Midway.
Il Giappone ha dunque intrapreso un’offensiva a sorpresa estesa a tutta l’area del Pacifico. I fatti di ieri e di oggi parlano da soli. Il popolo degli Stati Uniti si è già fatto un opinione e ben comprende le implicazioni per la vita e la sicurezza della nostra nazione.
Come comandante in capo della Marina militare ho disposto che tutte le possibili misure siano prese per la nostra difesa, noi ricorderemo in quale maniera siamo stati attaccati.
Non importa quanto tempo ci dovremo prendere per superare questa invasione premeditata, il popolo americano, con la forza della ragione, vincerà con un vittoria schiacciante.
Credo di interpretare la volontà del Congresso e del popolo, quando dico che non solo ci difenderemo fino all’ultimo, ma faremo in modo che questa forma di tradimento, per noi, non sia mai più un pericolo.
L’ ostilità esiste. Non vi è alcun dubbio per il fatto che il nostro popolo, il nostro territorio e i nostri interessi siano in grave pericolo.
Con la totale fiducia nelle nostre forze armate, con l’illimitata determinazione del nostro popolo, si otterrà l’inevitabile trionfo. Così Dio ci aiuti.
Chiedo che il Congresso dichiari che, fin dall’attacco non provocato e codardo da parte del Giappone della Domenica, 7 dicembre 1941, esista uno stato di guerra tra gli Stati Uniti e l’Impero giapponese.
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Franklin Delano Roosevelt – New Deal
Il successo elettorale alle presidenziali del 1932 fu dovuto soprattutto alla sua grande capacità di ottenere l’appoggio di tessuti sociali, organizzazioni e gruppi di interesse spesso eterogenei fra di essi. Era l’inizio della cosiddetta “coalizione del New Deal”: lavoratori, sindacalisti, esponenti delle minoranze religiose, neri, bianchi del Sud, intellettuali, grandi imprenditori, agricoltori si erano uniti per sostenere Roosevelt e il Partito Democratico. Tale coalizione continuerà a sostenere i democratici fino al 1960.
Roosevelt fu il primo presidente a rivolgersi regolarmente al pubblico americano attraverso la radio. Istituì la tradizione dei discorsi settimanali alla radio, che chiamò le “chiacchierate attorno al caminetto” (fireside chats). Queste “chiacchierate” gli diedero l’opportunità di presentare colloquialmente le sue opinioni agli statunitensi, e spesso contribuirono ad affermare la sua popolarità in una fase in cui il presidente era impegnato a sviluppare una politica interna ed estera discussa e innovativa. Durante la guerra le “chiacchierate attorno al caminetto” del presidente Roosevelt furono considerate molto efficaci per sostenere il morale delle comuni famiglie americane.
Il discorso alla nazione sul New Deal va inquadrato non solo da un punto di vista storico, economico, della comunicazione politica, e se vogliamo anche della propaganda.
In un mondo “in bianco e nero”, dove solo la borghesia leggeva i giornali, spiegare ad un popolo intero, cresciuto nella prosperità, che “la crisi economica” era in parte frutto proprio della sregolatezza del capitalismo e del sogno americano era oltremodo complesso.
Roosevelt con i “discorsi del caminetto” si presentò al popolo americano come un padre che lo prendeva per mano e “gli spiegava” sia il problema che la cura, passo passo.
In quel modo, un mondo “in bianco e nero” e riservato a pochi, divenne quasi “a colori” immaginando i suoi ascoltatori quel riverbero caldo delle fiamme del camino.
Da un punto di vista sociale è una svolta epocale. Un intero continente, un paese diviso da sei fusi orari, in cui mancavano punti di riferimento ed in cui si sentiva la fame, veniva unito dal suo presidente, che resterà lì a combattere con loro sino alla morte. Unico caso di quattro elezioni consecutive senza effettivamente alcuna possibilità di essere battuto.
E lo fece attraverso due depressioni e la seconda guerra mondiale.
In questo senso Roosevelt è, dopo Lincoln, il vero unificatore degli Stati Uniti. Capace di parlare alle masse, e di mettere insieme ceti sociali differenti, di valicare le frontiere delle professioni e della scolarizzazione, e di far sentire tutti i cittadini partecipi ed artefici e protagonisti di un futuro comune.
Franklin Delano Roosevelt proveniva da una famiglia dell’alta borghesia e vantava una parentela con Theodore Roosevelt, presidente repubblicano di inizio secolo. Il padre era proprietario di alcune miniere di zinco mentre la madre era figlia di un armatore.
Fra le più antiche famiglie dello Stato di New York, i Roosevelt si distinsero in diversi settori dalla vita politica. Trascorse l’infanzia viaggiando per l’Europa e da adolescente si iscrisse alla Groton School e finito il liceo si laureò ad Harvard nel 1904, quindi studiò giurisprudenza alla Columbia Law School, dove si laureò nel 1908, dopodiché si dedicò alla professione di avvocato in un prestigioso studio di Wall Street.
Sposò Anna Eleanor Roosevelt, sua cugina alla lontana, che era la nipote favorita del presidente Theodore Roosevelt. Dopo aver aderito al Partito Democratico, nel 1910 venne candidato alle elezioni del Senato dello Stato di New York. Roosevelt si fece notare soprattutto per la sua profonda eloquenza e per la sua dura opposizione alla Tammany Hall, organizzazione politica che controllava il partito e che spesso faceva uso di mezzi ai limiti del lecito per distribuire cariche pubbliche. Effettuò una campagna elettorale impegnativa e si interessò soprattutto ai problemi degli agricoltori, portandosi nei villaggi e nelle fattorie rurali dello Stato. Fu eletto con ampio margine e dopo due anni, nel 1912, fu rieletto ed ottenne come riconoscimento la presidenza della commissione per l’agricoltura.
Dopo la vittoria democratica alle elezioni presidenziali del 1912, fu scelto da Wilson per ricoprire la carica di viceministro della Marina. Al termine della presidenza Wilson, il Partito Democratico scelse per acclamazione Roosevelt quale candidato vicepresidente per le elezioni presidenziali del 1920. Il candidato alla presidenza era il governatore dell’Ohio James Cox. Malgrado la scelta dei candidati fosse avvenuta con ampie maggioranze, il partito al suo interno era profondamente diviso soprattutto sul proibizionismo.
I candidati repubblicani Warren G. Harding e Calvin Coolidge invece si adoperarono per venire incontro alla maggioranza degli americani che era indifferente alla lunga controversia sulla Società delle Nazioni e che, invece, era preoccupata per la recessione postbellica, per l’aumento dei prezzi e per la crescente tensione fra sindacati e imprese, problemi che imputavano al partito di governo. La coppia Cox/Roosevelt fu duramente sconfitta: ricevette solo 9.139.661 di voti contro i 16.144.093 (60,3%) dei repubblicani. Molte persone che nelle precedenti elezioni avevano votato per i democratici, questa volta non erano andate a votare perché insoddisfatte dal governo democratico: nel 1920 avevano votato solo il 49% degli elettori rispetto al 71% delle precedenti elezioni. Dopo la sconfitta Roosevelt si ritirò dalla vita politica e tornò a lavorare nel suo studio legale.
Nel 1921, all’età di 39 anni mentre era in vacanza contrasse una malattia, ritenuta al tempo una grave forma di poliomielite, che causò la paralisi dei suoi arti inferiori. Nonostante la malattia, Roosevelt continuò a partecipare alle riunioni del Partito Democratico. Nel 1928, alla vigilia della più grande crisi economica che avesse mai investito gli Stati Uniti, fu scelto come candidato democratico alla carica di governatore dello stato di New York. Inizialmente rifiutò la candidatura ma soprattutto grazie anche al supporto della moglie Eleanor accettò la sfida.
Roosevelt era consapevole che la sua disabilità avrebbe potuto sminuire la sua autorevolezza nell’elettorato; per ovviare a questo problema si fece costruire una speciale intelaiatura di acciaio costituita da una serie di anelli che reggevano il peso delle gambe e che si estendevano dai piedi alla pancia. Grazie a tale espediente riuscì a mostrarsi in posizione eretta durante tutta la campagna elettorale,
Vinse per meno si 25mila voti su oltre 4 milioni di votanti e iniziò il suo primo mandato da governatore dello Stato di New York proprio quando la grande depressione stava mostrando i suoi primi devastanti effetti. Il suo operato volto a contrastare gli effetti della crisi gli fece guadagnare facilmente la rielezione nel 1930, quando venne confermato governatore dello Stato con il 56,5% dei consensi e oltre 700.000 voti di differenza rispetto all’avversario
La popolarità ottenuta grazie alla guida dello stato di New York durante la grande depressione gli permise di candidarsi alle primarie democratiche in vista delle elezioni presidenziali del 1932. Ricevette subito il sostegno di alcuni importanti esponenti del Partito Democratico fra cui l’editore William Randolph Hearst, l’imprenditore di origine irlandese Joseph P. Kennedy (padre del futuro presidente) e l’importante politico californiano William Gibbs McAdoo.
Mancavano però all’appello circa un centinaio di delegati per raggiungere i due terzi dei voti necessari per la nomination. Roosevelt riuscì ad ottenerli grazie ad un accordo raggiunto con il presidente della Camera dei rappresentanti John Nance Garner, un influente politico del Texas che in cambio dell’appoggio ottenne la candidatura alla vicepresidenza. Poco dopo si recò a Chicago dove accettò formalmente l’investitura del Partito Democratico e pronunciò un importante discorso nel quale illustrò a grandi linee le sue intenzioni, impegnandosi a dare “un new deal (nuovo patto o nuovo corso) al popolo americano” per sconfiggere la crisi economica che da anni stava dilaniando gli Stati Uniti. Durante la campagna elettorale attaccò duramente il presidente repubblicano Herbert Hoover, facendo attenzione a mettere in evidenza gli errori fatti da Hoover nell’affrontare la crisi. L’atteggiamento fiducioso e pieno di grinta di Roosevelt contrastava nettamente con l’atteggiamento quasi rinunciatario di Hoover: l’esito delle elezioni sembrò dall’inizio definito.
Roosevelt riuscì ad ottenere 22.821.277 di voti (il 57,4%) contro i 15.761.254 (39,7%) del presidente Hoover. Trionfò in quarantadue dei quarantotto stati riuscendo a conquistare ben 472 grandi elettori su 531.
Washington, 4 marzo 1933
Questo è per me giorno di consacrazione alla Nazione, e sono certo che i miei concittadini americani si attendono che, sul punto di insediarmi alla Presidenza, io mi rivolga a loro col candore e con la decisione che la situazione presente del nostro popolo rendono necessari.
Ritengo che questo sia soprattutto il tempo di dire la verità, tutta la verità, con sincerità e coraggio. Non si può rifuggire, oggi, dall’affrontare onestamente le attuali condizioni del nostro paese.
Questa grande nazione saprà sopportare ancora, come ha già saputo sopportare, e saprà anche risorgere alla prosperità. Lasciate dunque che io esprima tutto la mia ferma convinzione che quanto
dobbiamo soprattutto temere è di lasciarci vincere dalla paura, da quella paura senza nome, irragionevole e ingiustificata, che paralizza i movimenti necessari per trasformare una ritirata in
un’avanzata.
In tutte le ore oscure della nostra vita nazionale una guida basata sulla franchezza e sull’energia ha incontrato quella comprensione e quell’appoggio del popolo intero, che sono essenziali per giungere alla vittoria; sono convinto che, ancora una volta, voi non mancherete di sostenere coloro che
debbono guidarvi in questi critici giorni.
Tali le condizioni di spirito nelle quali io e voi ci apprestiamo ad affrontare le comuni difficoltà.
Grazie al Ciclo, esse si riferiscono esclusivamente a beni materiali. I valori sono discesi a livelli fantasticamente bassi; le imposte sono cresciute; la nostra capacità di pagamento è diminuita; ogni categoria di amministrazione deve tener conto di una notevole diminuzione delle sue entrate; nelle correnti commerciali si è prodotto un vero congelamento delle possibilità di scambio; per ogni dove
ei posano le foglie secche dell’iniziativa industriale; gli agricoltori non trovano mercati di sbocco per i prodotti della terra, e migliaia di famiglie hanno perduto i risparmi pazientemente accumulati in lunghi anni.
Ancora più grave è la circostanza che una folla di disoccupati si trova di fronte al tetro problema
della propria esistenza, mentre un numero non minore di cittadini continua a lavorare con scarso
profitto. Solamente uno sciocco ottimista potrebbe negare l’oscura realtà del momento.
Eppure le nostre sciagure non derivano da alcun fallimento sostanziale. Ne siamo colpiti da alcun flagello di locuste. Dovremmo anzi aver seri motivi di riconoscenza, ponendo mente ai pericoli vinti
dai nostri avi grazie alla loro fede e alla loro audacia. La natura ci offre ancora le sue incalcolabili
ricchezze, e gli sforzi dell’uomo sono giunti a moltiplicarle. L’abbondanza è alle soglie delle nostre
case, ma la possibilità di valercene viene meno benché questi tesori ci siano a portata di mano.
Questo accade perché quanti dominano nel campo dello scambio dei beni materiali, venuti meno
dapprima al loro compito per ostinazione ed incompetenza, ammettono poi il loro fallimento ed
abdicano alle loro responsabilità. Davanti al tribunale dell’opinione pubblica, condannati dal cuore e dalla mente degli uomini, stanno i sistemi di speculatori poco scrupolosi.
A loro difesa si potrebbe ammettere che essi hanno pur tentato di agire; ma d’altra parte si deve dire che hanno agito seguendo schemi di tradizioni ormai superate. Di fronte al fallimento del credito,essi hanno saputo soltanto proporre di ricorrere a nuove concessioni di credito. Quando è stato loro impossibile di continuare a prospettare il miraggio del profitto per indurre il nostro popolo a seguire le loro false teorie di governo, essi hanno creduto di poter correre ai ripari con pietose esortazioni invitanti a concedere ancora la perduta fiducia. Essi non conoscono altre norme, che quelle di una generazione di difensori dei propri interessi. Non hanno alcuna larghezza di visione, e quando manca tale elemento i popoli decadono.
Questi barattatori del denaro altrui sono fuggiti dai loro alti seggi nel tempio della nostra civiltà.
Sarà ora possibile restituire questo tempio al culto delle verità antiche. E la misura più o meno vasta
di questa restaurazione dipenderà dalla proporzione nella quale verranno applicati valori sociali più
nobili di quelli del puro e semplice profitto monetario.
La felicità non consiste esclusivamente nel possesso del denaro; essa si concreta nella gioia del
raggiungimento d’uno scopo, nell’emozione data da ogni sforzo di creazione. Nella folle rincorsa dietro profitti evanescenti non si deve più dimenticare la gioia e lo stimolo morale prodotti dal lavoro. Questi giorni difficili saranno valsi il prezzo di qualsiasi sacrificio sofferto, se ci avranno insegnato che il nostro vero destino non è di sottostare rassegnatamente a tante difficoltà, ma di reagire ad esse per noi stessi e per i nostri simili.
Il riconoscere la falsità della ricchezza puramente materialistica come indice di successo procede di
pari passo con l’abbandonare la falsa convinzione che i posti di alta responsabilità pubblica e politica si identificano con i fini dell’ambizione e del profitto personale. Bisogna porre fine a quella linea di condotta bancaria e commercialistica, che troppo spesso ha permesso di confondere la concessione di sacri diritti con la possibilità di perpetuare impunemente il male secondo criteri spietatamente egoistici. C’è poco da meravigliarsi di fronte alla diminuita fiducia, perché la confidenza prospera solo se alimentata dall’onestà, dal senso dell’onore, dal mantenimento delle obbligazioni assunte, da i un costante spirito di protezione e da una linea di condotta invariabilmente altruistica. In mancanza di tali elementi la fiducia è destinata a morire.
Ma la ricostruzione non esige solo modificazioni di indole morale. La nostra nazione domanda di
poter agire, e immediatamente. Il nostro primo grande compito è di dare lavoro al popolo. Non è
un problema insolubile, se affrontato con saggezza e coraggio. Può essere parzialmente risolto per mezzo di ingaggi diretti da parte del governo, affrontando la questione come si affronterebbe in caso di bisogno la mobilitazione per una guerra; ma nello stesso tempo non dimenticando che tale impiego di uomini va diretto al compimento di opere di grande utilità pubblica, realizzando progetti adatti a provocare e riorganizzare l’uso delle nostre grandi risorse nazionali.
Al tempo stesso, però, bisogna ammettere francamente che nei nostri centri industriali esiste un
eccesso di popolazione, ed in conseguenza, impegnandoci in una ridistribuzione di uomini in tutta
la nazione, occorrerà tentar di provocare un migliore sfruttamento delle possibilità agricole del
suolo americano, a beneficio di chi è più adatto alla coltivazione della terra. Affermo che questo
compito può essere facilitato da sforzi ben precisati per giungere ad un rialzo del valore dei pro
dotti agricoli e quindi ad una aumentata capacità d’acquisto della produzione dei centri urbani. Può
essere facilitato impedendo con mezzi pratici l’aumento delle perdite, che deriva alle nostre piccole
aziende agricole da affrettate e premature sospensioni della loro attività. Può essere facilitato insistendo sull’opportunità da parte del Governo Federale, di quelli dei vari Stati e delle amministra
zioni locali di fare il possibile per ridurre i gravami delle imposte. Può essere facilitato unificando
attività che oggi sono inadeguate, antieconomiche e mal distribuite. Può essere facilitato per mezzo
di un progetto nazionale per l’organizzazione e la sorveglianza sui trasporti, le comunicazioni e altri
servizi, che hanno un carattere spiccatamente pubblico. Insomma, molti sono i mezzi per risolvere il
problema, che non verrà tuttavia mai risolto soltanto col continuare a parlarne. Occorre agire: e
dobbiamo agire rapidamente.
Infine, nel nostro progresso verso una ripresa del lavoro occorre tenere presenti due salvaguardie contro i mali del vecchio ordine di cose: bisogna esercitare una stretta sorveglianza su tutto il
sistema bancario, creditizio e di investimento del denaro; bisogna finirla con le speculazioni basate
sul denaro altrui; ed è necessario prendere disposizioni per raggiungere una correntezza adeguata,
ma solida.
Tale è il programma d’azione attraverso il quale ci proponiamo di ridare l’ordine alla nostra nazione e di riportare al pareggio il suo bilancio. Le nostre relazioni commerciali con l’estero, benché di somma importanza, dal punto di vista dell’urgenza e quindi del tempo vengono necessariamente
in seconda linea, e non possono essere affrontate che dopo la riorganizzazione di una salda economia nazionale. Io considero sana politica l’affrontare in precedenza quello che è per noi di primaria importanza. Farò di tutto per favorire il commercio attraverso un riassestamento dell’economia internazionale, ma le immediate necessità interne della nazione non possono attendere che questo si compia in precedenza.
L’idea fondamentale, che coordina i mezzi specifici per giungere al risanamento nazionale, non
è strettamente nazionalistica. In primo luogo essa consiste nel tener conto dell’innegabile interdipendenza di tutti i vari elementi che formano gli Stati Uniti d’America; è una specie di riconoscimento dell’antico e perennemente essenziale spirito del pioniere americano. In essa è la via della salvezza.
Anzi, essa è l’immediata salvezza. Ed è la certezza che la rinascita sarà duratura.
Nel campo della politica estera vorrei indirizzare la nazione sulla via del buon vicinato, seguendo i principii di chi rispetta risolutamente sé stesso e, proprio per questo, rispetta anche i diritti degli altri. Bisogna essere come l’uomo che riconosce la santità delle proprie obbligazioni in mezzo al
mondo di tutti i suoi vicini.
Spero di interpretare fedelmente il pensiero del nostro popolo dicendo che mai prima di ora abbiamo così chiaramente realizzato la nostra interdipendenza, l’uno con l’altro; abbiamo imparato
che non è lecito prendere soltanto, ma che bisogna anche saper dare; che, se vogliamo progredire, occorre marciare come un esercito fedele e ben addestrato, pronto a sacrificarsi per il trionfo della
comune disciplina, perché senza tale disciplina non può esistere progresso, ne alcuna guida può dare
buoni risultati. So bene che siamo pronti e disposti a sottoporre la nostra vita e le nostre ricchezze
a tale disciplina perché essa consente il consoli darsi d’una linea di governo che tende a un più
diffuso benessere. Questo io mi propongo d’offrire, promettendo che i più vasti obiettivi da raggiungere peseranno su noi, su tutti noi, come una sa era obbligazione, con un’unità di doveri, che sino
ad oggi è stata invocata solo in tempi di guerra.
Fatta questa promessa, assumo senza esitazioni il comando di quel grande esercito che è il nostro
popolo, per muovere un disciplinato attacco contro i comuni problemi.
Sotto la forma di governo ereditata dai nostri avi è possibile agire in questa forma e per tale fine. La nostra Costituzione è così semplice e pratica che è sempre possibile affrontare esigenze straordinarie con adattamenti insignificanti delle sue disposizioni e senza derogare dai suoi principii essenziali. Ecco perché il nostro sistema costituzionale si è costantemente dimostrato il meccanismo più superbamente duraturo che esista nel mondo moderno. Ha resistito a ogni frangente di espansione territoriale, di guerra intestina, di relazioni col resto del mondo.
È quindi lecito sperare che il normale equilibrio tra il potere esecutivo e legislativo si dimostri in
tutto adeguato a fronteggiare l’eccezionale compito che ci attende. Ma può anche darsi che situazioni mai presentatesi in precedenza e richiedenti azione immediata possano costringere a momentanee deroghe dal normale equilibrio della pubblica procedura.
Osservando i miei doveri verso la costituzione, sono pronto a richiedere l’adozione di quelle eccezionali misure che una nazione gravemente colpita potrebbe esigere in questo mondo gravemente colpito. Tali misure, o quelle che il Congresso dovesse ricavare dalla sua esperienza e dalla sua saggezza, io cercherò, entro i limiti della mia autorità costituzionale, di portare alla più sollecita adozione.
Ma se il Congresso non volesse adottare una di queste due alternative, e se la situazione della nazione fosse ancora critica, io non mi sottrarrò alla chiara responsabilità che eventualmente mi si presentasse. Domanderei al Congresso l’ultimo mezzo che resterebbe per fronteggiare la crisi: ampi poteri esecutivi per combattere contro i pericoli del momento, poteri altrettanto ampi come quelli che mi si potrebbero dare se il nostro territorio fosse invaso da un nemico.
In cambio della fiducia avuta in me saprò dare il coraggio e la devozione che convengono al momento presente. È il meno che io possa fare.
Noi affrontiamo i difficili giorni che ci attendono, col vivo coraggio derivante dalla nostra unità
nazionale, con la chiara coscienza di voler perseguire e ritrovare gli antichi e preziosi valori morali,
con la netta soddisfazione proveniente dal compimento del proprio dovere da parte dei giovani e
dei vecchi. Nostro scopo è il raggiungimento di una vita nazionale stabilmente riordinata.
Non guardiamo con sfiducia verso l’avvenire della vera democrazia. Il popolo degli Stati Uniti non
ha tradito sé stesso. Nel momento del bisogno ha sottoscritto la richiesta di volere che si agisca sollecitamente e decisamente. Ha chiesto la disciplina e ha voluto essere guidato con sicurezza. Ha fatto di me l’attuale strumento del suo volere. Secondo lo spirito col quale il dono m’è stato fatto, io lo accetto.
In questo giorno di consacrazione alla nazione domandiamo umilmente la benedizione di Dio.
Che Egli protegga ciascuno e tutti noi. Che Egli mi guidi nei giorni venturi.