Jurassic Park, il più grande spettacolo dopo il giurassico

«Il mondo ha subito cambiamenti così radicali che corriamo per tenerci al passo. Non voglio affrettare conclusioni ma dico… i dinosauri e l’uomo, due specie separate da 65 milioni di anni di evoluzione, vengono a trovarsi gettati nella mischia insieme. Come potremo mai avere la benché minima idea di che cosa possiamo aspettarci?» 


Il vero messaggio di Jurassic Park è tutto qui, nelle parole di Alan Grant (Sam Neill), il paleontologo convinto da John Hammond (Richard Attenborough) a visitare il più grande parco dei divertimenti, un parco in cui torneranno in vita le creature più affascinanti che la storia della terra abbia mai conosciuto: i dinosauri. Le perplessità di Alan Grant sono confermate da Ian Malcolm (Jeff Goldblum): «La mancanza di umiltà di fronte alla natura che si dimostra qui mi sconvolge», dice. «Lei non vede il pericolo che è insito in quello che fa? La potenza genetica è la forza più dirompente che esista e lei se ne serve come un bambino che gioca con la pistola del padre.» Un pericolo autodistruttivo, insomma. La natura ha le sue leggi e se i dinosauri e l’uomo non hanno vissuto nella stessa era, questo era dovuto alla loro evidente incompatibilità.


Grant e Malcolm non saranno affatto smentiti quando si ritroveranno a dover fuggire da un Tirannosaurus Rex, liberato grazie all’interruzione del sistema di sicurezza. In realtà le recinzioni del parco sarebbero state sicure se Dennis Nedry non avesse disattivato l’impianto e rubato gli embrioni per venderli a un pezzo grosso della concorrenza. E la notte in cui Nedry tenta la fuga è una notte apocalittica, metafora della rabbia della natura per l’uomo ribelle, reo di aver tentato di stravolgere le sue regole o piuttosto di barare. Jurassic Park, per la fama e il successo che ha raccolto nel corso degli anni, non ha nemmeno bisogno di essere raccontato. Divenuto uno dei maggiori incassi della storia del cinema, il film, tratto dall’omonimo romanzo di Michael Crichton, permise a Steven Spielberg di superare gli incassi di E.T. – L’extraterrestre. Il 1993 fu un anno fortunatissimo per il regista, che sfornò, oltre a Jurassic Park, anche Schindler’s List, film che lo consacrò tra i grandi del cinema e che gli permise di aggiudicarsi due Oscar, miglior film e miglior regia. Dopo quella fortunata doppietta, però, Spielberg non è stato più quello di una volta (a parte l’Oscar per Salvate il soldato Ryan) e sebbene si sia sempre impegnato ad alternare film commerciali (come il quarto, deludente, Indiana Jones e La guerra dei mondi) a film d’autore (come Munich o War Horse), l’apice lo ha raggiunto tra gli anni Ottanta e la prima metà dei Novanta, proprio con Jurassic Park.


Un film che, al di là di tutto, riprende le tematiche topiche dei suoi film, come l’infanzia, già centrale in E.T., Indiana Jones e il tempio maledetto, L’impero del sole e Hook – Capitan Uncino. Il sapore del film spielberghiano è palese anche grazie allo splendido accompagnamento musicale di John Williams, non nuovo a lavorare con il regista. Se uno dei temi cari a Spielberg è l’infanzia, non potevano mancare due giovani protagonisti come Tim (Joseph Mazzello) e Lex (Ariana Richards), nipoti di John Hammond, che accompagnano Alan Grant, la dottoressa Sattler (Laura Dern) e Ian Malcolm nella visita al parco. Tim è un fan sfegatato del dottor Grant, mentre Lex è una giovanissima hacker (non a caso sarà lei a ripristinare l’elettricità). Proprio il dottor Grant dimostra di non provare molta simpatia per i bambini quando, nel prologo del film, un ragazzino, mentre Grant rinviene un fossile, paragona un Velociraptor a un grosso tacchino e il paleontologo fa di tutto per spaventarlo descrivendogli che cosa può capitare se dovesse trovarsi di fronte un animale primitivo così pericoloso. Ma nel corso della visita, Grant si trova da solo con i due ragazzi: le macchine che li avrebbero accompagnati durante la visita sono state distrutte dal T-Rex e loro sono costretti a tornare alla base a piedi, attraversando l’intera isola con la speranza di non imbattersi in Velociraptor o altre specie aggressive.


Sono proprio gli incontri con i predatori, però, a rientrare tra le scene da cineteca. La prima è la comparsa del T-Rex, con un primo piano del suo occhio illuminato appena dalla torcia di Lex; un occhio che è il simbolo del male, proprio come lo era quello dello squalo, sempre di spielberghiana memoria. E questo sarebbe un altro tema che ritorna: la lotta fra l’uomo e la natura (lì lo squalo, qui i dinosauri), una natura sempre più maligna e terrificante, ma questa volta figlia dell’uomo stesso. I dinosauri sono come il mostro di Frankenstein: John Hammond ha cercato di riportare in vita qualcosa che doveva essere morto, di cui la natura stessa aveva decretato la morte; qualcosa che si è rivoltato contro il suo stesso creatore perché si è ritrovato in un’epoca sbagliata e in un contesto sbagliato. Altra scena da antologia è l’inseguimento in cucina dei Velociraptor, con Lex e Tim nascosti e i due predatori che riescono ad aprire la porta, fino all’epico grido di Lex mentre uno dei due dinosauri l’attacca, stroncato da un vetro infranto poiché l’immagine a cui andava incontro il dinosauro era soltanto il riflesso della ragazza.


Il finale di Jurassic Park, con il T-Rex che salva, involontariamente, Grant, la dottoressa Sattler e i due ragazzi dall’assalto dei Velociraptor, e la bandiera del parco che crolla al ruggito del Tirannosauro, era abbastanza aperto per lasciare allo spettatore le conclusioni su una possibile ribellione dell’uomo alle leggi di madre natura. Proprio per la sua grandezza e per la spettacolarità delle animazioni – nonché per la sostanziale novità del tema – il secondo capitolo del franchise, Il mondo perduto – Jurassic Park (1997), anch’esso diretto da Spielberg, uscirà sempre sconfitto da ogni confronto con il primo. D’altronde le possibilità narrative offerte da un materia simile non sono tantissime, e il rischio che si correva – trappola in cui è poi caduta la sceneggiatura – era riproporre qualcosa di già visto sfruttando l’onda del successo, ma senza quel valore aggiunto che era stata la vera arma segreta di Jurassic Park.


Quattro anni dopo gli incidenti avvenuti sull’Isla Nublar, la società di John Hammond, la InGen, è fallita ed è Peter Ludlow, nipote di Hammond, ad avere ereditato la ditta. Oltre a Isla Nublar, Hammond aveva occupato un’altra isola, l’Isla Sorna, in cui i dinosauri crescevano prima di essere trasferiti a Isla Nublar al raggiungimento dell’età adulta. Ma Isla Nublar è stata abbandonata in seguito all’arrivo di un uragano, che aveva distrutto le strutture. I dinosauri, però, sono ancora lì. Proprio un incidente, occorso nel prologo, con una famiglia di turisti, la cui bambina si era imbattuta in un branco di Compsognathus, spinge Hammond a richiamare il dottor Malcolm, che nei quattro anni successivi alla disavventura nel Jurassic Park aveva cercato di denunciare le mostruosità nascoste nell’Isla Nublar. Hammond vorrebbe che Malcolm stendesse un rapporto sull’isola e sulle condizioni degli animali ma soprattutto che fermasse chi vuole catturarli per farne delle attrazioni in un parco di San Diego. Malcolm è scettico ma quando Hammond gli rivela che anche Sarah (Julianne Moore), la sua ragazza, è lì sull’isola, la missione scientifica si trasforma in una missione di salvataggio. A Malcolm si unirà, clandestinamente, anche la figlioletta Kelly.


Il resto sa molto di già visto: le aggressioni dei dinosauri, gli inseguimenti, la roulotte (al posto della macchina in Jurassic Park) sospesa nel vuoto, ma soprattutto l’arrivo del T-Rex a San Diego con la sua furia distruttrice, un richiamo evidente a icone della fantascienza catastrofica come King Kong e Godzilla, qualcosa che fa storcere non poco la bocca e rimpiangere l’immensità e la poesia di Jurassic ParkMa il fondo lo si tocca con il terzo film, Jurassic Park III. Al ritorno di Sam Neill e di Laura Dern corrisponde, però, un cambio in regia, Joe Johnston al posto di Spielberg. È inevitabile che la magia ormai si sia persa e che si rimpianga perfino Il mondo perduto, nonostante i limiti di essere un sequel senza tante grosse novità. Ancora un’azione di salvataggio, ma stavolta sarà Alan Grant, anziché Malcolm, a tornare a Isla Nublar. Gli effetti speciali non hanno più niente di speciale (si vede benissimo che i dinosauri sono finti!) e il soggetto è diventato un fiacco pretesto per allungare una trama che si è già diradata ben oltre le proprie possibilità. Di Jurassic Park è rimasto soltanto l’accompagnamento musicale, a rievocare qualcosa che non c’è più, ma questo non basta, tant’è che il film si era aggiudicato la nomination ai Razzie Awards del 2001 come Peggior Remake o Sequel.


Jurassic Park, rappresentando la novità (messa anche in prospettiva di un’epoca in cui il 3D era lontano anni luce), non poteva che suscitare incanto: i dinosauri di Spielberg giganteggiavano sullo schermo con un realismo mai visto prima; e a essi si univano azione, ironia, stupore (e l’entusiasmo immancabile di John Hammond). Il mondo perduto dimostrava già di essere una forzatura: la forza di Jurassic Park risiedeva anche nella simpatia del cast, da Alan Grant ai due ragazzini; dalla dottoressa Sattler al dottor Malcolm (l’unico recuperato, a parte le comparse di Hammond e dei nipotini cresciuti, ma solo nella parte iniziale). L’evocazione di Godzilla e di King Kong non avevano fatto che abbassare non soltanto la credibilità stessa del film ma di tutto il franchise, che ormai aveva virato verso stereotipi noiosi. Con Jurassic Park III, infine, c’è il ritorno di Alan Grant e della dottoressa Sattler (comunque marginale) ma non del tocco magico che Spielberg aveva saputo dare ai suoi primi dinosauri.


In Jurassic World ritornerà lo stesso Tirannosaurus Rex di Jurassic Park, arrabbiato come nel 1993 e pronto a fare nuove vittime. L’utilizzo massiccio del 3D, coadiuvato dal supporto della grafica digitale, renderanno l’apertura del parco dei dinosauri un vero e proprio evento mondiale.

Terminator, il Giorno del Giudizio non è scritto

Nella prima metà degli anni Ottanta, James Cameron era un regista semisconosciuto che all’attivo aveva soltanto un film, Piranha paura (1981), sequel dell’horror di Joe Dante Piranha del 1978. Era un film a basso costo che non aveva suscitato nessun clamore, né di pubblico né di critica. Ma Cameron non si arrese a quel primo insuccesso, e grazie a un incubo incorsogli durante un ricovero in ospedale per intossicazione alimentare, trovò l’ispirazione per realizzare il film che avrebbe dato il via alla sua straordinaria carriera da regista.


Gli ingredienti erano tanto semplici quanto efficaci: dei toni cupi, con una tensione sempre presente e un cyborg dalle sembianze umane, una minaccia proveniente dal futuro, indistruttibile, portatrice di morte tanto quanto di notizie catastrofiche. Per il ruolo delicatissimo del cyborg fu scelto Arnold Schwarzenegger, che da poco aveva raggiunto la fama internazionale con l’epic fantasy Conan il barbaro (1982) di John Milius. Proprio il volto inespressivo di Schwarzenegger, che diventerà poi un’icona degli action movie, è stato la vera chiave del successo di Terminator (1984), capace di incassare poco più di 38 milioni di dollari con un budget di appena 6,4 milioni. Due anni dopo Terminator, Cameron diresse Aliens – Scontro finale (1986), sequel di Alien (1979) di Ridley Scott, a cui sarebbero seguiti tutti gli altri successi del regista canadese, tra cui il celeberrimo e premiatissimo Titanic (1997) e Avatar (2009), rispettivamente il secondo e il primo maggior incasso di sempre nella storia del cinema.


Cameron si era rivelato insomma un Re Mida del cinema, capace di moltiplicare in milioni di dollari i budget concessigli dalle mega-produzioni hollywoodiane. Ma l’ascesa alla sua grande carriera di regista è legata a quel cyborg senza sentimenti, un T-800 (Arnold Schwarzenegger) proveniente dal futuro, dal 2029. In questa realtà, le macchine, grazie a un’intelligenza artificiale chiamata Skynet, sono riuscite a ribellarsi e a prendere il controllo della Terra, causando la distruzione dell’umanità. La resistenza è guidata da John Connor, figlio di Sarah Connor (Linda Hamilton). Ed è proprio lei che il T-800 deve uccidere: la deve uccidere prima che metta al mondo John, affinché il continuum temporale possa essere modificato. Ma anche la resistenza ha inviato qualcuno indietro nel tempo: si tratta del soldato Kyle Reese (Michael Biehn), che dovrà proteggere Sarah dal cyborg Terminator, programmato per uccidere.


Il Terminator incomincia la propria scia di omicidi cercando tutte le Sarah Connor sull’elenco del telefono. Ruba i vestiti a tre punk, si procura le armi e va verso il proprio obiettivo. Dall’altro lato c’è Sarah Connor, che già in Terminator – ma soprattutto nel sequel, Terminator 2 – Il giorno del giudizio (1991) – diventa una nuova Ellen Ripley, una donna-guerriero che non deve vedersela con entità aliene ma con un robot quasi invincibile. La regia di Aliens – Scontro finale per James Cameron, in tal senso, non è una casualità, e serve senz’altro per definire meglio i connotati della seconda Sarah Connor, quella che si ritroverà a dover fronteggiare i fantasmi del passato e a essere rinchiusa in un manicomio criminale proprio per aver cercato di distruggere una fabbrica di computer e di armamenti militari destinati a Skynet.


Se Terminator poteva, in un certo senso, essere autoconclusivo, con la distruzione finale del cyborg (la cui CPU – ma questo si apprende solo in una delle scene tagliate – sarà recuperata da due scienziati della Cyberdyne Systems, a cui si dovrà la creazione di Skynet), il secondo film della serie, Terminator 2, approfondisce non soltanto il rapporto tra uomo e macchina ma connota di maggiore umanità il cyborg stesso. Nel finale del cupo Terminator, la mano del cyborg scarnificato che si allungava verso Sarah Connor era la metafora della morte che si avvicina (non a caso il cyborg, al di sotto del rivestimento di pelle umana, è uno scheletro con gli occhi rossi). Nel secondo capitolo della serie, Sarah Connor deve fronteggiare una minaccia ancora più grande, vale a dire i propri incubi sul Giorno del Giudizio, che pare sempre più vicino. Stavolta, però, non dovrà proteggere soltanto se stessa ma anche suo figlio John, un tredicenne scapestrato di Los Angeles. Sarah è in manicomio e Kyle è morto nello scontro con il cyborg. Anche John crede che le storie sul Giorno del Giudizio e sulle macchine impazzite siano frutto solo della follia di sua madre, ma deve ricredersi quando si ritrova ad affiancare un tipo un po’ strano, serio, freddo, granitico e implacabile: questi altri non è che un nuovo Terminator, che ha le stesse sembianze di quello che anni prima aveva cercato di uccidere sua madre. Ora è stato inviato per un’altra missione: proteggere John Connor.


Il T-800, però, non è da solo, perché in quella dimensione temporale è arrivato anche un T-1000 (Robert Patrick), un cyborg moderno, fatto di metallo liquido, capace di assumere le sembianze di qualunque persona con cui entri in contatto ma anche di trasformare parti del proprio corpo in armi da taglio. Il T-1000 è stato inviato per uccidere non Sarah Connor ma John Connor. Dopo aver aiutato sua madre a fuggire dal manicomio criminale, per John si prospettano delle avventure mozzafiato accanto a un cyborg che, poco alla volta, assumerà degli atteggiamenti sempre più umani e che diventerà molto più che un semplice surrogato di padre. «Guardando John, con quel robot, tutto mi divenne chiaro» dice Sarah Connor. «Il Terminator non si sarebbe mai fermato, non lo avrebbe mai lasciato, né lo avrebbe mai fatto soffrire, non lo avrebbe picchiato né lo avrebbe sgridato, né avrebbe trovato scuse per non stare con lui; gli sarebbe sempre stato accanto e sarebbe stato pronto a morire per proteggerlo. Di tutti i padri putativi fin troppo umani che si erano avvicendati attraverso gli anni, questo robot sarebbe stato l’unico uomo giusto. In un mondo pazzo era la scelta più sensata.»


Il messaggio più forte di tutta la saga è però legato alla concezione antropocentrica, racchiusa nelle parole di John Connor a sua madre: «Il futuro non è scritto. Il vero fato è quello che ci scegliamo noi.» Un antropocentrismo che però è smentito dal terzo film, Terminator 3 – Le macchine ribelli (2003), fotocopia – perlomeno nella struttura narrativa – del secondo, con l’aggiunta di un po’ di ironia, a stemperare parecchio il clima di alta tensione che si avvertiva nel predecessore ma soprattutto in Terminator. Il cyborg è tornato, John Connor (Nick Stahl) è cresciuto ma il Giorno del Giudizio non è stato cancellato: è stato solo rinviato. Il futuro, in questo caso, va accettato. Questa volta il T-850 (identico al T-800) dovrà proteggere la futura moglie di John, Kate Brewster (Claire Danes), da un TX, che stavolta ha le sembianze di un’avvenente bionda (Kristanna Loken). Adesso John scopre di dover accettare suo malgrado il destino e di dover subire in maniera del tutto passiva la sconfitta dell’uomo di fronte all’ascesa della tecnologia. Così l’importante non è distruggere Skynet – non per ora – ma mettersi in salvo, affinché la battaglia non sia persa prima ancora del suo inizio.


Mentre i primi tre film erano ambientati in un contesto contemporaneo e suscitavano terrore per una minaccia soltanto evocata, che gravava nell’aria senza mai avvicinarsi del tutto, con Terminator Salvation (2009) siamo finalmente di fronte proprio allo scenario post-apocalittico descritto da Sarah Connor. Siamo nel 2018 e John Connor (Christian Bale) non è ancora diventato il leader della resistenza, anche se parla ai superstiti dell’umanità attraverso la radio. Oltre a distruggere Skynet, un altro obiettivo lo assilla: trovare il giovane Kyle Reese, il suo futuro padre, colui che dovrà tornare indietro nel tempo per salvare sua madre dal T-800 che cercherà di ucciderla; perché ora i paradossi temporali sono nell’aria (Ritorno al futuro insegna) e se i cyborg dovessero uccidere Kyle, allora anche John morirà. Tutta l’umanità cesserà di esistere poiché quella linea temporale sarà modificata. Ma ora John avrà un alleato del tutto speciale: non più un T-800, un cyborg che di umano ha soltanto la pelle, ma un uomo vero e proprio, che possiede ancora un cuore, un cuore vero. Si tratta di Markus Wright (Sam Worthington), che nel 2003 era stato giustiziato con un’iniezione letale ma il cui corpo era stato recuperato al fine di poterlo fare infiltrare nella resistenza: Markus altri non è che il primo Terminator dalle sembianze umane, metà uomo e metà macchina. L’evoluzione dei progetti di Skynet.


Terminator Salvation, molto più che nei primi tre film, esaspera il rapporto tra l’essere umano e la tecnologia: Markus è il contrario di RoboCop, che dall’esterno era robot ma con il cervello da uomo. Markus invece si sente un uomo a tutti gli effetti e la sola cosa che mai le macchine potranno prendere sarà proprio il cuore, da intendersi non soltanto come muscolo vitale ma anche come bontà, sensibilità o più semplicemente umanità. «Che cos’è che ci rende umani?» si chiede Marcus. «Qualcosa che non si può programmare, che non si può mettere in un chip: è la forza del cuore umano, la differenza tra noi e le macchine.» Quel cuore, oltre a salvare John Connor nello scontro finale con il T-800 che lo aveva quasi ucciso (come gli era stato profetizzato in Terminator 3), è destinato a salvare tutta l’umanità, in un mondo in cui l’ultimo sole non è ancora tramontato e in cui il destino, come dice John Connor, non è scritto ma è quello che ci creiamo.


I primi tre film costituirebbero un nucleo narrativo a parte se non fosse per le numerose citazioni di Terminator Salvation: John che guarda la foto di sua madre, la stessa che si vede nell’ultima scena di Terminator; la frase «Vieni con me se vuoi vivere», usata sia da Kyle Reese in Terminator sia dal T-800 in Terminator 2; o anche You Could Be Mine dei Guns N’Roses, canzone che riecheggia da uno stereo ad altissimo volume quando John Connor deve fermare i cyborg in moto, stessa canzone di Terminator 2, la sua preferita da adolescente. Il problema fondamentale di Terminator Salvation, però, risiede nella sua stessa progettazione. Così, mentre i due film di James Cameron riuscivano, in qualche modo, a soddisfare il pubblico per un finale aperto ma tutto sommato consolatorio – con la frase conclusiva di Sarah Connor a regalare un po’ di speranza dopo tanto orrore («Il futuro, di nuovo ignoto, scorre verso di noi, e io lo affronto per la prima volta con un senso di speranza, perché se un robot, un Terminator, può capire il valore della vita umana, forse potremo capirlo anche noi») – il film di McG era stato progettato come primo tassello di una nuova trilogia, ambientata non più nella giungla urbana dei primi tre Terminator ma in un universo post-apocalittico che avrebbe concluso la saga una volta per tutte. Purtroppo i guai finanziari della Halcyon Company, che detiene i diritti della franchise, avevano obbligato la produzione ad abbandonare il progetto, lasciando così in sospeso la storia di John Connor e della resistenza.


Terminator: Genesys, in tal senso, aprirà una nuova era, ripristinando ciò che già abbiamo visto, ciò che già è successo, e riportando in auge anche il vero simbolo della saga, Arnold Schwarzenegger, attore che incarna alla perfezione la simbiosi tra uomo e macchina, capace di segnare, con il suo physique du rôle, tutti gli action movie che cercavano di imitare la spettacolarità dei suoi film. Il futuro è appena iniziato.