iPhone 16 Pro: molto più di uno smartphone


di Emanuele Di Mare

Photography: Emanuele Di Mare
Make up: Martina Belletti
supported by ARMANI BEAUTY
Styling: Diletta Pecchia
Model: Pepe Lin
Set Assistant: Davide Diana Oliaro



iPhone 16 Pro: molto più di uno smartphone

Ogni anno l’uscita del nuovo modello di iPhone coincide con un evento molto importante: l’uscita della fotocamera che accompagnerà durante l’anno tantissimi fotografi, sia per progetti personali che per lavoro.
Abbiamo avuto l’opportunità di testare il nuovo modello in uno shooting editoriale in studio, dedicato ad esaltare figure intere, mezzi busti e primi piani, e l’esperienza è stata straordinaria.

Un Controllo Assoluto della Fotocamera

Uno dei punti di forza del nuovo iPhone 16 Pro è l’introduzione del Camera Control, che consente ai fotografi di avere un controllo senza precedenti sulle impostazioni.
Difatti, si traduce nella possibilità di poter controllare parametri fondamentali come l’esposizione, il diaframma, la focale da utilizzare e la tonalità degli scatti direttamente dal nuovo pulsante, che, smartphone alla mano, va a restituire la stessa esperienza fisica di un pulsante di scatto di una fotocamera.

Il risultato? Un totale controllo con un comando dedicato del comparto fotografico, che aggiunge un nuovo livello di profondità della fotografia con smartphone.

Fotocamera Ultra-Wide da 48 Megapixel: Dettagli Straordinari

Una delle novità più interessanti di iPhone 16 Pro è la fotocamera Ultra-Wide da 48 megapixel, capace di catturare ogni minimo dettaglio anche nei set più ampi. Durante lo shooting, questa fotocamera ci ha permesso di immortalare figure intere con una nitidezza sorprendente, mantenendo una qualità eccezionale sia sui dettagli in primo piano che sul background. La risoluzione aumentata garantisce una profondità e una chiarezza che, fino a poco tempo fa, erano impensabili per uno smartphone, rendendo il dispositivo una soluzione ideale anche per set fotografici complessi.

Zoom 5x: La Magia del Primo Piano

Per gli amanti dei primi piani, la nuova fotocamera 5x, ora presente anche sul modello Pro, ha giocato un ruolo fondamentale. Grazie al teleobiettivo avanzato, siamo riusciti a ottenere primi piani incredibilmente nitidi senza doverci avvicinare eccessivamente ai soggetti, preservando la naturalezza della posa.

Nuovi Formati: JPEG XL

Una delle novità passate maggiormente in sordina di iPhone 16 Pro è la possibilità di scattare in un nuovo formato, il JPEG XL, che si è rivelato fondamentale per la gestione del flusso dei file post shooting.
Grazie al formato Jpeg XL, abbiamo potuto catturare immagini a 48 megapixel in alta risoluzione, ma con file di dimensioni ridotte rispetto ai classici RAW. Questo non solo ci ha permesso di mantenere la qualità al massimo, ma ha anche velocizzato il processo di post-produzione, ottimizzando il tempo di editing senza sacrificare i dettagli.

Questa flessibilità ci ha consentito di adattare i nostri file alle diverse esigenze del set, migliorando l’efficienza complessiva e offrendo una nuova frontiera nella gestione dei progetti fotografici.

iPhone 16 Pro: il perfetto compagno da set

Lo shooting editoriale con l’iPhone 16 Pro ha dimostrato ancora una volta che questo dispositivo è molto più di uno smartphone: è la fotocamera professionale che ti accompagna anno dopo anno sui set. Con la sua potenza, le innovazioni nel controllo ed ora la capacità di ottimizzare il flusso di lavoro attraverso nuovi formati, è il compagno perfetto per chi vuole unire praticità, qualità e flessibilità senza compromessi.



Oltre i Limiti: La Vita e l’Arte di Juergen Teller in “I Need to Live”

Oltre i Limiti: La Vita e l’Arte di Juergen Teller in “I Need to Live”

Il titolo della mostra fotografica I need to live racchiude in modo icastico molta della poetica di Juergen Teller, che attinge linfa vitale da un viscerale senso di trasgressione. In un’intervista per Vanity Fair il fotografo racconta infatti di averlo ricavato da una discussione con la moglie Dovile, la quale gli aveva fatto notare la stupidità di fumare durante un periodo influenzale. Alle prediche della donna aveva infatti replicato proprio “I need to live”.

Evidente la trasgressione di un realismo che rispetta un’estetica dell’understatement, la quale conferisce valore artistico anche a quegli aspetti della realtà considerati più bassi e deprezzabili. Tra i tanti esempi offerti dalla mostra il più emblematico è il video trasmesso su maxi schermo, nel quale il fotografo defeca nei pressi del circolo polare artico, aiutato dall’attore svedese Alexander Skarsgård.

E come in questa stravagante ripresa, spesso è sfumato il confine che separa la vita personale dalle opere del fotografo tedesco. È il caso della grande fotografia nella quale è nudo mentre beve birra sulla tomba del padre, o quella di sua figlia neonata, Iggy, che indossa una tutina con la stampa del dito medio dell’omonimo cantante.

Spesso, infatti, a rendere la realtà quotidiana degna di interesse fotografata, sono accostamenti dal sapore surreale, che in modo folgorante rivelano una verità all’osservatore che sa coglierla. Ciò accade ad esempio nella foto scattata al Louvre, raffigurante l’attrice Charlotte Rampling e la modella Raquel Zimmermann  davanti alla Gioconda: in questo caso è immediato come un corpo senza veli (che può essere il corpo di chiunque) attiri la nostra attenzione prima di una delle opere più importanti della storia dell’arte. O ancora, è straniante l’atmosfera generata dalla serie fotografica di un ammasso di crocifissi e figurine sacre, che rivela la dimensione consumistica e obsolescente degli oggetti, anche quelli ai quali viene attribuito un valore sacro. 

La nudità è al centro dell’attenzione in buona parte della mostra, ed egli stesso se ne fa portavoce in più di un ritratto, come quello in cui è sdraiato di fianco, su un materasso, con dei palloncini in mano. E ad essere immortalate nude non sono solo modelle come Kate Moss, ma anche qui il realismo irrompe, presentandoci, senza veli, una Vivienne Westwood non più giovane, che posa come nella scena del ritratto in Titanic

Questa voglia di spogliarsi e rivelare, unita alla ridefinizione di ciò che è degno di essere soggetto di uno scatto, racchiude la volontà di mettere in discussione le convenzioni per creare liberamente. Juergen Teller infatti, attraverso questi atti di libertà, stabilisce ciò che è rilevante per i propri occhi, aldilà di ciò che dovrebbe esserlo, spinto da un prorompente need of life..

Everything is mixed, nothing is alike

Everything is mixed, nothing is alike

Two couples, a 4 year old child, and Gior gio, the cat. The chalet where they stayed for five days is owned by the Bugnon Foundation and is located near Chateau d’Oex, a few hundred meters from the former residence of the painter Balthus.

During the Easter weekend, they shared cameras, vintage clothes, painting supplies, paper, and many hours in the kitchen. They had endless and brilliant discussions. and instead of celebrating resurrection, they celebrated a great creative mass. The chalet dates back to the 1700s, the light is the difficult and raw one of the pre-Alps, the faces and bodies are unique, they do not speak of fashion, they do not act: they eat, love. say swear words.
They consumed little alcohol but a lot of smoke, that of the large fireplace that was constantly burning and that of tobacco.

The cameras pass from hand to hand, they are not placed on tripods. there is no trick. the hands do not tremble becau se words comfort even if sometimes they shake, as in any respectable friendship.
The snapshots are out of time, ultra-con-temporary and acidic, in some ways unpleasant but pictorial. They are portraits of a party. portraits of faces and words. of smells and fires. They are unwanted. hated portraits that demonstrate love.

Everything is mixed. nothing is alike.

PHOTOGRAPHY: MANUELE GEROMINI & JEAN-MARIE REYNIER

STYLING: GAËLLE BON / PETITE CORTO

MODELS: CORTO, GAÊLLE, ONDINE & GIORGIO

COURTESY: AARLO U VIGGO, ART GALLERY, SWITZERLAND

Pietro Cataudella: quando i disegni si fondono con la realtà

Pietro Cataudella: quando i disegni si fondono con la realtà

Pietro Cataudella, classe 1991, è un illustratore e content creator siciliano molto conosciuto sui social network, in particolare Instagram.

CityliveSketch è il suo progetto nato nel 2014, con lo scopo di mostrare la bellezza dei luoghi iconici, le vedute più caratteristiche del mondo, le scene dei film ed i libri più conosciuti. Per condividere tutto questo, Pietro combina in maniera impeccabile le fotografie con i disegni che realizza su un semplice quaderno da viaggio.

Pratica, perseveranza ed entusiasmo, hanno portato Pietro ad arricchire la realtà, trasformandola in un vero racconto grazie ai suoi fantasiosi disegni.

La rivista D-Art ha avuto modo di intervistarlo, ecco a voi le domande:

Parlaci meglio del tuo progetto CityliveSketch: da dove nasce l’idea e quale è stato il primo disegno?

CityLiveSketch nasce dal desiderio di voler condividere immagini che non fossero solamente fotografie, ma dei contenuti più personali e originali.

Ho deciso così di unire le mie passioni per fotografia e disegno per realizzare qualcosa di nuovo. L’idea è nata nell’estate del 2014 a Marzamemi, piccolo borgo marinaro e frazione del mio paese di origine, Pachino, in provincia di Siracusa. Questo il primo CityLiveSketch:

Dove trovi l’ispirazione?

Da tutto ciò che mi circonda, paesaggi, scorci, monumenti o oggetti di uso comune.

Come realizzi i tuoi disegni e le relative fotografie?

Inizialmente i disegni li realizzavo a matita o penna su un taccuino. Da alcuni anni ho aggiunto al mio workflow il disegno digitale. Per quanto riguarda le fotografie, le scatto tutte con smartphone.

A quale disegno sei maggiormente legato e perché?

Ad oggi sono molto legato a questa illustrazione, realizzata durate il periodo di lockdown perché è una sorta di inno al ricongiungimento con i propri cari.

Ti ispiri a qualche artista in particolare?

Non proprio, cerco di avere sempre un mio stile riconoscibile.

Progetti per il futuro?

Spero di poter tornare presto a viaggiare in totale serenità e sicurezza per scoprire nuovi posti ed includerli in maniera creativa ed originale al mio progetto @CityLiveSketch.

100 fotografi per Bergamo, la raccolta fondi lanciata da Perimetro


Secondo Carl Rogers, psicologo statunitense fondatore della “terapia non direttiva”, il concetto di “empatia” non sta solo alla base della tecnica terapeuta, ma è fondamentale all’ esistenza stessa. 

L’empatia è quel sentimento indispensabile alla relazione umana, permette di entrare in connessione con gli altri, di capire i loro sentimenti, di identificarcisi, immedesimarsi, più specificatamente la derivazione dal termine greco significa “entrare nella sofferenza”. 

Mai come in questo momento storico, molti di noi stanno entrando in “empatia” con le migliaia di famiglie che hanno perso i loro cari a causa di questa bestia di nome COVID-19, il virus che sta uccidendo senza distinzione di razza e classi sociali. E c’è un modo concreto per dimostrare il sentimento dell’empatia, ed è l’aiuto. I più validi rappresentanti sono i medici e tutto lo staff ospedaliero che ogni giorno mettono a rischio la propria vita per salvare quella degli altri; sono i volontari, le sarte che lavorano giorno e notte per cucire mascherine ormai introvabili sul mercato, sono gli autisti che non si fermano per rifornirci dei beni di prima necessità, e poi ci sono quelli che nel mondo digital ci lavorano e stanno dimostrando di saperlo utilizzare nel migliore dei modi e per cause nobili. A partire dalla raccolta fondi lanciata da Fedez e Chiara Ferragni che ha permesso l’apertura di un nuovo reparto di terapia intensiva all’Ospedale San Raffaele di Milano. 


Ma il web non si ferma e un’altra corsa all’empatia arriva da Perimetro, il community magazine fondato da Sebastiano Leddi che, insieme alla Onlus Liveinslums, hanno lanciato l’iniziativa “100 fotografi per Bergamo”. L’obiettivo è quello di raccogliere fondi per rinforzare la terapia intensiva dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII, nella città più colpita d’Italia che si trova oggi in una situazione drammatica. 


Il mondo della fotografia tende la mano e mette a disposizione 100 foto d’autore acquistabili a questo sito:https://perimetro.eu/100fotografiperbergamo/ al costo di 100 euro l’una. Tutto il ricavato sarà interamente devoluto all’ospedale per potenziare il reparto di terapia intensiva attraverso l’acquisto di attrezzatura specialistica.

Tra gli autori rappresentanti la fotografia artistica, ristrattistica, paesaggistica, di moda, ci sono Paolo Roversi, Mario Sorrenti, Maurizio Galimberti, Oliviero Toscani, Toni Thorimbert, Settimio Benedusi, Davide Monteleone, Michelangelo Di Battista, Giampaolo Sgura, Alex Majoli, Marco Onofri, Francesco Jodice, Alessandro Furchino Capria, Mario Zanaria, Paolo Zerbini, Mattia Balsamini, Fabrizio Albertini, Piero Percoco, Andy Massaccesi…


La raccolta è iniziata il 27 marzo e terminerà il 3 aprile; in 48 ore ha già raggiunto quota 200.000 euro grazie alla viralità della notizia e grazie all’unione degli amici del web che l’hanno condivisa. 

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L’empatia, speriamo ci salvi. 

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Sfoglia la gallery con alcune foto in vendita:

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Intervista a Paolo Barretta: Ho sempre una grande esigenza di raccontare

Paolo Barretta è un giovanissimo fotografo italiano, che nonostante l’età, si caratterizza per l’eleganza delle immagini dove lo spazio assume un carattere dominante. Servendosi dei soggetti ritratti e della geometria, riproduce un mondo altamente intimista ricchissimo di immagini potenti, richiami musicali e cinematografici. Ha inoltre partecipato al famoso talent di Sky “Master Of Photography” per l’edizione del 2018.


Fotografia e cinema: come s’incontrano nelle sue immagini?


La fotografia ed il cinema sono due mondi che viaggiano parallelamente nel mio immaginario artistico. Basti pensare che uno dei miei punti di riferimento in giovanissima età è sempre stato Gregory Crewdson, che reputo esser stato un pioniere della fotografia cinematografica e scenica. Personalmente, nonostante non mi piacciano le etichette, mi definisco un fotografo ritrattista, e fondamentalmente ciò che inseguo è un ideale intimo della stage photography. Cerco di unire la mia visione ritrattista ad un’impronta cinematografica, e ciò a cui aspiro è l’idea di riuscire a creare un nuovo modo, diverso, di vedere la moda.


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Può parlarci del suo ultimo progetto?


Il mio ultimo progetto, ormai di qualche mese fa, riguarda un viaggio in crociera trascorso intorno il Mediterraneo. Ho parlato della solitudine dell’essere umano catapultato in mezzo al nulla più assoluto, come riferimento esterno al mare che porto dentro di me.
Ultimamente, per lavoro e per mio diletto personale, mi sto dedicando meno alla realizzazione di progetti e più al fotografare le modelle con cui solitamente lavoro.


Reputa la fotografia una forma di terapia personale?


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Beh, assolutamente sì, in caso contrario non sarebbe mai arrivata fino a questo punto ben radicato della mia vita. In primis esiste la musica, ma subito dopo la fotografia.
La vera terapia però risiede nella prima, tramite cui riesco a creare immagini. E’ la base, l’ispirazione madre.


Come l’avvento dei social ha influenzato la fotografia?


Ha cambiato tutto radicalmente. La frenesia di caricare tutto sui social ha fatto sì che, specialmente nei giovanissimi, non ci sia più un senso critico e di selezione, ma essenzialmente la brama di pubblicare qualunque tipo di contenuto.
Chiaramente mi riferisco solo ed esclusivamente alla fotografia, in quanto altrimenti dovremmo affrontare un discorso gigantesco. Tutto è diventato troppo fast, nessuno ha intenzione di dedicare più di qualche secondo nella valutazione di un contenuto che gli si palesa davanti, e questa dinamica, a mio avviso, è molto pericolosa.


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Come concilia la ricerca estetica all’esigenza di raccontare?


Ho sempre una grande esigenza di raccontare. Ho sempre anche una ricerca estetica. Queste due peculiarità viaggiano insieme, motivo per cui non mi risulta complesso conciliarle perché già intrinseche in me. La mia ricerca estetica è sempre condizionata da ciò che voglio comunicare, e viceversa.


Come nasce la sua passione per la fotografia?


La grande passione, odi et amo, per la fotografia nasce una manciata di anni fa, in tenerissima età, durante un periodo di grande bisogno espressivo già iniziato qualche anno prima con la musica. Mi sono avvicinato alla fotografia per creare qualcosa di diverso e alla fine è diventata, spero ancora per molto, il mio lavoro.


Quali sono i fotografi o i registi che crede abbiano potuto influenzare la sua fotografia?


Crewdson come già accennato, Nolan, Laura Makabresku, ed Edward Hopper, che mi ha davvero illuminato.


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I soggetti fotografati sono sempre giovanissimi. Racconta qualcosa di loro o si serve di essi per dar voce a suoi sentimenti o pensieri?


I soggetti che fotografo non sono sempre giovanissimi, ma capisco la domanda. Tendo a non comunicare mai nulla della persona che ho davanti, ma la utilizzo per far sì che lei/lui comunichi ciò che è dentro di me. Dinamica a cui mi rifacevo molto di più qualche tempo fa, ora le cose stanno leggermente evolvendosi.


Qual è l’aspetto a cui presta maggiore attenzione mentre fotografa?


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I dettagli, la geometria, lo spazio, davvero tantissimo. Se sto scattando ritrattistica, ovviamente l’intensità di ciò che sto per creare, anche se tendo quasi sempre a considerare prima lo spazio che ho intorno a me.


C’è qualcosa che vorrebbe non trasmettere mai tramite le sue immagini?


Non vorrei mai comunicare estetica fine a se stessa. O che io mi occupi di moda. Credo sia errata. Non mi interessa la bellezza statica, non ho mai saputo cosa farmene. Non vorrei che le mie foto arrivino nella maniera sbagliata, ma credo fino ad ora, di essere stato su una buona strada.


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Intervista a Fabio Vittorelli: “La fotografia non mostra la realtà, ma l’idea che se ne ha.”

Il milanese Fabio Vittorelli si contraddistingue straordinariamente per la capacità di catturare la magia della e nella quotidianità, con grande spontaneità. L’osservatore si stupisce tramite gli occhi del fotografo, non molto differenti da quelli infantili, e viene improvvisamente catapultato in un mondo non estraneo ma filtrato in maniera creativa. Il soggetto, pur appartenendo alla realtà, viene ritratto attraverso un punto di vista poco comune, scaturendo di conseguenza emozioni naturali ed estremamente umane.


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Come nasce la sua passione per la fotografia?


Fin da giovane, ancora adolescente, con una macchina fotografica allora analogica. Da allora la passione è rimasta, raggiungendo poi una diversa intensità nei vari anni.


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Le è capitato di fotografare in più parti del mondo. C’è una zona a cui è più legato?


Direi di no. In ogni luogo, cerco di rappresentare il mondo con cui interagisco. I contesti urbani, comunque, sono quelli che mi attraggono maggiormente.


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Quale crede che sia il filo conduttore di tutte le sue immagini?


Negli anni è progressivamente mutato il mio approccio con la fotografia. Ho iniziato con fotografie prevalentemente di architettura, poi mi sono avvicinato di più alle persone, che hanno iniziato a popolare le mie fotografie. Attualmente, le persone sono al centro di quasi tutti i miei scatti.


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Come si pone verso i soggetti ritratti per strada?


Cerco sempre di raccontare una loro storia, quello che vivono in quel momento, almeno, per come io lo percepisco. E’ un esercizio umano molto interessante: spesso non riesco a scattare nessuna foto, ma ho avuto lo stesso modo di vivere una parte della loro vita, dei loro pensieri. Bisogna imparare prima a stare in mezzo alla gente, nel modo più discreto possibile; la fotografia viene dopo. Credo anche che la fotografia di strada contenga una parte di magia. Il fotografo di strada può solo intuire una certa situazione, ma non può determinarla. Certe volte basta un attimo, altre volte, anche una lunga attesa può non portare a nessun risultato valido.


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Come definirebbe la Fotografia?


Credo che questa definizione di Neil Leifer possa rispondere a questa domanda: “La fotografia non mostra la realtà, ma l’idea che se ne ha.”


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Qual è la sua idea di “buona fotografia”?


Una fotografia che esprima una sua verità, anche se parziale, la verità del fotografo e/o quella del soggetto fotografato: una fotografia che ci lascia dentro qualcosa è una buona fotografia.


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Come riconosce se una sua immagine è valida?


Faccio ancora molta fatica a essere critico con quello che scatto, ho spesso bisogno di qualche parere esterno oppure di far trascorrere del tempo, per avere un coinvolgimento diverso. E poi ci sono delle fotografie che sono valide per me e non lo sono per altri: ma forse questo è un lato positivo.


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Quali sono le differenze che incontra tra il fotografare per strada e ritrarre corpi femminili nudi?


Il passaggio più recente, ai ritratti e al nudo, è stato il passo successivo dello stesso percorso: ho cercato di entrare sempre di più in relazione con il soggetto fotografato, ma non in modo casuale come avviene nella street photography, ma in modo concordato, programmato, studiato. Questa è la mia fase di studio attuale, anche se la mia natura principale è sempre quella della foto di strada. Mi sono già reso conto, però, che questa fase attuale mi sta insegnando molto: mi rendo conto che questo esercizio mi è molto utile, anche nella fotografia di strada, che paradossalmente è molto diversa. Forse sto imparando un nuovo modo di interazione.


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Cosa ne pensa dell’attuale diffusione della fotografia come forma espressiva?


Siamo sottoposti quotidianamente a un grandissimo flusso d immagini, spesso però del tutto omologate fra loro. E’ positivo però che tutti ormai possano fotografare e condividere i loro scatti: la tecnologia ci ha fornito strumenti che anni fa non esistevano.


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Ci sono fotografi o registi che lo hanno ispirato?


Ci sono molti elementi che mi ispirano, è difficile dirlo. Una scena particolare di un film che magari rivedo molte volte, oppure uno spot pubblicitario particolarmente riuscito, un video su youtube, un quadro magari sconosciuto visto per caso in una mostra. Un po’ come nella street photography, ogni tanto il mio occhio cade su un soggetto o su di una situazione che sento in sintonia con qualcosa dentro di me. In ogni caso incidono sicuramente la pittura, fotografia e i film che vedo, ma anche i viaggi sono fonte di ispirazione.


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https://www.fabiovittorelli.com/

La malattia e la fotografia come terapia – Intervista a Claudia Amatruda

Claudia Amatruda è foggiana e ha 23 anni. Quattro anni fa la sua vita è cambiata non poco quando ha ricevuto una diagnosi parziale riguardante il suo stato di salute: neuropatia delle piccole fibre, disautonomia e (forse) connettivopatia ereditaria. Si tratta di una malattia rara, alla quale si è ispirata per l’ultimo suo progetto “Naiade“.


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Qual è il suo rapporto personale con la fotografia?


Fotografare per me è un’esigenza, mi fa star meglio: nel momento in cui avvicino l’occhio al mirino della macchina mi sento finalmente nel posto giusto, entro in un mondo che sento mio, sono a mio agio. Quindi direi che è un rapporto per niente conflittuale, è un semplice bisogno, come mangiare o qualsiasi altra azione quotidiana che ci piace tanto.


Quando ha iniziato ad appassionarsi alla fotografia?


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E’ successo pian piano, poi profondamente, non è stato un colpo di fulmine, direi che è successo più per caso: i miei genitori dipingono da quando sono nata, e quando ho compiuto 14 anni hanno deciso di portarmi in giro per le loro mostre, con un incarico in particolare, avrei dovuto fotografare le esposizioni per conservarne i ricordi. Così è iniziato tutto, ma non avrei mai immaginato di appassionarmi a tal punto da farla diventare una professione.


C’è qualcosa che preferisce omettere quando cattura un’immagine?


Dipende dalla situazione in cui mi trovo, da cosa progetto o penso di voler trasmettere. Di solito adotto una filosofia in particolare quando scatto, tratta da una poesia di Emily Dickinson: “Dì tutta la verità ma dilla obliqua”.


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Come nasce e si sviluppa l’ultimo progetto?


L’ultimo progetto nasce 3 anni fa, all’inizio come una serie di 10 autoritratti ambientati in piscina, il luogo che mi far star bene per eccellenza. Poi in quest’ultimo anno, durante un Master in progetto fotografico della scuola Meshroom Pescara, grazie all’aiuto del prof Michele Palazzi decido di trasformare quella serie in un progetto vero e proprio, che non raccontasse solo di ciò che mi fa star bene ma proprio di tutto ciò che adesso è la mia vita, la sofferenza di una malattia ancora incerta, degenerativa e senza cura: un bel fardello pesante da portare tra ospedali, medicine, mesi interi in casa, e piscina. Un diario fotografico che con tanto studio, tentativi, continui edit, critiche e consigli, è diventato adesso “Naiade”, il libro fotografico in produzione con un crowdfunding su Ulule.


C’è qualcosa con cui vorrebbe ancora confrontarsi fotograficamente?


Ma certo. Mi considero sempre agli inizi, e il bello della fotografia è che non esiste situazione identica ad un’altra, perciò ogni occasione è buona per confrontarsi con qualcosa che non si conosce, l’ideale per chi è estremamente curioso come me.


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Cos’è per lei un autoritratto?


E’ l’unico modo che ho trovato per riuscire ad amarmi un po’. Lo considero lo strumento meno narcisistico che esista (quando si parla di autoritratto e non di selfie), perché attraverso la macchina fotografica riesco a guardarmi dentro, mentre lo specchio restituisce solo l’aspetto esteriore di me, quello che vedono anche tutti gli altri; chi mi conosce sa quale sia la considerazione che ho del mio corpo, specialmente dopo aver scoperto della malattia, perciò per adesso l’autoritratto è una specie di terapia contro la negazione di sè.


Ci sono dei fotografi che apprezza particolarmente? Quali?


Troppi. Anche se la scelta è difficile, ne nomino alcuni: Todd Hido, Rinko Kawauchi, Ren Hang, Nan Goldin, Sally Man, Robert Mapplethorpe, Vanessa Winship, Letizia Battaglia, Gabriele Basilico e Luigi Ghirri.


Amore e fotografia. Come sono in relazione nella sua vita e nella sua quotidianità?


Questa domanda mi mette in difficoltà, devo ammetterlo. Ho un rapporto troppo conflittuale con l’amore nella mia vita, di conseguenza la sua relazione con la fotografia non è delle migliori, è come una coppia che litiga continuamente. Se invece parliamo di amore per la fotografia, allora non ho dubbi, è amore quotidiano e sincero.


La malattia limita in qualche modo la sua passione per la fotografia?


La malattia limita me molto spesso, ma mai la passione. Cerco di farle viaggiare su binari paralleli, non vorrei mai che si incontrassero. Quando fotografo spingo il mio corpo al limite e anche oltre a volte, sono capace di star male per giorni pur di fotografare ciò che ho in testa o di non rinunciare ad un impegno lavorativo preso, sono testarda; faccio arrabbiare i medici per questo, non sono una paziente facile. Col tempo ho imparato che il segreto è solo uno, la malattia può fermare le mie gambe ma mai la mia testa.


C’è qualche genere o qualcosa che preferirebbe non affrontare fotograficamente?


Ho paura di affrontare fotograficamente la sofferenza degli altri. Finché si tratta della mia è piuttosto “facile”, ma quando si tratta di altri, che siano amici o sconosciuti, ci vuole una dose enorme di tatto, delicatezza e coraggio ma anche sfrontatezza, cosa che a volte mi manca. Conoscendomi però, so che la paura non mi fermerebbe facilmente, affronterei comunque la situazione se dovesse capitarmi. Ragionando per assurdo, preferirei comunque non fotografare in zone di guerra, non mi sento affatto pronta e non so se lo sarò mai.


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L’acqua e la fotografia sono elementi essenziali nella vita di Claudia, che assolutamente non si arrende e lotta giorno dopo giorno con la speranza che la sua quotidianità diventi man mano sempre più leggera. E proprio questa speranza è ben evidente nelle sue immagini dove traspare un senso di assoluta calma e la ricerca di serenità . Lo fa servendosi soprattutto del corpo. D’altronde, come la giovane fotografa ha affermato, la malattia può fermare il suo corpo ma mai la sua mente carica di idee e energia positiva.


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Intervista ad Angelo Ferrillo: la fotografia è stomaco, non cuore

Angelo Ferrillo nasce a Napoli nel ‘74 dove intraprende gli studi di Ingegneria e si avvicina alla fotografia, formandosi da autodidatta. Attualmente si occupa di fotogiornalismo e di fotografia corporate, è photoeditor e docente di fotografia presso lo IED Milano, OFFICINE FOTOGRAFICHE Milano, CREATIVE CAMPUS Milano e FOWA University. Conosciuto al pubblico per la street photography e per i reportage, collabora attivamente con editori nazionali ed internazionali e con brand leader mondiali dell’urban style progettando e sviluppando immagini di social adv e brand comunication. E’, tra l’altro, membro del Direttivo AFIP International.


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Come e quando nasce la tua passione per la fotografia?


Non di certo quando mi hanno regalato la mia prima macchina fotografica. Un anno dopo circa. Quando mio padre per il mio diciassettesimo compleanno mi comprò una polaroid non rimasi proprio del tutto entusiasta. Poi iniziai a giocarci dopo quasi un anno e da li tutto in discesa.


Cos’è per te la fotografia?


Il modo migliore che ho di esprimere me stesso. Sembra una di quelle frasi da baci perugina, ma la realtà delle cose è quella. Per me, ma anche per tutti quei fotografi che si ritengono tali.


Cosa consiglieresti a chi vuole ottenere buone immagini?


Innanzitutto di abbandonare quella idea del sentimento. Quando si producono immagini (che una volta stampate diventano fotografie) si innesca un meccanismo per cui il tecnicismo prende il sopravvento sulla percezione sentimentale. Rendersi conto che una immagine prima di essere bella deve essere buona. Deve cioè raggiungere lo scopo per cui è nata: solo in quel momento si cortocircuita con i fruitori dei propri lavori


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C’è un aspetto che curi particolarmente quando fotografi?


Quello che succede. Mi deve catturare quello che sta succedendo. Percepibile o impercepibile. Non importa che sia sensazionale per tutti, ma deve attrarre in primis la mia attenzione. Credo debba essere fondamentale per la produzione di tutti. Se sono in fase di sviluppo progettuale porto tutti i tasselli al posto giusto, lasciando al caso solo la produzione dell’immagine finale. È l’unico modo che ho per rendere meno statico quello che vedo.


Come ti poni verso i soggetti fotografati? Interagisci o preferisci catturare soltanto l’immagine che hai nella mente?


Difficilmente interagisco con i miei soggetti. Non mi interessa il loro racconto. Dopotutto dalle mie immagini non si saprà mai chi sono, ma solo chi sono in quel momento per me. Nel caso in cui succeda deve succedere dopo. Mai prima. Se succede prima è perché le sto ritraendo e siamo in un ambito differente.


Come concili il fotogiornalismo con l’attività del docente?


Facilmente. Non faccio cronaca, quindi scegliendo le mie storie, gli approfondimenti, la progettazione, le partenze e tutto quanto, non influisce su tempistiche di calendario. Molte volte capita che progetti vengano sviluppati in viaggio/studio e quindi convivono anche nello stesso momento.


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Può una fotografia non essere autobiografica?


Assolutamente, se si produce senza essere fotografi. Il percorso personale è un progetto a lungo termine che ti porta ad essere le tue immagini. Nel momento in cui non ci sei tu (e succede) è semplicemente perché il tuo percorso formativo (non mi riferisco all’accademico) è ancora incompleto.


Qual è la difficoltà che incontri maggiormente nell’insegnare fotografia?


Riuscire a far capire che la fotografia è stomaco non cuore. La conoscenza è obbligatoria, ma il percorso poi deve evolversi e distribuirsi sulla propria pelle facendo leva su quello che si ritiene opportuno per la propria formazione e cosa invece va scartato. Ciò ci fa essere differenti l’uno dall’altro. Ecco, forse le regole accademiche sono difficili da abbandonare da parte dei miei allievi. Me ne accorgo quando di fronte a me ci sono alunni che non hanno una struttura conoscitiva della fotografia molto radicata. Faccio meno fatica. Molto meno.


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 Qual è il tuo atteggiamento verso l’errore?


L’errore fotografico a volte diventa la cosa giusta. Tutto quello che non puoi gestire è il tempo e quello che sarà l’evento. Puoi cercare di prevederlo, ma non saprai mai se sarà così. L’ho imparato a mie spese con una fotografia realizzata a Berlino, dove ho imprecato per un’ora nei confronti di una bambina che mi ha inquinato la scena. Col senno di poi, quella bambina l’ha resa migliore.


È mai successo che una persona, per strada, si sia infastidita dagli scatti?


Succede. Ma lo spirito di solito è quello di avere un atteggiamento positivo. Sapere cosa dire, sorridere sempre, essere accondiscendente e portare il soggetto nel proprio spazio aiuta. Quando dicono “non puoi” ho il dovere di far capire che non si tratta di una cosa vietata, ma al massimo di una cosa che il soggetto non vuole.


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La fotografia di Angelo Ferrillo spicca indubbiamente per la ricerca di un punto di vista inusuale, proprio, creativo. Al tempo stesso, è solo la porzione di una realtà che, spesso e volentieri, ha molta più fantasia di noi.


https://www.angeloferrillo.com/

Marco Pesaresi e l’amore: l’umanità, la poesia e la fotografia

Se oggi fosse in vita, il riminese Marco Pesaresi sarebbe sicuramente uno dei fotografi italiani contemporanei più abili. “La mia fotografia prende corpo – nasce – da tradizioni contadine, di campagna; e si sviluppa nella poesia del mare d’inverno; accompagnandosi a immagini di libertà, di emancipazione, di trasgressione nella notte. Però, comunque, nasce dalla campagna. Io amo questa terra, la amo con tutto il cuore. Ne amo i luoghi, mi piacciono i luoghi. E poi mi piace tantissimo – questa terra – perché muta in continuazione. Nulla è mai uguale all’anno precedente, tutto è in evoluzione continua. Più soffro e più mi affanno nella ricerca della poesia. Più sento che dentro di me vivo situazioni di disturbo, difficili – cose che purtroppo nella mia vita continuamente incontro – più il mio sguardo si addolcisce. E più cerca la serenità l’armonia delle immagini. E qualche volta le trova.” Con queste parole Marco parlava del suo amore per la sua terra, Rimini, alla quale dedicò anche il suo ultimo lavoro, e al tempo stesso per la poesia, tanto ricercata e altrettanto sofferta.


THE SUBWAY: TIMES SQUARE. A YOUNG COUPLE KISSING. LA METROPOLITANA: TIMES SQUARE. UNA GIOVANE COPPIA SI SCAMBIA UN BACIO.
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Marco era infatti attratto dall’umanità, in tutta la sua complessità. Non a caso avvertiva l’esigenza di scavare nelle problematiche sociali e nell’inferno personale degli altri per provare a sentire di meno il proprio. “Underground” è il titolo del suo progetto, forse il più riuscito, dedicato alla gente incontrata casualmente per le metropolitane delle più grandi città. E’ difatti il dipinto di grande impatto visivo della vita, un dipinto onesto, commosso, colorato. La sua fotografia è il riflesso di una sensibilità estrema , sia artistica che umana. E’ una fotografia irrequieta, una ricerca di serenità attraverso i propri occhi e la vita degli altri. E’ un amore intenso, che si scaglia forte e s’imprime con naturalezza sulla pellicola.


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La giornalista Renata Ferri ha parlato dell’amore di Marco per la fotografia, in questi termini: “Per fortuna c’era la sua Rimini, dove tornava e dove tutto quel male del mondo diventava malinconia. Come un poeta, sapeva trasformare le sue affollate visioni del mondo in spazio, cielo, mare, terra delle origini e profumi portati dal vento. La sua fotografia si trasformava, toglieva il colore e restituiva solo poesia. Non più periferie dell’umanità e volti di mille razze, ma silenzio e distese, dove lo sguardo, il suo e il nostro, può essere infinito. Marco amava e odiava tutto quello che aveva con violenta intensità. So per certo che la fotografia è stata la stagione più bella della sua vita e siccome so che è stata una stagione lunghissima, credo abbia vissuto, dannato ed errante, intenso e visionario, l’unica vita possibile.” La fotografia è stata per Marco una valvola di sfogo, il mezzo di cui si è servito per incanalare le proprie visioni e quell’irrequietezza che tanto lo faceva soffrire.


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Marco ha cessato di vivere nel 2001 gettandosi con la macchina nel porto di Rimini, nel mare della terra che aveva spesso fotografato con una vena malinconica. Nonostante la morte fisica, il suo punto di vista, così intenso e bramoso di poesia, continua a scorrere con maggiore intensità affascinando, emozionando e continuando a suscitare grande ammirazione. Dopo aver amato per tanto tempo la gente, ora è la gente ad amarlo intensamente. Tutto ciò è possibile anche grazie all’amore e alla sensibilità della madre Isa, che si prende cura della conservazione e della diffusione dell’archivio fotografico del figlio.


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Intervista a Paolo Raeli: La fotografia mi ha permesso di fermare il mondo come avrei voluto che fosse.

Paolo Raeli, giovanissimo, originario di Palermo. Le sue fotografie sono attualmente molto apprezzate in Italia e all’estero. Recentemente ha anche pubblicato un libro. Lo abbiamo intervistato per conoscere più da vicino il suo mondo, fatto di emozioni pure e momenti unici e irripetibili.  


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Chi è Paolo Raeli?


Ho provato a darmi una risposta, e davvero – so che magari sembra pretenzioso dirlo – ma qualsiasi cosa mi viene in mente svilisce quello che vorrei davvero descrivere. Certe cose sono inesplicabili. Cambio continuamente.


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Come e quando ha iniziato a fotografare?


Avevo poco meno di diciotto anni: dopo la fine del mio primo amore ho cercato di incanalare tutta l’energia che avevo dentro e che ogni giorno si moltiplicava dentro di me, convergendola in una forma d’arte. La fotografia mi ha permesso di fermare il mondo come avrei voluto che fosse.


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Se dovesse associare una canzone o un album alla sua fotografia, quale sceglierebbe?


Always Returning, Brian Eno.


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Come si pone verso i soggetti ritratti?


Li amo, tutti. Passati e presenti, nell’imperfezione, nella bellezza, in ciò che li rende unici. Apprezzo chiunque mi permetta di lasciarsi immortalare. Ci vuole una forma di coraggio secondo me.


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Qual è l’aspetto a cui presta maggiore attenzione mentre fotografa?


La cura verso gli altri. Ho bisogno che tutti si sentano a loro agio. E ciò non significa che si debba necessariamente guardare in camera, o sorridere, o chissà cosa. Potresti anche piangere, ed essere comunque a tuo agio. Si tratta di qualcosa che si percepisce nell’aria.


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Cosa intende raccontare di sé attraverso la fotografia?


Citando un film di Mark Romanek: “Se queste immagini potranno mai avere un significato per le generazioni future, sarà questo: io c’ero, sono esistito. Sono stato giovane, sono stato felice. E qualcuno a questo mondo mi ha voluto abbastanza bene da farmi una fotografia.”


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Trova che la fotografia possa veramente essere un’ottima terapia per la paura di dimenticare?


Mi piace pensare che sia così. Abbiamo tutti bisogno di credere in qualcosa, è necessario.


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Quali emozioni intende catturare attraverso i giovani che ritrae?


Cerco la spontaneità. E’ anche quella qualcosa che è difficile da spiegare, ma si riesce a percepire. Sento di dare un tocco molto personale alle mie foto: scelgo di vedere la bellezza nel mondo. Molti documentano una realtà cruda, caotica. Io amo sognare. Mi piace pensare che quando sarò vecchio potrò rivedere queste immagini e credere, forse anche ingenuamente, che tutto fosse davvero perfetto.


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Come nasce e si sviluppa l’idea di pubblicare un libro che raccolga foto e pensieri?


Da quando ne ho memoria sono solito disegnare, scrivere: coniugare queste forme è terapeutico per me. Donald Winnicott diceva che un artista è qualcuno guidato dalla tensione tra il desiderio di comunicare e il desiderio di nascondere. Non so se mi reputo un artista, ma mi sono rivisto molto in questo pensiero. Da qui è nato il bisogno di
pubblicare un libro, in cui potessi mostrare a quante più persone possibili la mia visione del mondo. Un semplice libro fotografico, fondi bianchi e date, mi è sempre sembrato troppo riduttivo.


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Quali sono i prossimi progetti in cantiere?


Regola numero uno: mai parlare dei propri progetti, a meno che non si sia riusciti a realizzarli.


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Le fotografie di Paolo Raeli incantano e fanno sognare. Sono molto di più di semplici immagini. Sono il racconto di una generazione spensierata, affannata, innamorata, mutevole, fuori controllo. Quello che traspare maggiormente nei suoi scatti è un vero, sano e profondo senso di libertà, immortalato perfettamente attraverso la delicatezza dei gesti e le espressioni dei soggetti ritratti.


https://www.paoloraeli.com/