Se oggi fosse in vita, il riminese Marco Pesaresi sarebbe sicuramente uno dei fotografi italiani contemporanei più abili. “La mia fotografia prende corpo – nasce – da tradizioni contadine, di campagna; e si sviluppa nella poesia del mare d’inverno; accompagnandosi a immagini di libertà, di emancipazione, di trasgressione nella notte. Però, comunque, nasce dalla campagna. Io amo questa terra, la amo con tutto il cuore. Ne amo i luoghi, mi piacciono i luoghi. E poi mi piace tantissimo – questa terra – perché muta in continuazione. Nulla è mai uguale all’anno precedente, tutto è in evoluzione continua. Più soffro e più mi affanno nella ricerca della poesia. Più sento che dentro di me vivo situazioni di disturbo, difficili – cose che purtroppo nella mia vita continuamente incontro – più il mio sguardo si addolcisce. E più cerca la serenità l’armonia delle immagini. E qualche volta le trova.” Con queste parole Marco parlava del suo amore per la sua terra, Rimini, alla quale dedicò anche il suo ultimo lavoro, e al tempo stesso per la poesia, tanto ricercata e altrettanto sofferta.
LA METROPOLITANA: TIMES SQUARE. UNA GIOVANE COPPIA SI SCAMBIA UN BACIO.
Marco era infatti attratto dall’umanità, in tutta la sua complessità. Non a caso avvertiva l’esigenza di scavare nelle problematiche sociali e nell’inferno personale degli altri per provare a sentire di meno il proprio. “Underground” è il titolo del suo progetto, forse il più riuscito, dedicato alla gente incontrata casualmente per le metropolitane delle più grandi città. E’ difatti il dipinto di grande impatto visivo della vita, un dipinto onesto, commosso, colorato. La sua fotografia è il riflesso di una sensibilità estrema , sia artistica che umana. E’ una fotografia irrequieta, una ricerca di serenità attraverso i propri occhi e la vita degli altri. E’ un amore intenso, che si scaglia forte e s’imprime con naturalezza sulla pellicola.
La giornalista Renata Ferri ha parlato dell’amore di Marco per la fotografia, in questi termini: “Per fortuna c’era la sua Rimini, dove tornava e dove tutto quel male del mondo diventava malinconia. Come un poeta, sapeva trasformare le sue affollate visioni del mondo in spazio, cielo, mare, terra delle origini e profumi portati dal vento. La sua fotografia si trasformava, toglieva il colore e restituiva solo poesia. Non più periferie dell’umanità e volti di mille razze, ma silenzio e distese, dove lo sguardo, il suo e il nostro, può essere infinito. Marco amava e odiava tutto quello che aveva con violenta intensità. So per certo che la fotografia è stata la stagione più bella della sua vita e siccome so che è stata una stagione lunghissima, credo abbia vissuto, dannato ed errante, intenso e visionario, l’unica vita possibile.” La fotografia è stata per Marco una valvola di sfogo, il mezzo di cui si è servito per incanalare le proprie visioni e quell’irrequietezza che tanto lo faceva soffrire.
Marco ha cessato di vivere nel 2001 gettandosi con la macchina nel porto di Rimini, nel mare della terra che aveva spesso fotografato con una vena malinconica. Nonostante la morte fisica, il suo punto di vista, così intenso e bramoso di poesia, continua a scorrere con maggiore intensità affascinando, emozionando e continuando a suscitare grande ammirazione. Dopo aver amato per tanto tempo la gente, ora è la gente ad amarlo intensamente. Tutto ciò è possibile anche grazie all’amore e alla sensibilità della madre Isa, che si prende cura della conservazione e della diffusione dell’archivio fotografico del figlio.
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Intervista a Paolo Raeli: La fotografia mi ha permesso di fermare il mondo come avrei voluto che fosse.
Paolo Raeli, giovanissimo, originario di Palermo. Le sue fotografie sono attualmente molto apprezzate in Italia e all’estero. Recentemente ha anche pubblicato un libro. Lo abbiamo intervistato per conoscere più da vicino il suo mondo, fatto di emozioni pure e momenti unici e irripetibili.
Chi è Paolo Raeli?
Ho provato a darmi una risposta, e davvero – so che magari sembra pretenzioso dirlo – ma qualsiasi cosa mi viene in mente svilisce quello che vorrei davvero descrivere. Certe cose sono inesplicabili. Cambio continuamente.
Come e quando ha iniziato a fotografare?
Avevo poco meno di diciotto anni: dopo la fine del mio primo amore ho cercato di incanalare tutta l’energia che avevo dentro e che ogni giorno si moltiplicava dentro di me, convergendola in una forma d’arte. La fotografia mi ha permesso di fermare il mondo come avrei voluto che fosse.
Se dovesse associare una canzone o un album alla sua fotografia, quale sceglierebbe?
Always Returning, Brian Eno.
Come si pone verso i soggetti ritratti?
Li amo, tutti. Passati e presenti, nell’imperfezione, nella bellezza, in ciò che li rende unici. Apprezzo chiunque mi permetta di lasciarsi immortalare. Ci vuole una forma di coraggio secondo me.
Qual è l’aspetto a cui presta maggiore attenzione mentre fotografa?
La cura verso gli altri. Ho bisogno che tutti si sentano a loro agio. E ciò non significa che si debba necessariamente guardare in camera, o sorridere, o chissà cosa. Potresti anche piangere, ed essere comunque a tuo agio. Si tratta di qualcosa che si percepisce nell’aria.
Cosa intende raccontare di sé attraverso la fotografia?
Citando un film di Mark Romanek: “Se queste immagini potranno mai avere un significato per le generazioni future, sarà questo: io c’ero, sono esistito. Sono stato giovane, sono stato felice. E qualcuno a questo mondo mi ha voluto abbastanza bene da farmi una fotografia.”
Trova che la fotografia possa veramente essere un’ottima terapia per la paura di dimenticare?
Mi piace pensare che sia così. Abbiamo tutti bisogno di credere in qualcosa, è necessario.
Quali emozioni intende catturare attraverso i giovani che ritrae?
Cerco la spontaneità. E’ anche quella qualcosa che è difficile da spiegare, ma si riesce a percepire. Sento di dare un tocco molto personale alle mie foto: scelgo di vedere la bellezza nel mondo. Molti documentano una realtà cruda, caotica. Io amo sognare. Mi piace pensare che quando sarò vecchio potrò rivedere queste immagini e credere, forse anche ingenuamente, che tutto fosse davvero perfetto.
Come nasce e si sviluppa l’idea di pubblicare un libro che raccolga foto e pensieri?
Da quando ne ho memoria sono solito disegnare, scrivere: coniugare queste forme è terapeutico per me. Donald Winnicott diceva che un artista è qualcuno guidato dalla tensione tra il desiderio di comunicare e il desiderio di nascondere. Non so se mi reputo un artista, ma mi sono rivisto molto in questo pensiero. Da qui è nato il bisogno di
pubblicare un libro, in cui potessi mostrare a quante più persone possibili la mia visione del mondo. Un semplice libro fotografico, fondi bianchi e date, mi è sempre sembrato troppo riduttivo.
Quali sono i prossimi progetti in cantiere?
Regola numero uno: mai parlare dei propri progetti, a meno che non si sia riusciti a realizzarli.
Le fotografie di Paolo Raeli incantano e fanno sognare. Sono molto di più di semplici immagini. Sono il racconto di una generazione spensierata, affannata, innamorata, mutevole, fuori controllo. Quello che traspare maggiormente nei suoi scatti è un vero, sano e profondo senso di libertà, immortalato perfettamente attraverso la delicatezza dei gesti e le espressioni dei soggetti ritratti.
https://www.paoloraeli.com/
GRANDE SUCCESSO AD ALTAROMA PER BAILISS ATELIER
Larisa e Alisa Baysarov sono la mente creativa dell’ Atelier Bailiss, brand che è nato a Mosca nel 2014.
Dopo il grande successo durante la Monte Carlo Fashion Week, la maison moscovita incanta gli ospiti e addetti del settore durante AltaRoma, portandoli in un mondo di abiti e colori vivaci mescolati con quelli più tenui, per una collezione decisamente sofisticata utilizzando solo tessuti naturali e molto piacevoli da indossare.
Le ispirazioni delle designers prendono spunto dalla musica lirica, combinando eleganza e tecniche tradizionali della cultura del Caucaso russo, realizzato all’uncinetto con l’aggiunta di paillettes, strass, perle e perline.
Vediamo colori come il blu, marrone e bianco per i look eleganti e moderni. Per i capi più considerevoli troviamo il rosso acceso, fucsia e lavanda.
Intervista a Marta Bevacqua: dai primi passi ai nuovi progetti
Marta Bevacqua è una fotografa ormai ben affermata nel panorama fotografico e artistico internazionale. Originaria di Roma, attualmente vive a Parigi: una scelta coraggiosa per una fotografa che, dalle sue parole ma anche dalle sue immagini, appare come una donna tenace ed estremamente curiosa.
Qual è stato il suo primo approccio alla fotografia? Ci racconta un aneddoto?
Cercavo una fotografia o un disegno per il mio personaggio su un gioco di ruolo fantasy online. Avevo 17 anni ed ero patita per questo tipo di giochi e tutto ciò che riguardasse il fantasy. Così passai molto tempo a navigare su siti come DeviantArt, Flickr e altri. Una volta trovata l’immagine che cercavo, ho semplicemente continuato a spulciare altre immagini, ogni giorno, solo per il gusto di osservare belle fotografie. Da lì il passo è stato breve, mi sono detta che avrei potuto provarci anche io. Ho preso una vecchia macchina compatta (e rotta) in casa, ho scattato le prime foto e da lì non ho mai più smesso.
Ci sono dei fotografi che hanno segnato particolarmente il suo cammino artistico?
Ci sono senz’altro molti fotografi a cui mi sono ispirata nel tempo (e tuttora), e altri ancora che ho scoperto da poco. Non si smette mai di imparare dagli altri e di ispirarsi ad altri artisti. Posso però dire che c’è stato un fotografo di Roma che mi ha veramente aiutato a muovere i primi passi. A livello fotografico siamo in due mondi opposti, ma mi ha insegnato tanto per tutto ciò che è la fotografia in generale. Si tratta di Daniele Fiore, e potrebbe essere considerato in qualche modo il mio “mentore”. Altrimenti c’è un fotografo che mi ha colpito dal primo momento, e che ha condizionato anche le mie scelte (come quella di spostarmi a Parigi), Paolo Roversi. Non l’ho mai conosciuto (ammetto di aver provato appena arrivata in Francia, ma senza successo), ma, seppur indirettamente, mi ha insegnato comunque molto, semplicemente osservando le sue opere.
C’è qualche cineasta che adora particolarmente?
Ce ne sono molti e ammetto che non ho mai seguito più di tanto i cineasti, nonostante mi piaccia molto andare al cinema e guardare film (di quasi tutti i tipi). Sicuramente Guillermo del Toro è uno dei miei preferiti.
Come riesce a conciliare al meglio la libertà creativa con le commissioni commerciali?
Spesso è molto difficile e alcune volte impossibile. Diciamo che ho imparato a separare le due cose, quando sono inconciliabili. Nessuno fa sempre ciò che ama, pur amando il proprio lavoro. Sicuramente è importante riuscire a imporre la propria creatività seguendo però i bisogni del cliente. E’ un processo lungo ed è fondamentale farlo durante la preparazione prima dello shooting fotografico. La riuscita dipende da molte cose, in primis il cliente e il lavoro commissionato. Anche se alcune volte scatto delle fotografie che sento non mi rappresentino al meglio, riesco a sfogare la mie creatività nei molti progetti personali su cui lavoro costantemente. Arrivare a lavorare per grandi clienti mantenendo intatto il proprio stile. Beh, diciamo che è lo scopo della mia carriera e spero di arrivarci un giorno.
Le è mai successo di non riconoscersi in una delle sue foto o in un progetto?
Purtroppo sì. E’ capitato per qualche lavoro commissionato ma anche in alcuni progetti personali. Alcune volte ho un bisogno estremo di sperimentare, e mi capita di allontanarmi un po’ troppo da me stessa. Allo stesso tempo, però, mi è molto utile per ritrovarmi e per imparare ed evolvermi.
Le donne da lei ritratte sono sempre molto giovani. Quale aspetto femminile adora cogliere nelle sue donne?
La particolarità, la gestualità e la possibile stranezza che può esserci nelle espressioni.
Come si pone di fronte l’errore?
Non mi abbatto, cerco di capirlo e farlo mio. Imparo.
C’è qualcosa che preferirebbe non fotografare mai?
Forse automobili.
C’è qualcosa che, invece, adorerebbe fotografare?
Gli animali.
Ha in cantiere qualche progetto in particolare?
Ho appena fatto un viaggio e ho provato a scattare alcune fotografie di paesaggio, in pellicola e digitale. Mi sta venendo voglia di sperimentare in questo senso, cogliere altro oltre le espressioni e le gestualità. O forse, chissà, mettere tutto insieme.
La fotografia di Marta Bevacqua è un mosaico di gestualità ed espressioni. Le sue donne non risultano mai artefatte o dalle espressioni forzate. La sua creatività e l’incessante voglia di sperimentare l’hanno resa un punto di riferimento per i giovani fotografi italiani e non.
https://www.martabevacquaphotography.com/
Intervista a Michele Palazzi: non amo guardare immagini di guerra e sofferenza
Michele Palazzi è il giovane e talentuoso fotografo di origini romane. Nel 2015 si aggiudica l’ambito World Press Photo nella categoria Daily Life, Stories grazie ad un interessante progetto a lungo termine sull’impatto della modernizzazione in Mongolia. Attualmente, vive a Roma ed è membro dell’agenzia Contrasto.
Nel 2015 si è aggiudicato il premio World Press Photo, attraverso un progetto a lungo termine riguardante il processo di modernizzazione in Mongolia. Cosa ha rappresentato per lei questo progetto?
I miei viaggi in Mongolia mi hanno permesso di alimentare la mia curiosità verso un mondo e uno stile di vita (quello del nomadismo) che sta scomparendo per sempre e di misurarmi con delle realtà sociali e culturali distanti da me, ma grazie alle quali sono riuscito ad apprendere molto.
Come nasce la sua passione per la fotografia? Ricorda un aneddoto?
Questa passione è andata crescendo col passare del tempo, finite le superiori ho deciso di provare a capire se la fotografia potesse essere un mezzo espressivo a me consono; negli anni ho imparato a rispettarla e ad amarla, ricevendo altrettanto indietro.
Ci sono dei fotografi che hanno inciso particolarmente sulla sua formazione?
Ovviamente moltissimi e sono anche cambiati nel tempo: Sally Mann è stata una delle prime fotografe che ho amato, e lo rimane anche oggi.
Cosa vorrebbe ancora fotografare?
Tutto quello che ancora non ho fotografato.
C’è qualcosa che, invece, preferirebbe non fotografare?
Non lo so. Sicuramente non amo guardare immagini di guerra e di sofferenza, poiché ho forti dubbi sull’impatto positivo che queste immagini possano avere sulla società.
Come si pone verso l’errore?
La mia prima reazione è sicuramente di frustrazione, ma successivamente cerco di fare tesoro dei miei errori e di imparare il più possibile da questi. Ultimamente mi è capitato di leggere l’ultimo libro di Erik Kessels “Che Sbaglio!” ed. Phaindon dove l’errore viene affrontato come una delle principali fasi creative di un autore: senza dubbio, questo saggio mi ha aiutato a rivalutare la concezione stessa dell’errore.
C’è un aspetto a cui presta maggior attenzione mentre fotografa?
Cerco sempre di trasporre mentre scatto le emozioni che mi suscita il soggetto fotografato, sia che esso sia una persona o un luogo.
Come riesce a conciliare la libertà espressiva e la creatività con i lavori commissionati?
Cerco sempre di scindere le due cose, per i lavori commerciale cerco di soddisfare al meglio le necessità del committente, mentre per i miei progetti personali l’unico committente sono io.
Quanto hanno inciso le esperienze all’estero nella ricerca ed elaborazione di un linguaggio fotografico personale?
Non credo che le mie esperienze avute all’estero di per sé possano aver influito maggiormente di altre esperienze avute in Italia: più che il luogo, credo che siano formativi il tipo e l’importanza di un’esperienza.
Quali sono i prossimi progetti in cantiere?
Nell’ultimo anno ho lavorato in Portogallo al primo capitolo di “Finisterrae”, un progetto sulla crisi economica e sociale dell’Europa del sud. Al momento sto portando avanti il secondo capitolo in Italia: il progetto cerca di rappresentare la crisi sud-europea attraverso un linguaggio allegorico, guardando alla società contemporanea da un punto di vista soggettivo.
Le immagini di Michele Palazzi sono dai toni decisi e trasportano inconsciamente l’osservatore nel pieno dell’atmosfera catturata dall’autore. Ne deriva pertanto un’atmosfera estremamente affascinante, capace di condurre in altri luoghi e in nuovi mondi.
Intervista a Luca Bortolato: tra dialoghi silenziosi e liberi pensieri
L’incontro tra Luca Bortolato e la fotografia avviene in maniera del tutto spontanea. La fotografia è, per lui, il mezzo più adeguato per esprimere ciò che egli stesso è. E’ una fotografia intima, molto simile ad un diario personale. Le sue immagini sono la sintesi elegante di sensazioni e profonde riflessioni.
Come nasce la sua passione per la fotografia?
La fotografia è capitata per caso. Cercavo un modo per parlare, una lingua per dialogare con me stesso e per me stesso. È arrivata nel 2007 grazie una concomitanza di incontri fortuiti che segnarono i miei inizi. Le Immagini c’erano già da molto prima.
Ha più volte affermato che in fotografia, ogni immagine è un autoritratto. Come vive il rapporto con la sua identità?
Di amore e odio, di demoni e meraviglie. Un percorso tortuoso, dolce e amaro. Noi siamo esattamente le nostre foto: un concetto semplice, ma difficile da accogliere.
Come si è evoluta la sua fotografia negli anni? Cosa desidererebbe, invece, fotografare?
Non si è evoluta, è soltanto variata perché ha fin da subito cambiato i miei pensieri. Tutto ciò che vorrei fotografare è, invece, semplicemente me stesso.
Molte sue immagini trattano il tema della solitudine in chiave ironica. Com’è il suo rapporto personale con essa?
L’ironia è solo nel mio modo d’essere. È sempre una sorta di malinconia, invece, quella che ritrovo nei miei percorsi e nei miei ascolti. La solitudine, se accolta, è una coperta che coccola, costruita su dialoghi silenziosi e liberi pensieri.
Ci può parlare del progetto Mericans? Come nasce e quanto si reputa soddisfatto?
Questo lavoro si differenzia molto da tutta la mia produzione precedente: io, per primo, ne sono rimasto sorpreso. Viaggio e mi sposto molto, ma la macchina fotografica non è mai con me, semplicemente perché ho bisogno di vivere appieno quello che mi sta attorno. Il viaggio a New York è cominciato come un diario di ricordi, in un luogo in cui difficilmente sarei tornato, almeno non subito. Ho cominciato da qualcosa che già conoscevo bene: l’identità. I volti delle persone non mi hanno mai interessato, esse sono sempre state come uno specchio in cui affogare. New York è diventata, in quei giorni, un riflesso in cui guardarmi. Fin da subito mi è stato familiare ritrovare la solitudine e la malinconia, sensazioni tangibili e immediatamente riconoscibili in una città che in realtà vuole mostrare l’estremo opposto di sé. Sembra che in ogni istante essa possa offrire mille opportunità diverse per chi ci vive, per chi ci prova e per chi, come me, arriva da lontano sapendo di non fermarsi. Le persone erano lì, come a ripetere a se stesse che, alla fine, andrà tutto bene.
Il corpo femminile è spesso ritratto senza che si veda il volto. E’ un modo affinché chiunque si possa riflettere nelle sue immagini?
È un modo perché io possa riflettere con le mie immagini: tutto il mio percorso parla di me. Una costante ed estenuante ricerca delle mie molte sfaccettature, una sorta di esorcizzazione dei lati che amo e che allo stesso tempo non capisco.
È diventata così una “fotografia di accettazione”, un percorso del sé, un’auto-analisi attraverso gli altri. Le persone hanno sempre fatto da filtro, fra me e la realtà.
Quali sono i fotografi che ammira particolarmente?
Quelli che ancora non conosco.
Se dovesse associare la sua fotografia a un libro che lo ha colpito, quale nominerebbe? Perché?
“Corpi e Anime” di Maxence Van der Meersch, letto molti anni fa e ripreso di recente. Racconta di realtà sospese e di solitudini strazianti: un non tempo di personaggi accomunati dal dolore.
C’è un progetto a cui si sente più affezionato?
Ci sono stati dei giri di boa durante il mio percorso che hanno modificato il mio approccio e il mio pensiero. C’è stato l’arrivo del colore iniziale, la consapevolezza identitaria della fotografia poi. Infine, nell’ultimo anno, si è aggiunta la consapevolezza di poter dialogare e mostrare ad altri i miei pensieri, costruendo nuove interazioni attraverso la didattica.
Quali sono i prossimi progetti o eventi fotografici in cantiere?
Ho messo nero su bianco tutto il mio percorso, l’ho sintetizzato in un laboratorio che mi sta regalando moltissime soddisfazioni. Accompagno chi vuole ascoltarmi, in una profonda riflessione su se stessi attraverso le immagini che producono. Un ottimo riscontro è stato l’essere accolto con molto entusiasmo in importanti musei e associazioni con cui continuerò a collaborare nel corso di tutto il prossimo anno, costruendo assieme percorsi didattici nei quali la fotografia consentirà di smascherarci attraverso le immagini. Un nuovo, ulteriore, giro di boa.
Lo sguardo di Luca Bortolato sul mondo non è mai intrusivo, anche quando i soggetti ritratti sono donne. La sua fotografia si serve spesso del corpo per “documentare” l’esistenza in tutta la sua immensa complessità. Quello che più colpisce delle sue immagini è senza ombra di dubbio l’atmosfera che avvolge in maniera quasi naturale le sue donne, fragili e forti al tempo stesso; ne deriva, pertanto, una fotografia intimista, delicata, suggestiva ed intellettualmente onesta.
http://www.lucabortolato.com/
Intervista a Michele Palazzo: dove comincia il suo mondo
Michele Palazzo è il fotografo originario di Ravenna che sarà protagonista a Milano, presso la galleria Still, a partire dal 29 novembre per la sua prima mostra personale. La mostra, intitolata “Dove comincia il mondo“, è curata da Denis Curti e Maria Vittoria Baravelli.
“Dove comincia il mondo” è il titolo della sua mostra personale. Dove comincia, invece, la sua passione per la fotografia?
Comincia molto presto, negli anni della mia adolescenza alle scuole medie. Ho frequentato una scuola media sperimentale annessa all’Istituto d’Arte per il Mosaico di Ravenna, ed a differenza delle altre scuole medie tradizionali, avevamo molte più ore di materie artistiche tra le quali fotografia. Erano ovviamente gli anni della fotografia analogica e la magia di sviluppare le foto autonomamente in camera oscura mi ha completamente rapito. Da quel momento in poi, con periodi più o meno intensi, la fotografia non mi ha più abbandonato.
Come approccia con i passanti mentre fotografa? Chiede se può fotografare o, semplicemente, cattura l’immagine?
Mai. Se chiedo il permesso, interrompo la magia del momento. I miei sono tutti ritratti fatti candidamente.
Dalle sue immagini vien fuori un mosaico di etnie e culture differenti, che si riflette anche nei colori. Qual è l’aspetto a cui presta maggior attenzione mentre fotografa?
Ci sono molte cose che catturano la mia attenzione: i volti, i vestiti, il background o la luce. E’ una cosa che faccio quotidianamente, è un esercizio di osservazione e di curiosità continua che non mi abbandona mai, nemmeno quando non ho una macchina fotografica con me.
Che posizione occupa la tecnica nella sua fotografia?
Credo che sia una cosa acquisita per il tipo di fotografia che faccio, anche se ovviamente ci sono sempre cose da apprendere. Non sono un fotografo da studio e, quindi, quella tecnica la conosco poco e posso essere sicuramente considerato un principiante; tuttavia, se mi dovesse servire o ancora meglio incuriosire, allora mi ci dedicherei in maniera ossessiva come faccio con tutte le cose che mi intrigano.
Ci sono dei fotografi che hanno segnato particolarmente la sua visione della fotografia?
Probabilmente moltissimi, ma anche pittori, designers e architetti. Ho sempre avuto una grande curiosità visiva e una pessima memoria per i nomi, per cui le mie influenze sono le più svariate. Ho un background in architettura, un lavoro da designer nel mondo digitale, questa passione sfrenata per la fotografia e amo viaggiare: sarebbe riduttivo citare solo qualche fotografo. Poi ne scopro nuovi e vecchi ogni giorno, preferisco mantenere vivo questo senso di continua sorpresa e scoperta.
La sua visione del mondo si riflette nella sua fotografia, o la sua fotografia ha inciso nella sua visione del mondo?
Sicuramente la prima, anche se a volte riguardando le mie fotografie e a mente fresca, scopro un punto di vista inaspettato anche a me stesso. La mia macchina fotografica è un passe-partout per nuovi mondi e avventure: probabilmente senza questa mia passione quotidiana non avrei mai avuto accesso o scoperto metà delle cose che ora fanno parte di me.
C’è una parte del mondo che desidera fotografare attualmente?
In senso geografico, l’Asia che non ho mai visitato e che conosco solo attraverso l’occhio di altri fotografi. Sono curioso di vedere cosa, invece, il mio occhio sia capace di catturare. Se invece non parliamo di luoghi geografici, allora vorrei fotografare i momenti persi e le persone mai viste.
C’è qualcosa, invece, che preferirebbe non fotografare?
Ci sono probabilmente dei generi a cui non mi avvicinerò mai per mia indole, ma non mi precludo nulla.
Le capita spesso di emozionarsi rivedendo una sua fotografia?
Poche volte, credo di essere molto esigente con me stesso. Mi innamoro di alcune idee di fotografia che provo ad esplorare e molte volte, deluso dai risultati, preferisco continuare a inseguire quelle idee e ogni tanto raccogliere i frutti di quell’esplorazione.
Se dovesse associare una parola alla sua fotografia, quale userebbe? Perché?
Forse direi Pancia, perché la mia fotografia è un po’ viscerale, di pancia appunto.
La mostra di Michele Palazzo presenta New York in 20 scatti, città in cui il fotografo vive per esigenze lavorative a partire dal 2010. La New York ritratta da Palazzo è spesso evanescente: il fotografo imprime nelle sue immagini l’unicità e la magia di momenti irripetibili; ne deriva, pertanto, una visione del tutto personale della Grande Mela, dove culture ed esperienze di vita differenti si mescolano tra di loro e con l’esperienza del fotografo, sino a realizzare un mosaico piacevole da osservare ed estremamente affascinante.
Giuseppe Palmisano: la fotografia ha a che fare con l’inconscio
Giuseppe Palmisano è un giovane fotografo italiano. La sua è una fotografia che procede per sottrazione e in cui le donne ritratte risultano semplici, sensuali ed estremamente delicate.
Quando e come nasce la tua passione per la fotografia?
Ho iniziato a fotografare da ragazzino in maniera giocosa, ritraendomi da solo; facevo già teatro, l’artista di strada e mi dedicavo pertanto a video e foto. Acquistando poi una reflex nel 2009, ho iniziato a sperimentare in maniera più seria: il mezzo mi ha spinto verso la fotografia e poi, nello stesso tempo, la fotografia mi ha spinto lontano dal mezzo. Infatti, non mi è mai interessata particolarmente la tecnica.
Come ti poni con i soggetti ritratti? Come interagisci?
Avviene tutto in maniera naturale, altrimenti si tratterebbe di una fotografia di moda. Io mi pongo come se fossi un regista: nel momento in cui fotografo, la modella è un’attrice e io il regista della situazione, come se si svolgesse uno spettacolo.
Bellezza e fotografia. Come si incontrano nelle tue immagini?
Per me la fotografia non esiste. La bellezza è, invece, ciò che esiste: penso alla bellezza della donna nel contesto e non in quanto tale.
Nelle tue immagini, la donna appare incessantemente incorniciata dal contesto circostante. Qual è l’aspetto a cui presti maggiore attenzione mentre fotografi?
Mi interessa che ogni cosa sia al suo posto: c’è sicuramente ordine nelle mie immagini. Per quanto riguarda le simmetrie, si può soltanto tentare di riprodurle poiché ci sarà sempre qualcosa di imperfetto.
Le donne che ritrai sono sempre donne semplici, prive di tutto ciò che è superfluo. Qual è la funzione che attribuisci alla presenza femminile all’interno dell’immagine?
Non parlerei di funzione, altrimenti sarebbero soltanto degli oggetti. Semplicemente, mi piace la donna come soggetto da ritrarre, in quanto diverso da me: credo che sia più adeguata a trasmettere ciò che io vorrei.
La tua è una fotografia “di ricerca”. Dove si dirige attualmente?
Non si può definire dove una ricerca si dirige: il senso della ricerca risiede esclusivamente in se stessa. So da dove vengo e non so assolutamente dove mi sto dirigendo.
A quali fotografi ti sei ispirato per la tua ricerca?
Direi che mi sono ispirato a tutto ciò che ho visto e fatto, principalmente al teatro. Non conoscevo affatto la fotografia prima che iniziassi a fotografare. Ci sono alcuni fotografi che sicuramente mi hanno segnato, anche a livello inconscio, ma non sono stati affatto il mio punto d’inizio. Credo fermamente che la fotografia sia qualcosa di inconscio, contrariamente a chi ha l’esigenza di copiare altri fotografi pur di creare. Sicuramente mi hanno molto segnato le immagini di Guy Bourdin.
Hai detto che l’arte è un modo di entrare in empatia col mondo. Puoi spiegarci meglio questa tua visione?
Per me, l’arte è un modo per conoscere gli altri e per entrarci in empatia. Non è il mezzo per farmi conoscere, bensì facendomi conoscere mi consente di avvicinarmi agli altri.
Erotismo, Immaginazione e Fotografia. Qual è il loro punto d’incontro nelle tue immagini?
Sono tre momenti differenti. L’erotismo è un modo di vedere le cose. L’immaginazione è quella che ho quando voglio fotografare o quando guardo delle cose e le associo: può essere preventiva o estemporanea. L’immagine è invece il risultato del click.
Ultima domanda. Se dovessi utilizzare una parola da associare alla tua fotografia, quale sceglieresti?
Utilizzerei “perchè” come parola. Tutto si basa sulla domanda, viviamo e facciamo senza farci delle domande.
La fotografia di Giuseppe Palmisano si contraddistingue per un linguaggio del tutto personale: le sue modelle appaiono quasi sempre agiatamente sdraiate, accovacciate, con le gambe ben in vista, o in piedi contro un muro. Esse sembrano cercare un posto nell’ambiente circostante, così come l’autore potrebbe ricercarlo nel mondo attraverso il mezzo fotografico. E’ evidente la contaminazione con il teatro: l’immagine è il frutto di una specie di improvvisazione in cui la scenografia che ne deriva è di primaria importanza. Tutto ciò ha contribuito a fare di lui un vero e proprio fenomeno virale sui social, dove le sue immagini vengono recepite visivamente dai follower come intime e sincere.
Todd Hido: il fascino di strade, case e donne
Todd Hido è attualmente uno dei fotografi più noti ed apprezzati nel panorama artistico internazionale. Noto prevalentemente per fotografare case avvolte in contesti periferici foschi e oscuri, stupisce per lo stile personale che lo rende ben riconoscibile.
Le sue immagini sono contraddistinte da atmosfere buie, dalla presenza di strade e case e dall’assenza della componente umana. Contrariamente a ciò che si può immaginare, è un tipo di fotografia che non ha nulla a che vedere con l’architettura; dalle finestre delle dimore nei quartieri americani spuntano spesso luci che segnalano un’implicita presenza umana.
Il suo stile fotografico è pittorico e cinematografico tanto nei paesaggi notturni che nei suoi ritratti e nudi. In tutte le sue composizioni, è evidente una particolare attenzione verso l’atmosfera catturata: misteriosa e intima allo stesso tempo. Le donne ritratte, seppur nude, emanano sempre un grande fascino ed un’insolita eleganza di cui sembrano quasi esserne inconsapevoli; spesso, appaiono ritratte di sfuggita, di spalle o sdraiate in posizioni sensuali.
Nei ritratti, Todd Hido pone tutta l’attenzione sullo sguardo e l’espressione del viso delle sue donne. Nella stanza, la luce circostante sembra abbracciarle dolcemente o in maniera più decisa, avvalorando la loro naturale bellezza.
La fotografia di Todd Hido appare guidata dall’istinto e dalla solitudine: casualmente s’imbatte in una strada poca illuminata o si ritrova di fronte a situazioni ricche di fascino e mistero. E’ una fotografia descrittiva e narrativa contemporaneamente: un dettaglio come uno sguardo, un’insegna luminosa o un’auto parcheggiata è sufficiente per incuriosire l’osservatore e per indurlo a fantasticare. Le sue immagini sono il segno di un’indagine che va ben oltre le apparenze e che ricerca in maniera sottile e inusuale la storia di luoghi e persone
http://www.toddhido.com/
Guy Bourdin: moda, provocazione e crudeltà
Guy Bourdin è stato sicuramente uno dei fotografi di moda e pubblicità più influenti del ventesimo secolo. Seppur meno noto rispetto al collega Helmut Newton, il suo stile ha profondamente cambiato il linguaggio pubblicitario della moda, tanto da influenzare molti dei fotografi successivi.
Nacque a Parigi il 2 dicembre 1928 al 7 di Rue Popincourt. Abbandonato dalla madre all’età di un anno, fu Madame Maurice Désiré Bourdin che se ne prese cura e lo allevò affettuosamente. Sviluppò una particolare passione per la fotografia durante il servizio militare, a Dakar. Quando ritornò a Parigi, conobbe il grande Man Ray che incise indubbiamente sul suo stile conferendogli un tono inusuale. Nel 1961 sposò Solange Marie Louise Gèze, che morì suicida nel 1971. Dal 1955 al 1987 le sue immagini furono pubblicate su Vogue Paris; fu proprio un editore della rivista a presentare Guy Bourdin allo stilista Charles Jourdan, per il quale realizzò le campagne pubblicitarie delle sue calzature dal 1967 al 1981.
Il fotografo parigino, che rifiutò nel 1985 il Grand Prix National de la Photographie, desiderava che le sue opere venissero distrutte dopo la morte. Durante il corso della sua vita, invece, rifiutò spesso di organizzare mostre o pubblicare libri. Si mantenne sempre ben lontano dalle lusinghe dei suoi tempi e sembra che fosse molto frustrato per la notorietà che aveva acquisito nel settore fotografico. Non fu soltanto un fotografo, ma anche un bravo artista: si dedicò alla pittura fino alla fine.
Guy Bourdin ha sviluppato nel corso degli anni uno stile provocatorio, caratterizzato da immagini dai toni forti e da accostamenti surreali, in grado di spiazzare ed inquietare profondamente l’osservatore. I corpi femminili appaiono spesso sdraiati disordinatamente o frammentati; gambe che passeggiano, mani che si ripetono, corpi alienati ed elementi allusivi conferiscono una generale freddezza emotiva all’intera immagine che sfocia quasi nella crudeltà. Tale visione femminile deriva quasi probabilmente dal trauma infantile legato all’abbandono da parte dalla madre: sia con le donne a intorno a lui che con le modelle dei suoi shooting, si atteggiava con modi di fare spietati. Le modelle che egli seleziona, inoltre, sono quasi sempre dalla chioma rossa, dalla pelle chiarissima e truccate in maniera esagerata come la madre.
La personalità enigmatica e ambigua di Guy Bourdin si riflette perfettamente nell’atmosfera onirica delle sue immagini, a tratti disturbante. E’ stato il primo fotografo a frammentare fino all’estremità il corpo della donna e a costruire un linguaggio ricco di metafore sensuali . L’artista francese è stato in grado di assorbire l’influenza di Man Ray e dei surrealisti Magritte e Balthus, creando uno stile complesso, provocatorio, stupefacente e difficile da decifrare nel settore pubblicitario della moda.
Andrea Tomas Prato: Ghirri ha svelato quello che c’era e nessuno vedeva
Andrea Tomas Prato vive a Tortona, in provincia di Alessandria. La scoperta della fotografia avviene, per lui, in maniera del tutto casuale. Da quel momento, sarà la sua passione più grande, trasformandosi in un vero e proprio “gioco artigianale“.
Come nasce la sua passione per la fotografia? Ci racconta un aneddoto?
La passione per la fotografia nasce per caso, per aver accompagnato un collega ad un corso base di fotografia nel 2011. L’aneddoto, invece, è che fotografavo da anni per lavoro le scene del crimine con uno schema, una metodologia, che avrei usato lo stesso strumento con tanta passione e senza metodo, in maniera opposta.
Cosa c’è di autobiografico nella sua fotografia?
Il fatto stesso che la realizzo io.
I dettagli del corpo femminile sono i veri protagonisti di molte sue immagini. Cosa intende comunicare tramite essi?
Non credo che dietro una immagine ci debba essere per forza un messaggio. Al contrario, credo di non voler comunicare proprio nulla. E’ solo una ricerca di ciò che io considero bello esteticamente; in questo caso, ricerco ciò che più bello ci sia negli aspetti armonici del corpo femminile. Vorrei solo precisare che i veri protagonisti delle mie immagini sono le persone che fotografo nella loro unicità, e quindi nei loro ritratti.
Come si pone verso la modella, mentre fotografa?
In modo riconoscente, educato ma informale. Ci tengo molto al fatto che la persona ritratta capisca che di fronte ha qualcuno che può risultare molto meno interessante delle proprie fotografie, ammesso che lo siano.
La presenza umana sembra essere molto significativa nelle sue immagini. E’ anche un modo per sottolineare l’unicità del momento?
Certo, ma il momento è unico anche quando fotografo in assenza di soggetto; d’altronde, ogni secondo della nostra vita è unico.
Che posizione occupa l’istinto nella sua fotografia?
Un’importanza fondamentale, unitamente alla necessità di mettersi dietro l’obiettivo.
E la tecnica?
Direi, l’ultima posizione. Alcune foto, tra quelle che più amo, le ho scattate con macchine usa e getta che anche mio nipote di 5 anni sa usare. Il senso dell’inquadratura ce l’abbiamo tutti fin da bambini. Lo schermo televisivo, quello di un cinema o di un quadro ci ha inconsciamente educato. Il gusto, invece, è personale e per questo vengono fuori foto differenziate, che qualcuno si arroga il diritto di giudicare; ma è evidente che non esistono dati oggettivi in fotografia.
Cosa le piace cogliere nei paesaggi che fotografa?
Mi piace muovermi nei nostri amati colli, quelli Tortonesi, e omaggiarli catturandoli in un’immagine.
Hai affermato di apprezzare Luigi Ghirri. Quali sono gli aspetti delle sue immagini che apprezzi maggiormente?
Ghirri ha svelato quello che c’era e che nessuno vedeva, facendolo con tanta eleganza ed in silenzio. Ora tutti quanti vedono di più attraverso i suoi occhi. Ha educato davvero tutti, da quel momento in poi.
Se dovesse associare una parola alla sua fotografia, quale userebbe? Perchè?
“Gioco artigianale”, perché la fotografia che preferisco è quella che mi permette di acquistare bobine di pellicole, fare rullini, scattare, sviluppare e stampare in una piccola camera oscura; tutto questo fatto per gioco.
La fotografia di Andrea Tomas Prato è la dimostrazione di come non sia necessario essere professionisti per creare una “buona fotografia”. Nelle sue immagini, il buongusto si unisce alla semplicità, dando vita ad un momento unico e irripetibile . Il risultato finale di ogni sua ricerca è una fotografia d’impatto, intima ed armoniosa.