Antonio Banderas interpreterà Gianni Versace

Secondo le prime indiscrezioni sarà Antonio Banderas a vestire i panni di Gianni Versace nella pellicola in prossima uscita diretta dal regista danese Bille August. L’attore spagnolo interpreterà lo stilista scomparso nel 1997 in un film che sarà girato tra Milano, Reggio Emilia e Miami. Le riprese dovrebbero iniziare a dicembre.

Banderas, che proprio oggi spegne 56 candeline, è già stato diretto da Bille August nel film La casa degli spiriti ed ha recentemente creato una sua collezione di menswear in collaborazione con il brand scandinavo Selected Homme, dopo aver studiato moda alla prestigiosa Central Saint Martins di Londra.

Poco o nulla si sa della trama del film: Gianni Versace, ucciso il 15 luglio 1997 a Miami, rivivrà in una pellicola che tuttavia non ha ad oggi avuto alcuna autorizzazione da parte della maison Versace. Come rilasciato in un’intervista al magazine WWD, la casa di moda ribadisce di non aver avuto alcun coinvolgimento nella realizzazione del film, che dovrà quindi essere considerato solo alla stregua di un’opera di finzione. Stessa sorte ebbe The House of Versace, discusso TV movie realizzato nel 2013, che raffigurava la vita di Donatella Versace.

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Antonio Banderas vestirà i panni di Gianni Versace nel prossimo film di Bille August



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Dieci anni fa usciva “Il diavolo veste Prada”

È la pellicola che ha portato ufficialmente la moda nel mondo del cinema: Il Diavolo veste Prada ha compiuto 10 anni. Era il giugno del 2006 quando il film usciva nelle sale cinematografiche, riscuotendo un successo senza precedenti, con incassi che superarono a livello mondiale i 300 milioni di dollari.

Il Diavolo veste Prada è la trasposizione cinematografica del romanzo scritto da Lauren Wesiberger, pubblicato nel 2003: la regia di David Frankel ha saputo dipingere mirabilmente gli eccessi e la dura disciplina delle fashion editor. Il film lanciò la carriera di Anne Hathaway: grazie alla sua interpretazione dell’imbranata Andrea Sachs, la giovane attrice ottenne la fama internazionale. Inoltre il film valse a Meryl Streep la quattordicesima candidatura all’Oscar.

La giovane Andy Sachs è la tipica ragazza della porta accanto: il sogno di diventare scrittrice la porterà ad entrare quasi per caso nella redazione della rivista più venduta al mondo, “Runway”. Qui la ragazza si troverà ad affrontare la tirannica Miranda Priestly, interpretata da una sofisticata e cattivissima Meryl Streep. “Tutti vogliono essere noi”: così tuona Miranda Priestley, indossando capi haute couture ed occhiali da diva. Tra capricci di ogni sorta, la temibile direttrice insegnerà alla giovane Andrea i segreti dello stile, iniziandola ad una vita patinata e ad una carriera nel fashion biz.

Anne Hathaway nei panni di Andrea Sachs (Foto Movieplayer)
Anne Hathaway nei panni di Andrea Sachs
(Foto Movieplayer)


(Foto cover Vogue.it)


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Buon compleanno, Sex and the City!

Diciott’anni e non sentirli: eppure Sex and the City ha festeggiato pochi giorni fa quest’importante compleanno. La serie cult per antonomasia non smette di affascinare -persino nelle infinite repliche continuamente riproposte con enorme successo di pubblico- e tante sono le donne che si identificano in Carrie Bradshaw e nelle sue amiche. Ma cosa c’è alla base di un tale successo? Forse solo il racconto senza veli della realtà.

Quattro amiche alle prese con le relazioni sentimentali, sullo sfondo della Grande Mela: geniale fu l’intuizione di Michael Patrick King e Darren Star, sceneggiatori della serie cult. Tra delusioni amorose e outfit pazzeschi, curati da Patricia Field (qui un pezzo sulla celebre costumista), si consuma l’esistenza di Carrie e co., scandita da lucidi commenti sulle dinamiche relazionali uomo/donna.

Moderna, irriverente, la donna emancipata ed in carriera promossa dalla serie ha fornito un valido esempio per intere generazioni di donne: e se prima collezionare partner era considerato esclusivo appannaggio del sesso maschile, ora per la prima volta la donna rivendicava per sé il diritto di concedersi qualche liaison in attesa del grande amore.

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Sei stagioni e due film per il grande schermo (e un terzo dovrebbe arrivare a breve): un successo senza precedenti ha reso Sex and the City un vero e proprio fenomeno di costume. E chi non si è appassionato al tira e molla tra Carrie e Mr Big e alle infinite peripezie delle quattro protagoniste, affrontate rigorosamente dall’alto di un tacco 12 Manolo Blahnik? Una serie che continua a farci sognare.


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THE HATEFUL EIGHT: LO SPAGHETTI WESTERN FIRMATO TARANTINO

Il Maestro è tornato, con il suo ottavo capolavoro, celebrazione assoluta dello stile tarantiniano in versione western. Ed è già cult.

Attesa finita: il Maestro del cinema pulp è tornato e, come ormai di consueto, ha fatto centro. Questa volta più che mai. Torna Quentin Tarantino e lo schermo si ritinge di quel rosso puro che non solo è l’emblema del suo “fare cinema” riempiendo la pellicola di scene crude e ricche di quel sangue rosso vivo, ma bensì anche di quel rosso associato alla passione, la stessa che il regista riesce con ogni suo lavoro ad infiammare in un pubblico che ormai lo ha consacrato a mito, un regista ribelle capace di trasformare lunghe scene di violenza in veri e propri cult.

 

Lo aveva fatto agli esordi con il mitico Pulp Fiction, con Le Iene, con Kill Bill e via dicendo e quest’anno lo ha riconfermato portando sul grande schermo il suo ultimo grande lavoro: The Hateful Eight. L’ottavo film di Tarantino, proiettato in anteprima solo in tre sale in tutta Italia (il Teatro 5 di Cinecittà, il Cinema Arcadia di Melzo (Mi) con super tecnologia audio firmata Doldy e realizzata da Sangalli Tecnologie di Bergamo e il Cinema Lumière della Cineteca di Bologna) è già stato definito dalla critica come la consacrazione del genere “spaghetti western” alla Tarantino. Se già con Jango Tarantino si era addentrato in questo “terreno” da lui tanto amato, con The Hateful Eight è riuscito a riproporre in tutto e per tutto un film che non solo ha tutto il sapore di quei film wester tanto amati dal cinema americano, ma in più ha inserito tra i mm di questa pellicola tutto il suo stile inconfondibile.

 

E parlando di mm non si può non porre l’attenzione sulla scelta del Maestro di portare sul grande schermo un film in 70 mm, formato di pellicola deluxe quasi in disuso, costoso ma dalla resa extra luminosa e dalla dinamica del colore imbattibile. Una scelta che porta lo spettatore quasi ad entrare direttamente nel film, proiettandosi in ogni singola scena. Il risultato è a dir poco stupefacente, amplificato da un’altra chiave di volta alla Tarantino, le musiche, sempre intense, profonde, incisive e ovviamente in antitesi con la scena proiettata.

 

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E se poi si conclude dicendo che ogni singolo pezzo è siglato dal grande Ennio Morricone… non serve andare avanti. Ogni nota buca lo schermo e si fonde con esso per rendere vivida e profonda ogni sequenza. E così dallo scenario innevato delle montagne del Nord America si apre The Hateful Eigth, il cui svolgimento, in contrasto con molti altri miti di Tarantino girati in ambienti che cambiano in un batter d’occhio, avrà come sfondo solo queste montagne e l’ Emporio di Mannie, che servirà ai protagonisti per ripararsi da una bufera di neve.

 

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Proprio in questo piccolo spazio il film troverà il suo compimento, in una sequenza di scene che, a differenza delle altre sette bobine del Maestro, non troveranno la velocità dell’azione ma bensì il lento scorrimento della trama. Effetto voluto ovviamente perché quello che Tarantino ha creato è un film da gustare con calma, scena dopo scena, in una prima parte quasi troppo lenta e senza sangue per essere un suo film. Ma nessun problema: il secondo tempo sarà una discesa senza freni verso il macabro, crudo e sanguinolendo stile tarantiniano. Con una nota in più: gli amanti del genere non potranno assolutamente mancare di notare come la stesura perfetta di questo copione richiami inesorabilmente gli enigmi di una delle più amate gialliste della storia, Agatha Christie (non a caso uno dei cow boy protagonisti si spaccerà per inglese e porterà un cappello che quanti hanno amato il celebre detective Hercule Poirot non potranno non avere notato?!).

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Sta di fatto che il richiamo a quei “10 piccoli indiani” che uno a uno moriranno in un gioco misterioso dove non sarà chiaro nè  l’assassino nè l’innocente vi è tutto. Cambia lo scenario, ovviamente, ma la logica che spingerà gli otto cacciatori di taglie protagonisti ad una eliminazione reciproca vi è tutta. Con un “… e alla fine ne resterà solo uno” che non poteva però essere applicato da Tarantino. E qui, solo qui, piano piano, scena dopo scena, con salti temporali propri dello stile pulp, mixati a quel “mexicans standoff” (ovvero il “triello” nel quale tre personaggi armati di pistola si tengono sotto tiro l’un l’altro-tanto amato da Sergio Leone), il film ci svela tutti i suoi perché e la storia fitta di dialogi ben creati e sangue a più non posso consacra ancora una volta il mito di Tatantino. Un grande applauso al grande Maestro pulp quindi, che non ha deluso, anzi, ha riconfermato il suo genio e la sua maestria nel trasformare anche la scena più macabra in una sequenza cult. E se la grande Agatha fosse stata con noi in platea ieri sera, beh, siamo sicuri avrebbe abbozzato un sorriso. O così la vogliamo pensare.

 

 

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Tanti auguri Elijah Wood

Vi ricordate quel ragazzino di 8 anni con la maglietta rossa intento ad osservare il protagonista di Ritorno al futuro: Parte II giocare ad un videogioco? Quel bambino oggi compie 35 anni. Stiamo parlando dell’attore statunitense Elijah Wood, alias Frodo Baggins, lo hobbit della celebre trilogia cinematografica de Il Signore degli Anelli diretta da Peter Jackson.

In occasione del suo compleanno, vi proponiamo un suo breve ritratto, menzionando le sue principali apparizioni sul grande schermo.

Nato a Cedar Rapids (Iowa) il 28 gennaio 1981, Elijah Wood debutta come protagonista a fianco di Mel Gibson nel film Amore per sempre del 1992, mentre l’anno successivo è affiancato da Macaulay Culkin (Mamma ho perso l’aereo) nel thriller L’innocenza del diavolo. Nel 1996, invece, è la volta della pellicola intitolata Flipper, mentre nel 1998 di Deep Impact.

Uno dei film più noti che vede tra i protagonisti Elijah Wood è sicuramente Hooligans – Green Street, datato 2005. Uno spaccato crudo e realistico della realtà ultrà dell’Inghilterra, con particolare riferimento all’antica e mai sopita rivalità sulle sponde del Tamigi tra i tifosi del West Ham e quelli del Millwall.

Uno scontro tra i tifosi del West Ham e i supporters del Millwall nel film Hooligans - Green Street, con Elijah Wood
Uno scontro tra i tifosi del West Ham e i supporters del Millwall nel film Hooligans – Green Street, con Elijah Wood

Nello stesso anno interpreta il ruolo dello spietato cannibale dagli artigli affilati Kevin in Sin City.

Sin City, Elijah Wood nei panni dell'assassino cannibale Kevin
Sin City, Elijah Wood nei panni dell’assassino cannibale Kevin

Nel 2007, invece, diventa protagonista del film Oxford Murders – Teorema di un delitto, coadiuvato da John Hurt. Due anni più tardi, il 25 maggio 2009, si aggiudica il Midnight Award al San Francisco International Film Festival, premio conferito ad un giovane attore che abbia contribuito allo sviluppo e alla promozione del cinema indie.

Infine, nel 2012 compare in un cameo celebrativo nelle vesti di Frodo in Un viaggio inaspettato, il primo capitolo della trilogia de Lo Hobbit, nonché prequel de Il Signore degli Anelli.

 

Ogni cosa è illuminata

Evidentemente il 2005 è stato l’anno più florido per Elijah Wood, dato che, oltre ai già citati Hooligans – Green Street e Sin City, in quel lasso di tempo fu protagonista anche di un’altra opera: Ogni cosa è illuminata, diretta dall’attore statunitense Liev Schreiber (di cui ricordiamo The Manchurian Candidate, Defiance – I giorni del coraggio e X – Men le origini – Wolverine), al suo debutto dietro la macchina da presa.

Ogni cosa è illuminata
Ogni cosa è illuminata

La pellicola racconta la storia di Jonathan Safran Foer (Elijah Wood), un ebreo americano che narra a sua volta di uno studente, Jonathan, anch’egli americano, in viaggio per l’Ucraina in cerca della donna che salvò la vita di suo nonno strappandolo all’abominio nazista. È proprio in virtù di tale decisione che nell’arco dei 106 minuti di durata lo spettatore può ricostruire la memoria e la realtà del piccolo villaggio di Trachimbord, uno dei tanti shtetl bruciati e gettati nell’oblio nel corso della Seconda Guerra Mondiale. Stiamo parlando di una comunità che ha purtroppo smesso di esistere dal punto di vista geografico, ma che ha saputo rinascere e ricrearsi nell’animo di quelle persone che hanno scrupolosamente e laboriosamente conservato le sue tracce, fino ad arrivare ad una sorta di collezione di ricordi.

Jonathan inizia così il suo lungo peregrinare armato di una fotografia del nonno immortalato in compagnia della sua salvatrice Augustine. Il ragazzo sarà accompagnato durante il suo viaggio da un altro nipote, Alexander Perchov, la voce fuori campo del film, nonché da un altro nonno ebreo sopravvissuto alle stragi naziste, un uomo scorbutico che si finge cieco dietro ad un paio di grossi occhiali scuri e accompagnato da un cane guida piuttosto bizzarro.

Il personaggio di Alexander è interpretato da Eugene Hutz, noto dj e cantante del gruppo musicale dei Gogol Bordello. Egli è altresì un attore (statunitense, ma di origini sovietiche), di cui ricordiamo pellicole quali Wristcutters – Una storia d’amore del 2006 e Sacro e profano del 2008.

Elijah Wood ed Eugene Hutz in una scena del film Ogni cosa è illuminata
Elijah Wood ed Eugene Hutz in una scena del film Ogni cosa è illuminata

Ogni cosa è illuminata è un film incentrato sia sull’universalità dei canonici registri appartenenti al filone tragico, sia sui tempi e le modalità della cultura della comicità yiddish.

 

Biancaneve e i sette nani, la follia di Walt Disney

Il 21 dicembre 1937 presso il Carthay Circle Theatre di Los Angeles, al termine della proiezione in anteprima di quella che era stata definita una follia, il pubblico, composto tra gli altri da star del calibro di Charlie Chaplin, Shirley Temple, Clark Gable, Judy Garland e Marlene Dietrich, concesse una standing ovation al primo lungometraggio animato della storia. L’artefice di quella follia era Walt Disney e quel film era Biancaneve e i sette nani. All’epoca Walt Disney era un cineasta talentuoso che si era fatto conoscere prima per le Alice Comedies, nei primi anni ’20, e poi, soprattutto, per la serie di Mickey Mouse (dopo aver perso i diritti per Oswald the Lucky Rabbit) e delle Silly Symphonies, cortometraggi animati molto distanti dalle produzioni seriali di Tex Avery o dei fratelli Fleischer (creatori di Betty Boop e Braccio di Ferro).


Mickey Mouse era il simbolo del New Deal, il coraggioso americano che combatteva la paura della Grande Depressione con la positività che era tipica anche del suo creatore, Walt Disney (anche se, secondo alcuni, a disegnarlo sarebbe stato Ub Iwerks). Dall’altro lato c’erano le Silly Symphonies, anch’esse portatrici dei valori del New Deal e già capaci di per sé di rivoluzionare, dal punto di vista tecnico, il cinema d’animazione, ad esempio per l’introduzione della multiplane camera, capace di dare profondità all’immagine (in The Old Mill, 1937) o per aver regalato per la prima volta il colore (in Flowers and Threes, 1932) a delle produzioni fino a quel momento piuttosto spartane e dipendenti dai più importanti lungometraggi live action.


In realtà già qualcuno aveva provato a nobilitare un tipo di cinema che sembrava soltanto il surrogato di quello con attori in carne e ossa. Un primo tentativo l’aveva fatto l’argentino Quirino Cristiani, i cui film furono però distrutti in un incendio; in seguito c’era stata anche Lotte Reiniger con Le avventure del Principe Achmed (1923), realizzato con la tecnica delle silhouette. Ma nessuno di loro era stato in grado di dare ai cartoni animati un’impronta hollywoodiana, così come accadde per Biancaneve e i sette nani. D’altronde anche Max Fleischer – forte concorrente di Disney – avrebbe tentato la stessa operazione due anni dopo, con I viaggi di Gulliver (1939), ottenendo risultati tutt’altro che gratificanti. Gli ingredienti del successo di Disney erano piuttosto semplici, prelevati da una nota fiaba dei fratelli Grimm e riadattati secondo la visione del mondo di Walt Disney: da un lato una fanciulla dal volto e dal cuore candido, orfana prima della madre e poi del padre; dall’altro una matrigna – una regina – gelosa della crescente bellezza della sua figliastra nonché della sua giovinezza e della sua squisita bontà.


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Un primo tentativo di affronto: l’ordine a un cacciatore, uccidere la fanciulla e portare il suo cuore in uno scrigno. Ma il cacciatore, impietosito da Biancaneve, la lascia andare e così la fanciulla trova rifugio presso una casetta, al di là del bosco. Qui vivono i sette nani, che all’inizio lei scambia per dei bambini. I nani, i cui nomi rispecchiano le peculiarità caratteriali (Dotto, Gongolo, Eolo, Mammolo, Cucciolo, Brontolo e Pisolo), tornano a lavorare nelle miniere, mentre Biancaneve, calatasi più nel ruolo di ragazza-madre che di principessa, si occupa delle faccende domestiche, con l’aiuto degli animali della foresta, lavando e cucinando. Intanto la regina scopre che il cacciatore non le ha portato il cuore di Biancaneve ma quello di un cinghiale, così decide di muoversi in prima persona per annientare una volta per tutte la sua nemica e per essere lei «la più bella del reame». Ora rivela la sua vera natura: è una strega, una profonda conoscitrice di formule alchemiche mostruose, capaci di tramutarla in una vecchia megera; e capaci anche di trasformare il frutto del peccato originale, la mela – una bellissima mela rossa – in un’arma letale. L’ingenuità di Biancaneve non può nulla contro la furbizia della strega. Giunta alla casetta dei nani, è sufficiente offrirle la mela per assicurarsi che Biancaneve non si tirerà indietro: basta un solo morso per ucciderla.


Nel frattempo, gli animali della foresta corrono alla miniera per richiamare i nani e per avvertirli che Biancaneve è in pericolo. A sconfiggere la strega sarà il Fato, che la farà precipitare sghignazzando da un burrone, mentre tenterà di schiacciare i nani «come formiche». Quanto a Biancaneve, c’è un solo modo per risvegliarla da un sonno tutt’altro che mortuario: il bacio del vero amore, che potrà esserle dato da un giovane, un principe che già aveva dimostrato di amarla, quando aveva ascoltato la sua candida voce mentre raccoglieva l’acqua dal pozzo. Una fiaba con una trama semplice, lineare, con pochi ma essenziali personaggi, ognuno dei quali con una funzione ben precisa: la strega come antagonista, i nani come aiutanti, il principe come risolutore/salvatore; e Biancaneve che, passiva, attende il compiersi della propria sorte. Essere odiata perché lo Specchio Magico rivela alla regina che non è lei «la più bella del reame». C’è invidia, c’è odio, c’è soprattutto la profonda consapevolezza che la fanciulla potrebbe oscurarla. Questo è il moto dell’azione, che si sviluppa attraverso le celeberrime canzoni della Disney, che fanno diventare il film una vera e propria operetta.


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Una follia, già. Una follia che nel 1937 trasformò Disney e la sua azienda in colossi cinematografici, con incassi da capogiro, considerata l’epoca. Soltanto Via col Vento, due anni dopo, sarebbe riuscito a fare meglio. Ma Walt Disney non era uno capace di accontentarsi; e così, da vero self-made man, desiderò moltiplicare il proprio successo con qualcosa di ancora più ambizioso. I profitti di Biancaneve lo portarono a realizzare un nuovo studio, a Burbank, dove ora risiedono i Walt Disney Studios. Ma l’inizio della guerra e lo sciopero del ’41, a causa dei numerosi licenziamenti, non gli facilitarono le cose, per cui il film successivo, Fantasia (1940), troppo all’avanguardia per quei tempi, non fu abbastanza apprezzato, pur essendo la geniale unione tra cultura alta e cultura popolare: la musica e il cartoon, o meglio la musica classica e Topolino, simbolo aziendale decaduto, rilanciato nell’episodio L’apprendista stregone dopo che, nei cortometraggi tra la fine degli anni ‘30 e i primi anni ‘40, il successo di Paperino lo aveva quasi oscurato. Paperino era infatti diventato lo strumento di propaganda anti-nazista di Walt Disney, incarnando lo spirito dell’americano per eccellenza, esemplato in un cortometraggio – talvolta male interpretato – come Der Fuherer’s Face, laddove sognava di essere un nazista, per poi risvegliarsi da quel tremendo incubo e baciare la Statua della Libertà.


Film di propaganda, dunque. L’impegno politico di Walt Disney, che sarebbe diventato collaboratore di J. Edgar Hoover nella caccia ai comunisti, è indiscutibile sin dai primi cortometraggi di Topolino, ma anche in Biancaneve non mancano messaggi coraggiosi: l’iperattivismo dei nani è un inno al lavoro. Sono americani che non si perdono d’animo, che anche nei momenti più difficili continuano a lavorare con positività, instancabili. La stessa cosa la fa Topolino, che anzi, come già detto, incarnava l’essenza stessa del New Deal di Roosevelt. Dall’altro lato, come elemento negativo, troviamo il Lupo Ezechiele, che nei Tre porcellini (1933), secondo Ejzenštein, rappresentava la disoccupazione. E non a caso la canzone canticchiata da due dei tre porcellini (quelli più scansafatiche) era “Who’s afraid to the Big Bad Wolf?”, un testo scritto da Frank Churchill e inno del New Deal durante la Grande Depressione, citato anche da Frank Capra in Accadde una notte (1934). Capra, non a caso, era amico di Walt Disney.


Oltre a un forte richiamo alla realtà politica dell’epoca, però, Biancaneve è anche ricco di simboli. Per esempio Biancaneve che invoca l’amore quando raccoglie l’acqua del pozzo, ovvero le emozioni raccolte dal subconscio. E anche le personalità dei nani non sono casuali: si va dall’ingenuità infantile di Cucciolo alla saggezza di Dotto, con Brontolo a simboleggiare l’intolleranza e la vecchiaia e Gongolo e Mammolo negli stadi intermedi dell’innamoramento. Tutte le fasi della vita, scandite in sette personalità diverse. Ma i film di Walt Disney, non soltanto Biancaneve e i sette nani, sono stati interpretati anche in maniera tutt’altro che positiva. La metamorfosi della regina in vecchia, ad esempio, secondo un utente spagnolo di YouTube, alluderebbe a un’invocazione a Satana: «Polvere di mummia, per invecchiare; per tingere le vesti, il nero della notte; per arrochire la voce, risata di strega; per imbiancare i capelli, un urlo di terrore; turbine di vento, per agitare il mio odio». Sono ingredienti che hanno l’obiettivo di terrorizzare lo spettatore e di inquietarlo per il potere oscuro della regina e per le sorti di Biancaneve. Ma se così non fosse stato, se la regina non avesse avuto questi poteri oscuri, il film avrebbe perso interesse e non avrebbe avuto successo.


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Pur essendo tratto da una fiaba dei Grimm, il film ha alcune fondamentali differenze che addolciscono il contenuto e che riadattano la storia per il pubblico a cui Disney voleva rivolgersi: le famiglie americane che amano l’entertainment e il dolce sapore del lieto fine. Perché nel mondo di Walt Disney tutto deve finire bene e anche storie profondamente drammatiche come potevano essere il Peter Pan di Barrie (il triste isolamento del bambino in un mondo che gli impedisce di crescere e che lo porterà ad allontanarsi dalla famiglia), o simboliche come il Pinocchio di Collodi – devono avere i tratti tipici della “disneynità”. Per cui, se nella fiaba dei Grimm la strega tenta più volte di uccidere Biancaneve, prima soffocandola con una cintura e poi con un pettine avvelenato, nella Biancaneve di Walt Disney è sufficiente la mela avvelenata; in secondo luogo, il bacio del principe non esiste per i Grimm: Biancaneve si risveglia in maniera del tutto casuale, quando un principe (che non l’ha mai vista se non dopo essere stata avvelenata con la mela) la conduce nel suo castello e nel corso di una caduta Biancaneve riesce a espellere il boccone avvelenato. Niente di romantico, quindi. E anche la punizione del Fato è un’invenzione di Walt Disney: la matrigna, invitata alle nozze di Biancaneve con il principe, è costretta a indossare delle calzature incandescenti e a ballare, finché non muore. Varianti essenziali, come si è già detto, per identificare alcuni elementi con la Biancaneve di Disney, non con quella dei Grimm.


Le trasposizioni più recenti della celeberrima fiaba non fanno altro che restituire alla storia di Biancaneve il tema essenziale che Disney aveva cercato di celare: la sessualità. Perché in fondo la regina vuole uccidere Biancaneve perché è gelosa di lei, della sua bellezza, ma soprattutto della sua femminilità; una femminilità pericolosa perché le può sottrarre il suo sposo. Un elemento che nel film della Disney non è per niente accentuato, cosa che accade invece in Biancaneve (2012) con Lily Collins e Julia Roberts, laddove le due donne arrivano addirittura a contendersi il principe. È chiaro che, anche per il pubblico a cui è destinato Biancaneve e i sette nani (le famiglie, ma soprattutto i bambini, la cui sessualità è ancora latente), due donne che, per conquistare un uomo, esprimono al massimo la propria femminilità non sono affatto concepibili, anche se, nella Sirenetta (1989), questo elemento verrà fuori. Ma si tratta di un periodo differente, e soprattutto con un’azienda del tutto rinnovata e orfana di Walt Disney. Purtroppo le esigenze di marketing portano però anche a una rilettura di fiabe classiche secondo una visione moderna e di genere totalmente diverso che va a snaturare la morale stessa della storia, trasformandola in un futile intrattenimento fine a se stesso. È ciò che accade in Biancaneve e il cacciatore, sempre del 2012, che segue il filone di altre fiabe ritornate al cinema in live action come il deludente Alice in Wonderland (2010) di Tim Burton o come lo pseudo-horror Cappuccetto Rosso Sangue (2011); oppure, infine, l’altrettanto deludente e inutile remake La Bella e la Bestia (2014).


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Tornando a quella notte del 21 dicembre 1937, la follia di Disney si era rivelata una scommessa più che vincente: il successo al botteghino per il primo lungometraggio animato della storia, escludendo i tentativi – di cui si è già accennato – di Quirino Cristiani e di Lotte Reiniger, fu straordinario. Walt Disney, due anni dopo, si aggiudicò l’Oscar alla carriera e fu lodato da Chaplin e da Ejzenštein, che definì Biancaneve il più grande film mai realizzato. Tramandato per intere generazioni, amato da ogni famiglia, senza distinzione di sesso o di età, Biancaneve e i sette nani è il più grande classico fra tutti i classici Disney, una pietra miliare della settima arte, innovativo tanto quanto lo sarebbe stato Quarto Potere soltanto tre anni dopo ma molto più popolare. Un’esplosione incontenibile di emozioni, dettate da situazioni anche piuttosto naïf, ma assolutamente originale, se si considera l’epoca in cui è nato. Un film di quasi ottant’anni fa – settantotto, per essere precisi – ma immortale tanto quanto il suo creatore, un uomo che voleva farsi ibernare per ottenere l’immortalità e che è riuscito a salvaguardare il proprio nome, la propria fama, attraverso personaggi innocenti e genuini come dei bambini, divenuti tra i maggiori simboli della cultura popolare, non soltanto di quella occidentale.


Sergio Leone e la Trilogia del Dollaro

Un cavaliere solitario arriva a San Miguel, un paesino del confine tra Messico e Stati Uniti. Non ha un dollaro in tasca, ma ha l’aria sorniona di chi è svelto a sparare, e nel vecchio West questo basta e avanza. Dopo aver assistito al sopruso ai danni di un bambino, lo straniero arriva dal proprietario del saloon del paese, Silvanito, che gli spiega la situazione: è in atto una guerra tra le due famiglie più potenti, i Baxter, che vendono armi, e i fratelli Rojo (Don Benito, Esteban e Ramon), che vendono alcol. «I Baxter da un lato, i Rojo dall’altro. E io nel mezzo. Aveva ragione il campanaro: c’è da arricchirsi in questo paese». È questo l’inizio di Per un pugno di dollari (1964) – remake de La sfida del samurai (1961) di Akira Kurosawa – primo film della cosiddetta Trilogia del Dollaro, completata da Per qualche dollaro in più (1965) e Il buono, il brutto e il cattivo (1966), tutti e tre diretti da Sergio Leone, che oltre a lanciare Clint Eastwood (all’epoca un giovane attore con qualche parte minore all’attivo) definirà un genere, i cosiddetti “spaghetti western” (produzioni di film western italiani con budget ridotto), diventandone uno dei registi più importanti.


La Trilogia del Dollaro si discosta notevolmente dai classici western americani, per esempio i film di John Ford. Nell’epopea di Leone non ci sono buoni e cattivi (nonostante il titolo del terzo film faccia pensare il contrario). Ci sono piuttosto uomini che agiscono soltanto per se stessi, per arricchirsi. Lo straniero senza nome, che qui sarà chiamato Joe, mentre nei due film successivi sarà rispettivamente il Monco e il Biondo, è il massimo esempio dell’opportunismo: è uno che fa di tutto per raggiungere i propri obiettivi. È disposto a bluffare, a uccidere e anche a rischiare la vita. Lo fa in Per un pugno di dollari, quando si trova tra i due fuochi, i Baxter e i Rojo, riuscendo ad attuare un doppiogioco piuttosto rischioso per un uomo qualunque, ma non per uno così furbo. Quando però Ramon Rojo (un mefistofelico Gian Maria Volonté) scopre di essere stato ingannato, lo cattura e lo fa torturare dai suoi uomini, riducendolo in fin di vita. In seguito alla fuga di Joe, Ramon scarica tutta la propria rabbia sui Baxter, incendiando la loro casa e uccidendoli a sangue freddo. Aiutato dal becchino, intanto, Joe riesce a fuggire e a preparare, poco alla volta, la sua implacabile vendetta.


Lo scontro finale – supportato dalle epiche musiche di Ennio Morricone, fondamentali per connotare i film di Leone e per diversificarli dagli ordinari film western americani – è diventato ormai leggendario. Mentre Ramon e i suoi uomini torturano Silvanito per sapere dove si è nascosto lo straniero, si sente un’esplosione: dinamite. Il fumo avanza davanti ad alcune case ormai disabitate. E poi, poco alla volta, compare un uomo. Appare come un fantasma ma è piuttosto un abile illusionista. E con l’illusione affronta Ramon, che gli scarica tutti i proiettili dritto al cuore. L’uomo intanto grida: «Al cuore, Ramon! Per uccidere un uomo lo devi colpire al cuore! Sono parole tue, no?». Non solo. Ramon aveva anche detto: «Quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, quello con la pistola è un uomo morto.»


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Non si tratta soltanto di un duello in cui si decide chi vive e chi muore ma anche chi ha ragione. Joe sfida Ramon in tal senso, smentendo le sue forti convinzioni, sparare al cuore ed essere più forte solo perché usa un fucile al posto di una pistola. Di fronte all’invulnerabilità di Joe, Ramon, resosi conto di aver finito i proiettili, prova un attimo di panico. Intanto Joe gli mostra il suo segreto: una lastra d’acciaio a fungere da giubbotto antiproiettile. Una scena enfatizzata dai lunghi momenti di silenzio, dai primi piani sugli sguardi e da altre, interminabili, pause. Dopo aver sparato agli uomini di Ramon, la sfida diventa un faccia a faccia: un uomo con la pistola e un uomo col fucile. Joe spara prima alla corda che lega il povero Silvanito. Poi getta per terra la pistola e invita Ramon a raccogliere il fucile, a caricare e a sparare. Sarà una sfida soprattutto di velocità. Il finale è scontato, con la vittoria di Joe, che riporta la pace a San Miguel ma che fugge poco prima che arrivino le forze governative. Al galoppo verso nuove avventure. Verso un altro mucchio di dollari.


Nel film successivo, Per qualche dollaro in più, Joe è conosciuto come il Monco. La mano fuori uso è quella martoriata dalle torture di Ramon. Ma ora non è più un cavaliere solitario doppiogiochista: ora è diventato un cacciatore di taglie a tutto tondo e il suo obiettivo è catturare lo spietato Indio (ancora Gian Maria Volonté, sempre più mefistofelico), un bandito messicano senza scrupoli che vuole rapinare la banca di El Paso. Stavolta, però, ci sarà qualcuno a contendersi il bottino con lui: si tratta del Colonnello Douglas Mortimer (Lee Van Cleef), che con Indio ha un conto in sospeso, poiché il bandito, in passato, aveva ucciso la sorella e il cognato del colonnello. La donna, dopo essere stata violentata dall’Indio, si era sparata un colpo proprio con la sua pistola. Quindi è la vendetta, oltre che i soldi, a muovere il colonnello.


Unitosi al Monco – mosso invece soltanto dai soldi – il colonnello lo convince a far evadere da una prigione un ex scagnozzo dell’Indio, per poi introdursi nella sua banda e spiare dall’interno le sue mosse. Obiettivo del colonnello è lo scontro frontale con l’Indio, ossessionato dalla musica di un carillon, al termine della quale è solito sparare. Questo secondo film riprende alcuni elementi del primo: c’è un cavaliere solitario (Joe in Per un pugno di dollari, qui il Monco, ma il personaggio è lo stesso) che vuole arricchirsi; c’è una sconfitta (l’Indio che scopre il Monco e il Colonnello e li fa pestare dai suoi uomini) e c’è, infine, un duello letale, anche questa volta mosso dalla vendetta, ma per un’azione narrata soltanto in un flashback anziché nella linea temporale del film. L’elemento aggiuntivo è il Colonnello, spalla ideale del Monco, rispetto al quale si dimostra molto più saggio e metodico. Discorso simile vale per il terzo e ultimo film della trilogia, Il buono, il brutto e il cattivo, in cui l’azione però non è mossa dalla vendetta ma soltanto dai soldi, ancora una volta. L’intreccio, però, è più complesso; e se Per un pugno di dollari rispettava le unità aristoteliche di luogo (tutto il film è ambientato a San Miguel), in questo caso lo scenario cambia spesso e porta le strade dei tre protagonisti a intersecarsi in maniera del tutto casuale.


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Il Biondo (Clint Eastwood) e Tuco (Eli Wallach) si arricchiscono grazie alla taglia sulla testa di Tuco, truffatore, ladro, omicida e rapinatore: il Biondo prima lo consegna e poi lo libera, facendo aumentare ogni volta il bottino. I due si imbattono in una carovana, in cui un moribondo, un certo Bill Carson, rivela a Tuco l’esistenza di un bottino di duecentomila dollari sotterrati in una tomba. Prima di morire, Carson fa in tempo a dire a Tuco soltanto il nome del cimitero, mentre al Biondo, in fin di vita proprio per colpa di Tuco – che si era vendicato perché il Biondo, a sua volta, lo aveva abbandonato nel deserto dopo aver intascato la taglia –, rivela il nome della tomba in cui cercare il tesoro. Sulle tracce di Carson c’è anche uno spietato killer che si fa chiamare Sentenza (Lee Van Cleef). Tutto ciò sullo sfondo di una guerra civile che non conosce pietà per nessuno. I tre film sono legati dal motivo comune che scatena il plot narrativo (i soldi) e dallo stesso protagonista (il cavaliere senza nome) nonché da una struttura narrativa con qualche variante e con l’aggiunta di attori importanti al fianco della star Clint Eastwood, che per la Trilogia del Dollaro riuscì, tra un film e l’altro, sull’onda del successo, a far aumentare progressivamente il proprio ingaggio.


Tre film entrati nell’immaginario collettivo e diventati fonte di ispirazione per registi come Quentin Tarantino (che dedica Kill Bill proprio a Sergio Leone), Martin Scorsese, Sam Peckinpah, Stanley Kubrick, John Woo, Brian De Palma, Robert Zemeckis (che lo cita nel secondo e nel terzo film di Ritorno al futuro) e Robert Rodriguez (C’era una volta in Messico, ultimo film della cosiddetta trilogia Mariachi, richiama C’era una volta il West o C’era una volta in America, altri due film di Leone). Stephen King, per il personaggio di Roland Deschain della Torre Nera, si è rifatto al cavaliere senza nome di Clint Eastwood nella Trilogia del Dollaro.Quanto allo stesso Clint Eastwood, l’esperienza con Leone lo ha fatto crescere molto come attore ma lo ha fatto diventare anche e soprattutto un regista di primissimo livello, portandolo a vincere l’Oscar con Gli spietati e con Million Dollar Baby. A questi si sono aggiunte altre perle immortali come Gran Torino, Un mondo perfetto, Mystic River e l’ultimo, American Sniper, capace di incassare circa 547 milioni di dollari totali partendo da un budget di 60.


Al di là del contributo circa la carriera di Clint Eastwood, Leone ha profondamente rinnovato il linguaggio del cinema; e lo ha fatto, in particolare, con quello che è considerato il suo capolavoro, C’era una volta in America (1984), un disincantato racconto sui ricordi, la vita, l’amicizia, l’amore, l’infanzia, il sogno, l’illusione. Una vastità di temi enorme, unita a un cast eccezionale (Robert De Niro, James Woods, Joe Pesci). Dotato di un’incredibile sensibilità per la caratterizzazione dei suoi personaggi e per la capacità di farne emergere la profonda umanità, Sergio Leone, con la Trilogia del Dollaro, ha rivoluzionato tecniche, linguaggi e generi, introducendo nel cinema personaggi, situazioni e stereotipi in netta contrapposizione con i classici western. Su tutti, spicca la figura dell’uomo senza nome, un cavaliere solitario che non può legarsi a nessuno, in cerca soltanto di soldi.


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Eppure anche la sua ricerca infinita potrebbe essere stata generata da qualcosa di grave che gli è accaduto in passato (di cui non si dice mai nulla). Lo si lascia intendere in Per un pugno di dollari, quando libera Marisol e la sua famiglia dalla prepotenza di Ramon, innamorato della donna. «Perché fate tutto questo per noi» gli chiede il marito di Marisol; «È una storia troppo lunga da raccontare ora», risponde lui. Un motivo molto forte. Qualcosa che tormenta Joe/il Monco/il Biondo ma che mai sarà svelato. Sempre ammesso che qualcuno non decida di farlo rivivere, rimettendogli il poncho, il sigaro e quello sguardo profondo che sono il marchio di fabbrica del più affascinante personaggio tra gli affascinanti film di Sergio Leone.

Amici miei, la tragicommedia all’italiana

Pietro Germi aveva iniziato a lavorare ad Amici miei dopo il 1972. Ma a causa dell’aggravarsi di una malattia di cui soffriva da tempo, la regia fu affidata a Mario Monicelli, uno dei massimi esponenti della commedia all’italiana insieme a Dino Risi e a Luigi Comencini. Monicelli aveva già diretto pietre miliari del cinema italiano come I soliti ignoti (1958), La grande guerra (1959) e L’armata Brancaleone (1966). Il film uscì nel 1975, poco dopo la morte di Germi, a cui i titoli di testa sono dedicati: «Un film di Pietro Germi».


Il cuore della vicenda è quella toscana popolare e goliardica che sarà rivisitata negli anni Novanta da Pieraccioni, mentre l’emblema stesso della fiorentinità sarà quel Benigni capace di trattare argomenti seri (l’olocausto, la mafia, la guerra ecc.) in maniera leggera. In questo caso, l’unico grande argomento è l’amicizia, o meglio il valore dell’amicizia, intesa come strumento per evadere da una quotidianità grigia, squallida e insoddisfacente, per tuffarsi in avventure (o “zingarate”) che hanno la freschezza e il sapore della gioventù. Eppure i cinque protagonisti sono tutt’altro che giovani. Sono ormai cinquantenni ma si conoscono da una vita: compagni di scuola, di militare e di vagabondaggi, sono pronti a farsi beffe l’uno dell’altro e a tornare amici subito dopo. Per loro l’amicizia è l’unica vera cosa che conta.


Lo sa bene Raffaello Mascetti (Ugo Tognazzi), un ricco – grazie a sua moglie – capace di sperperare tutto quello che possedeva, per ritrovarsi a vivere in uno scantinato (pagato dai suoi amici), e a dover badare a un’amante molto più giovane di lui, Titti, di cui è gelosissimo e che ha tendenze bisessuali. Non è molto diversa la situazione degli altri componenti della banda, a incominciare dall’architetto Melandri (Gastone Moschin), sbandato proprio come Mascetti. Melandri vuole però una donna e la trova in Donatella, moglie di Alfeo Sassaroli (Adolfo Celi), primario della clinica presso cui Mascetti, Melandri e gli altri due amici, Perozzi (Philippe Noiret) e Necchi (Duilio Del Prete), erano stati ricoverati dopo una delle loro tante zingarate. Melandri riesce a conquistare Donatella grazie all’aiuto dei suoi amici (che parlano con lei al telefono facendole credere che a parlare fosse lo stesso Melandri) ma c’è una trappola: Sassaroli accetta che Donatella si trasferisca da Melandri, ma pretende che con lei vadano anche il cane Birillo, le due figlie e la governante tedesca. I due si accordano per visite bisettimanali di Sassaroli a moglie e figlie, ma il dottore non risparmia critiche, anche pesanti, sulla mediocrità di Melandri, il che è appoggiato dagli altri tre amici, che vogliono vendicarsi per la fuga repentina di Melandri dalla clinica e per aver nascosto l’esito positivo dell’incontro con Donatella.


Allo stesso Melandri si deve una frase che riassume l’intero senso del film: «Ragazzi, come si sta bene fra noi, fra uomini! Ma perché non siamo nati tutti finocchi?». Le donne fungono solo da cornice, così sono gli uomini a innescare, con le loro “supercàzzole”, gli unici legami profondi. Personaggi che si sentono soli al di fuori della loro cerchia, di una banda che li unisce come fratelli e che li fa sentire davvero a casa. Perché essere accettati da una famiglia è il loro reale problema. Lo è per esempio per il giornalista Giorgio Perozzi, che ha un rapporto ostile sia con sua moglie, da cui è separato, sia con suo figlio Luciano, stufo di doverlo rimproverare per i suoi comportamenti immaturi. Anche Perozzi, come Mascetti e Melandri, trova nel sesso una parziale compensazione del vuoto che lo circonda (ogni tanto accetta di incontrare delle prostitute). È proprio da Perozzi che ha inizio il racconto del film: un nuovo giorno – l’alba – e lui che non ha nessuna voglia di tornare a casa. Vuole ritrovare i suoi amici, per ridere, scherzare e godersi la vita nonostante sia cosciente di non poterlo fare, ma ha voglia di sorridere e di dimenticare.


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Nel secondo capitolo, Amici Miei – Atto II (1982), si scopre qualcosa di più sulla vita di Perozzi, che gli amici sono andati a trovare al cimitero. Così si era chiuso il primo film: con la morte di Perozzi, che nessuno riteneva vera, segno che a furia di scherzare si rischia di fare sul serio. In questo flashback, quindi, si svela il motivo del rancore di Luciano verso suo padre: perché Perozzi era stato lasciato da sua moglie e come si era comportato con il bambino in seguito; i tentativi di sbolognarlo a Mascetti, che glielo restituisce dopo nemmeno un giorno; la geniale trovata per convincere sua moglie Laura a riprendersi il bambino: Laura aveva lanciato invettive contro l’amante di Perozzi, Anita, la moglie del fornaio. In seguito a un incidente in cui muoiono sette persone, Perozzi fa credere a sua moglie che anche Anita fosse morta, al fine di far germogliare dentro di lei i sensi di colpa e di dimostrarle con Anita è tutto finito. Tattica perfetta per poterle restituire quel bacchettone di suo figlio.


Il secondo episodio, tuttavia, rispetto al primo è molto più cinico: dal lucido e disincantato ritratto di Luciano sul proprio diario nelle poche ore in cui si era ritrovato a vivere nello scantinato di Mascetti, presentato come un monolocale di lusso; momenti drammatici che si ricollegano a eventi storici locali, come l’alluvione che colpì Firenze nel 1966; o la stessa situazione familiare di Mascetti, con sua moglie Alice che di nuovo (come nel primo film) tenta il suicidio e impazzisce, mentre sua figlia è incinta di uno sconosciuto e per questo Mascetti vorrebbe farla abortire; o lo scherzo del rigatino (l’abbigliamento tipico dei facchini degli alberghi, utile per una fuga invisibile), seduzione e abbandono dell’aspirante attrice di turno, in questo caso una contorsionista, che finirà, dovendo esibire le proprie abilità a Sassaroli, per essere rinchiusa in una valigia. Tutto questo fino al drammatico finale, in cui Mascetti, in seguito a una trombosi, si ritrova su una sedia a rotelle. È agli amici che esprime il proprio rammarico per non poter più fuggire dalla trappola della famiglia «Guardatela come è contenta» dice riferendosi a sua moglie. «Finalmente sono tutto suo. Mi possiede, non posso più scappare. Mi lava, mi pettina, mi mette il borotalco. Vogliono per forza che mi senta utile. Ma a me non m’importa di essere utile. Sono sempre stato inutile. […] Per favore, non mi venite a trovare più. Quando vi vedo, penso, ricordo, vi invidio. Facciamo come si faceva per il povero Perozzi: fuori uno. Così fate lo stesso col povero Mascetti: fuori due. Tanto non c’è più scopo, non mi diverto più.»


Amici miei – Atto II si era chiuso con una gara di velocità tra paraplegici a cui aveva partecipato il povero Mascetti dopo l’attacco di trombosi. Il terzo episodio, Amici miei – Atto III (1985), conferma il cast dei primi due film ma vede un cambio alla regia, affidata a Nanni Loy. L’azione si sposta dalla campagna a una casa di riposo, dove Mascetti è stato ricoverato. Dopo la morte di Alice, il suo umore è migliorato, così da tornare il “bischero” di una volta. Necchi, Melandri e Sassaroli lo vanno a trovare di frequente e non mancano, come al solito, gli scherzi sciocchi che caratterizzano la banda. Per esempio far credere agli altri anziani di essere sintonizzati su un canale rivolto alla terza età, mentre sono loro stessi che, attraverso il cavo di una videocamera, trasmettono contenuti altamente volgari e irriverenti.


Melandri, dopo aver raggiunto Mascetti presso la casa di riposo, riesce a fidanzarsi ma non a sposarsi. La nipote della futura sposa avverte Mascetti che quella che sembra una gentildonna è in realtà una poco di buono. Per salvare Melandri da un matrimonio che potrebbe rivelarsi pieno di tradimenti, Mascetti seduce la futura sposa e filma il momento del loro incontro, dimostrando così a Melandri le tendenze adulterine di colei che vuole portare all’altare. Melandri tronca senza pensarci due volte e ringrazia Mascetti: segno, per l’ennesima volta, che il matrimonio, per la banda di Amici miei, non è qualcosa di felice ma qualcosa di assolutamente infelice (non a caso Mascetti migliora dopo la morte di sua moglie) e da cui bisogna fuggire a tutti i costi. Lo farà anche Necchi, che convince sua moglie Carmen ad abbandonare il bar che gestiscono per trasferirsi nella casa di riposo con Mascetti e Melandri, nonostante Carmen sia del tutto contrariata per questa decisione, visto che si sente ancora in grado di lavorare.


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Non mancano, nel frattempo, le solite burle, per esempio far credere a un uomo ricoverato nella casa, un certo Lenzi, che Mascetti e Melandri partecipano a delle messe nere e che si vendono al diavolo per avere in cambio l’elisir della giovinezza. Da buoni toscani, non possono che citare Dante («Pape Satàn, aleppe!») durante il falso rito; e il risultato è far credere a Lenzi di essere davvero tornato giovane (in realtà lo truccano a pennello). Sassaroli dirà agli altri, responsabili indiretti per la morte di Lenzi, che in realtà gli hanno fatto solo un favore, alleviandogli le pene della morte (ma soprattutto della vecchiaia).


Ormai, però, tutti questi scherzi, più che far ridere, fanno pena. Nei primi due film si rideva piangendo e il desiderio dei tre protagonisti di sentirsi ancora giovani, di fare ancora quegli stessi sciocchi scherzi che facevano da giovani, di non avere relazioni serie tranne che tra loro stessi (nemmeno quindi con le mogli, che erano anzi di intralcio) – tutto questo aveva un che di drammatico, di estremamente malinconico: l’età avanza ma loro cercano di fare qualunque cosa per sentirsi ancora vivi. Seppur anziani, ostentano energie che non posseggono più. In tal senso il finale di Amici miei – Atto III è particolarmente significativo, nel momento in cui Necchi e Sassaroli ritentano il celeberrimo scherzo del treno del primo film: schiaffeggiare i passeggeri in partenza, affacciati ai finestrini. In quel caso era stato emblematico Perozzi che, tra le vittime del treno, trovava suo figlio Luciano.


Ma ora Perozzi non c’è più e Necchi, dal canto suo, non ce la fa più a saltare; e infine i treni sono diventati più alti. Ora accade il contrario e sono quindi i passeggeri a schiaffeggiare l’allegra banda di “bischeri”, anche se Mascetti, sempre sulla sedia a rotelle, spruzza dell’inchiostro con una peretta ai passeggeri, segno che, pur essendo invalido, non è cambiato per niente. Intanto Sassaroli – molto prevedibilmente unitosi agli altri tre – è diventato direttore della casa di riposo, dopo aver venduto la clinica di cui era primario. Finalmente riuniti, i quattro “bischeri” possono far baldoria fino alla fine dei loro giorni, celebrando la loro infinita vitalità.


La morale, in sostanza, è non avere legami: tutti e cinque i protagonisti non vogliono legarsi a nessuno se non tra loro stessi. Le mogli non servono: sono meglio le amanti, perché le donne, secondo una visione del tutto misogina, sono utili soltanto per soddisfare degli impulsi sessuali perenni, al di là dell’età. Il matrimonio, insomma, è qualcosa di troppo serio, con delle regole a cui non si può e non si vuole sottostare. Era proprio per questo che Mascetti, nel finale del secondo film, sottolineava di avere un solo scopo, vale a dire sentirsi libero. E l’amicizia diventa, per tutti loro, sinonimo di libertà. Che è la libertà di burlarsi l’uno dell’altro, di perdonarsi nonostante le “supercàzzole”, di fare ciò che si vuole. Una complicità che non ha eguali, di cui le donne non possono – non devono – essere rese partecipi.


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Eccezione è Melandri, l’unico che cerca di nutrire dei sentimenti sinceri ma ogni volta c’è qualcosa che ostacola il compimento del suo amore: nel primo film si innamora di Donatella, la moglie di Sassaroli; poi, nel secondo, riesce a sposarsi (dopo essersi perfino battezzato) ma proprio quando la sua sposa sta per concedersi, a causa dello straripamento dell’Arno tutto va in fumo (preferisce salvare i suoi quadri e i suoi incunaboli!); e infine si innamora, nel terzo film, di una donna che, a un minimo tentativo di seduzione, cede al primo che capita (in quel caso Mascetti). Da qui deriva la dipendenza totale di Melandri al gruppo di amici e l’impossibilità di chiudere il cerchio e di arrivare, dopo fasi costanti che prevedono l’innamoramento, il desiderio e la seduzione, anche al possesso della donna. L’amore non può quindi coesistere non tanto con l’amicizia ma con quegli amici, che avranno sempre la priorità. Accade la stesa cosa a Necchi quando sua moglie Carmen lascia la casa di riposo in seguito all’invito, da parte del direttore – visti i continui comportamenti poco consoni alle regole da parte di Mascetti, Melandri e Necchi – ad andarsene. Anche Necchi preferisce gli amici: è quindi come Melandri, pur avendo in parte compiuto il ciclo amoroso (perlomeno si è sposato).


L’unico profondo legame è insomma tra gli amici: un legame che li unirà fino alla morte. Non c’è donna che tenga, ma loro sono inseparabili. Per l’amicizia rinunciano a ogni cosa. In cambio ottengono una fedeltà molto più sicura di quella coniugale, capace di soddisfarli fino in fondo, fino a farli sentire incredibilmente vivi.

Fantozzi, ritorno al cinema in versione restaurata

Un personaggio creato per placare il senso di inferiorità degli italiani. È così che potremmo definire il ragionier Ugo Fantozzi. Perlomeno così ne ha parlato Paolo Villaggio, suo creatore e interprete: «Prototipo del tapino, quintessenza della nullità.» Una nullità che, dopo una decina di film, capaci di registrare i mutamenti sociali della società italiana dagli anni ’70 all’alba del Duemila, ritornerà al cinema con le sue prime due disavventure: Fantozzi (dal 26 al 28 ottobre) e Il secondo tragico Fantozzi (dal 2 al 4 novembre), film diretti da Luciano Salce e usciti rispettivamente nel 1975 e nel 1976, restaurati per l’occasione in 2K. Così, tutti coloro i quali vorranno dimenticare le proprie disgrazie, potranno farlo ridendo per l’ennesima volta di quelle del popolare ragioniere dell’Ufficio Sinistri, famoso per la celeberrima nuvola fantozziana e per le sue espressioni tipiche («Com’è umano, lei!») ma anche per il servilismo verso i superiori dai nomi lunghissimi (come la Contessa Serbelloni Mazzanti Vien Dal Mare o il Megadirettore Galattico Duca Conte Balabam).


Oltre alla frequente sottomissione, non soltanto di Fantozzi ma di tutti i suoi colleghi, una peculiarità della serie è però l’errato uso del congiuntivo, come si evince da questo dialogo:


Filini: «Allora ragioniere, che fa, batti?»

Fantozzi: «Ma come, ragioniere, mi dà del tu?»

Filini: «No, intendevo batti lei».

Fantozzi: «Ah… congiuntivo…»


Sfortunato, vigliacco, disastroso in qualunque iniziativa prenda (anche se il più delle volte le iniziative le prende il ragionier Filini, e si tratterà di disastri quasi sicuramente), Fantozzi nasce grazie a due libri di Paolo Villaggio, ispirato da un collega dell’attore genovese all’Italsider. Villaggio pubblicava le sue storie sull’Europeo, per poi raccoglierle nel libro edito da Rusconi nel 1971. Qualche anno dopo il successo del libro, si iniziò a progettare un film. Tra i candidati a vestire i panni di Fantozzi c’erano Ugo Tognazzi e Renato Pozzetto. La scelta di affidare il personaggio al suo stesso creatore (che immancabilmente ne ha assunto la maschera, tanto da portare al cinema anche i suoi cloni, per esempio Fracchia) si è rivelata azzeccatissima soprattutto nei primi due film, diretti da Luciano Salce, i migliori di una saga che, con il passare degli anni e l’invecchiamento degli attori, non ha fatto altro che svuotarsi di quella verve comica che la caratterizzava, per diventare soltanto la ripetizione ormai fiacca e noiosa delle stesse gag.


C’è però un altro aspetto che non va trascurato, ovvero l’aspetto tragicomico: perché Fantozzi non riesce in nessuna impresa e tutto quello che cercherà di fare, per un motivo spiegato nella sua stessa natura (essere una «nullità», o come lo chiamerebbero i suoi superiori, una «merdaccia»), non andrà mai a buon fine. Fantozzi è un mediocre, uno che abbassa la testa e che accetta di non avere amici al di fuori dell’azienda, di avere una moglie bruttina ma devota, che lo stima ma non lo ama; di avere una figlia ancora più brutta (non a caso interpretata da un uomo) e di essersi – inspiegabilmente – innamorato di una collega tutt’altro che bella. Dunque tutto ciò che fa è negativo e tutte le sue scelte sono terrificanti e catastrofiche.


Ma c’è un altro Fantozzi, nascosto dietro al ragioniere perennemente sottomesso e capace di farsi “crocifiggere in sala mensa”. L’altro Fantozzi è quello che si ribella contro lo snobismo intellettuale dei potenti, per esempio il professor Guidobaldo Maria Riccardelli, che l’aveva assunto soltanto perché Fantozzi si era dichiarato un grande amante del cinema tedesco delle origini, e che propone ai dipendenti, nel cineforum aziendale, La corazzata Potëmkin (trasformata in Corazzata Kotemkin) solo per ostentare un gusto cinematografico superiore (in realtà, però, il film di Sergej M. Ėjzenštejn, trasformato in Serghei M. Einstein, durava circa 75 minuti, non tre ore come si dice nel Secondo tragico Fantozzi). Senza trascurare che quegli stessi dipendenti preferiranno, subito dopo la ribellione di Fantozzi, vedere in successione Giovannona Coscialunga, L’Esorciccio e La polizia s’incazza.


Il grido di protesta di Fantozzi («Per me La Corazzata Kotemkin è una cagata pazzesca!») è quindi l’urlo disperato di chi è costretto a tacere per non essere troppo anticonformista e non sentirsi una voce fuori dal coro. È una ribellione che esprime una frustrazione collettiva dettata dalla paura e dal servilismo, poiché tutti gli impiegati detestano quel film ma nessuno ha il coraggio di parlare per non pagarne le conseguenze; e così si preferiscono i falsi elogi, quando il professor Riccardelli apre il dibattito, dopo aver fatto inginocchiare Fantozzi sui ceci perché l’ha scoperto mentre si era addormentato durante la proiezione. E allora: «Quando vedo quei dettagli degli stivali, io vado in estasi» dice Filini, per poi esagerare, chiedendo addirittura di vederlo daccapo. «Questa sera il montaggio analogico mi ha completamente sconvolto» aggiunge il Geometra Calboni. La verità è l’esatto opposto. Perché nessuno avrebbe avuto il coraggio di dirlo; nessuno avrebbe contraddetto il professor Riccardelli. Ma per Fantozzi la delusione per non essersi goduto in pace la partita Italia-Inghilterra era stata troppa. Perfino il cronista lo aveva sbeffeggiato quando, dopo la chiamata di Filini, era stato costretto ad abbandonare la poltrona: «Scusate l’emozione, amici che state comodamente seduti davanti ai teleschermi, nessuno escluso, ma sono centosettant’anni che non vedevo una partenza così folgorante degli Azzurri!» Tutto era perfetto, perfino il «programma formidabile» di Fantozzi: «Calze, mutande, vestaglione in flanella, tavolinetto di fronte al televisore, frittatona di cipolle per la quale andava pazzo, famigliare di Peroni gelata, tifo indiavolato e rutto libero.»


«Lui è ossessionato dal potere», ha detto Villaggio. «Ha paura. È un uomo che sa di essere inutile. Se lui muore un giorno o si ammala in ufficio, nella Megaditta non se ne accorge nessuno. Essendo ossessionato dall’idea di essere del tutto inutile, cerca disperatamente il servilismo, e allora c’è la stagione di Natale, dove quasi due mesi prima ci si comincia a piazzare nei punti strategici quando passano i potentissimi, a cui dicevano: “A lei e alla sua famiglia i più servili auguri di buon Natale”. Quel “servili” era la chiave per capire com’erano disperatamente sudditi. Mai Fantozzi si permette di contraddire un potente. Anche adesso, detto francamente: c’è la tendenza alla gerarchia.» La crescita gerarchica è direttamente proporzionale alle umiliazioni subite. Lo fa capire Filini a pranzo, in mensa, riferendosi alle partite di biliardo del Feroce Cavalier Catellani, eletto «Gran Maestro dell’Ufficio Raccomandazioni e Promozioni»: «Il ragionier Vitti: sette partite perdute: due scatti.»


Quando Fantozzi ne parla con Pina, è lei stessa a chiedergli di perdere qualche partita. «Mai», risponde Fantozzi, «piuttosto preferisco fare la fame, mangiare cipolla… a parte che non ho mai toccato una stecca di biliardo in vita mia. Ho la mia dignità, io…» Coraggioso. Ma torna se stesso poco dopo, quando aggiunge: «E poi, non oserei più guardarti in facc…», e vedendo Pina, nel letto, si rende conto di quanto sia brutta. Di conseguenza, che è costretto a perdere per poter crescere di livello nella Megaditta. La scena successiva smentisce l’effimera ostentazione della propria dignità da parte di Fantozzi, alle prese con un maestro di biliardo, proiezione della severità scolastica nella prima metà del Novecento, con punizioni esemplari come la stecca sui dorsi delle mani. Per non «confessare alla moglie la vergognosa verità», Fantozzi le fa credere di avere una relazione extraconiugale. Ma la sua inettitudine gli impedisce di fare anche questo: così una notte Pina lo aspetta sveglia a casa, e lui, togliendosi la giacca, rivela il corpetto da biliardo. Scoperto in pieno. Disperato, si butta sul letto, ma non può sfogare la propria disperazione neanche così, perché Pina ha già «separato i letti».


Arriva la sera della partita con il Cavalier Catellani. Fantozzi, come al solito, subisce, ma «al trentottesimo “coglionazzo” e a 49-2 di punteggio, Fantozzi incontrò di nuovo lo sguardo di sua moglie» e così, spinto da un moto di orgoglio inedito, osa dire: «Mi perdoni un attimo… vorrei fare un tiro io adesso…» È lo stesso Fantozzi che grida che La corazzata Kotemkin è «una cagata pazzesca». È il Fantozzi che si prende un briciolo di rivincita in una vita perennemente mediocre. E se lì erano seguiti ben 92 minuti di applausi, qui segue non un trionfo, ma una fuga con rapimento della madre del Cavalier Catellani, alla cui statua tutti gli impiegati dovevano inchinarsi e su cui puntualmente Fantozzi urtava. «Fondamentalmente», dice Villaggio, «lui è un brav’uomo. In casa è un tirannosauro.»
È un «tirannosauro» perché dominare la famiglia è la sola rivalsa che gli è concessa, non essendo in grado di dominare la società ed essendo destinato all’infelicità. È per questo che è un personaggio tragico.


«Lui ha liberato gli italiani dal timore di essere isolati in un certo tipo di incapacità a vivere, a essere felici» continua Villaggio. «Nella cultura consumistica la settimana bianca, le coppe, le spiagge infernali, i prezzi osceni, la moglie terribile: in quel tipo di sfortuna e di incapacità di essere felici, secondo i dettami della cultura consumistica – che diceva: “Consuma e sei felice. Fai delle vacanze e sarai felice” – lui faceva le vacanze, andava alla settimana bianca, andava al mare e tornava massacrato, ma massacrato assolutamente infelice. Gli italiani vivevano la stessa tragedia e avevano paura di essere anomali, poi lentamente un terapeuta gli ha detto: “No, guarda, non sei un fenomeno isolato: tutti quelli che subiscono quel tipo di cultura sono destinati a essere infelici”.» Bisogna quindi leggere tra le righe un messaggio di netta opposizione alla cultura consumistica, a cui Fantozzi si adegua, senza però trovare la felicità che disperatamente ricerca.


In tutta la saga, presentata come serie di film comici ma in realtà piena di pessimismo, non c’è un solo personaggio in grado di cambiare le cose, capace di dare una svolta e di interrompere i soprusi del potere e l’avversità del destino. È incapace di farlo Pina, servile quanto Fantozzi, tanto da rispondere «Obbediamo» alla chiamata improvvisa di Filini proprio quando sta per incominciare Italia-Inghilterra. È devota e affezionata a Ugo ma non lo sprona mai a reagire per i torti subiti. Tuttavia, Pina è l’unica che tenterà di ribellarsi alla piatta vita da casalinga a cui il matrimonio con Fantozzi l’ha destinata, e soprattutto quando sarà interpretata da Milena Vukotic (nei film di Salce, Pina era Liù Bosisio), la sua personalità cercherà di emergere, anche se l’affetto coniugale si trasforma in pena, intesa più come vergogna che compassione.


Il ragionier Filini si annovera tra i dipendenti inferiori, proprio come Fantozzi, per cui, a parte organizzare gite, partite di calcetto tra scapoli e ammogliati (in cui però lui farà l’arbitro), non ha nessuna possibilità di emergere, condannato, insomma, a non scalare la gerarchia aziendale. Questo lo fa invece Calboni, che si sposerà con la perenne fiamma di Fantozzi, la signorina Silvani. Calboni è opportunista e arrogante, uno che può schiacciare Fantozzi in qualunque momento. Dall’altro lato, la signorina Silvani sfrutta l’infatuazione di Fantozzi per chiedergli favori o per scaricare su di lui il proprio lavoro. Considerati questi personaggi e la loro natura, nel momento in cui Fantozzi cerca di risollevare le proprie sorti, qualcosa puntualmente tende ad andare male. I suoi momenti di gloria sono pochi e la ribellione al potere lo fa apparire più sicuro di sé (perfino la signorina Silvani, dopo la celebre frase sulla Corazzata Kotemkin, gli dice: «Che bravo, Fantozzi!»). Saltuari momenti di gioia in una vita del tutto infelice: in una vita condannata alla sofferenza da quella malattia incurabile che si chiama mediocrità (o inettitudine) e che è il male tipico dell’italiano-medio, timoroso di uscire da una condizione che non lo soddisferà mai ma che lo farà sentire sicuro di essere ancora se stesso.

Nelle sale con “The Martian”, Ridley Scott prepara il sequel di “Prometheus”

Nonostante la sua versatilità, Ridley Scott si è fatto apprezzare soprattutto come regista di film di fantascienza e di film storici dai toni epici. I suoi primi due film di grande successo sono stati Alien (1979) e Blade Runner (1982), mentre quando ha provato a cimentarsi con argomenti storici, a parte Il Gladiatore (2000), non gli è andata benissimo, se si pensa anche all’ultimo, Exodus – Dei e Re (2014), che negli Stati Uniti si è rivelato un flop di incassi, non coprendo nemmeno i costi di produzione (per non parlare, poi, della feroce censura in Egitto e in Marocco per le varie incongruenze storiche e per la scelta – discutibilissima e legata alle politiche di marketing tipicamente hollywoodiane – di far interpretare dei personaggi biblici a degli attori americani, dai tratti occidentali).


Ad ogni modo, il genere in cui il regista ha dimostrato di trovarsi più a suo agio è stata la fantascienza, e il fatto che il 2 ottobre esca nelle sale americane The Martian – Il sopravvissuto (in Italia uscirà il 1° ottobre) e che in cantiere ci sia il sequel di Prometheus (2012) non sorprende affatto. The Martian, tratto dal romanzo di Andy Weir L’uomo di Marte, è una versione futuristica di Robinson Crusoe in cui l’isola deserta è sostituita con il Pianeta Rosso, uno dei luoghi più ricorrenti della fantascienza, tanto da ispirare innumerevoli scrittori e sceneggiatori, affascinati dal mistero che si cela dietro al pianeta del sistema solare più simile e più vicino alla Terra. Uno dei primi a lasciarsi incantare da Marte fu H.G. Wells nel romanzo La guerra dei mondi (1897), da cui sono stati tratti due film, l’ultimo dei quali di Steven Spielberg (2005), in cui i marziani erano esseri superiori ai terrestri dal punto di vista tecnologico ma incapaci di difendersi dai batteri atmosferici. Anche Frank Herbert, nel suo ciclo di Dune (da cui è stato tratto l’omonimo film di David Lynch, basato sul primo romanzo su una serie di sei libri), si è probabilmente ispirato a Marte, visto che il pianeta Arrakis è una vasta landa desertica.


Ossessionato da Marte era Doug Quaid in Atto di forza (1990). Quaid addirittura sogna di visitarlo e per questo si rivolge a una società che si occupa di viaggi mentali, desiderando ottenere la memoria di un agente segreto. Atto di forza, basato su un racconto di Philip K. Dick, ha avuto un remake, Total Recall (2012), non all’altezza però del film di Paul Verhoeven, già buono di per sé. Diversa è stata invece l’interpretazione di Tim Burton, che in Mars Attacks! (1996) ha voluto parodiare i cliché dei film di fantascienza sull’invasione aliena, aggiungendoci quell’umorismo nero tipico dei suoi film, mentre in Mission to Mars (2000) di Brian De Palma, il pianeta rosso diventa la meta di una spedizione di soccorso, che si trova a far fronte all’inspiegabile mistero del volto – o di quello che sembra un volto – che compare sulla superficie marziana.


Un anno dopo Mission to Mars, ecco un altro maestro del cinema che propone la sua interpretazione di Marte: è John Carpenter con il criticatissimo Fantasmi da Marte (2001), con la solita idea della colonizzazione da parte dei terrestri. Un’idea, questa, recuperata da alcuni classici di fantascienza degli anni Cinquanta: ad esempio Cronache Marziane (1950) di Ray Bradbury, a cui si devono meriti letterari che superano abbondantemente i confini della narrativa di genere (si pensi a Fahreneit 451), visto che si sottolinea la somiglianza tra la colonizzazione possibile di Marte e quella del Nuovo Mondo, con critiche nemmeno troppo celate sul comportamento dei colonizzatori nei confronti dei nativi marziani. Altro autore apprezzatissimo è stato Arthur Clarke, che nel romanzo Le sabbie di Marte (1951) ipotizza addirittura una convivenza tra le due razze.


Non poteva mancare Isaac Asimov, autore di numerosi cicli di fantascienza, ma anche di una serie per ragazzi che ha per protagonista Lucky Starr: e il primo romanzo di questa serie, Lucky Starr, il vagabondo dello spazio (1952), è ambientato proprio su Marte. Un decennio dopo, anche Robert A. Heinlein ambienterà su Marte quello che è considerato il suo capolavoro, Straniero in terra straniera (1961), con cui si aggiudicò il Premio Hugo. In questo caso, però, si tratta di un viaggio opposto, ovvero da Marte verso la Terra. In particolare, è il ritorno a casa di un uomo allevato dai marziani, che deve pian piano reintegrarsi tra i terrestri. Infine, tornando ai film ambientati su Marte, l’ultimo in ordine di apparizione è stato il John Carter (2012) targato Disney, basato però sul romanzo di Edgar R. Burroughs Sotto le lune di Marte (1916).


È evidente, quindi, che il tema sia tutt’altro che nuovo e che letteratura e cinema (ma anche i fumetti, ad esempio Nathan Never) vi abbiano attinto in abbondanza, saccheggiando una buona parte delle soluzioni narrative che un contesto simile avrebbe potuto proporre. Quanto a Ridley Scott, il regista non ha dimenticato che gran parte del suo successo lo deve – come si è detto – ad Alien, saga che ha coinvolto registi del calibro di James Cameron (Aliens – Scontro finale), David Fincher (Alien 3) e Jean-Pierre Jeunet (Alien – La clonazione) e che ha portato a una contaminazione (o crossover) con un’altra serie di enorme successo come Predator. In parallelo al sequel di Prometheus, che si intitolerà Alien: Paradise Lost, e che sarà diretto dallo stesso Ridley Scott, si svilupperà Alien 5, diretto stavolta da Neill Blomkamp (District 9, Elysium, Humandroid), di cui il regista del Gladiatore sarà produttore e supervisore. Più che Alien 5, la numerazione effettiva sarebbe 2.5, visto che si colloca, a livello cronologico, tra Aliens – Scontro finale e Alien 3. Nel film di Blomkamp tornerebbe il Caporale Dwayne Hicks, ma ci sarà spazio anche per la protagonista assoluta della saga, Ellen Ripley, interpretata, come sempre, da Sigourney Weaver.


Ridley Scott pensa, invece, a quello che è accaduto prima del suo Alien. Il regista ha ammesso che tra Prometheus e Alien non c’era alcun legame, nonostante la distanza temporale, nella finzione narrativa, sia di una trentina d’anni circa (Prometheus è ambientato nel 2091; Ripley incontra per la prima volta gli xenomorfi nel 2122). Nemmeno nel cosiddetto Prometheus 2 ci saranno collegamenti diretti con Alien, ma bisognerà attendere almeno il terzo o il quarto sequel prima di poter tornare alla franchise del film del 1979. Il titolo, insomma, potrebbe trarre in inganno. Chiaro che non si tratti di una casualità: il richiamo al poema di John Milton permette di dare già una prima chiave di lettura; o meglio, la questione alla base del film l’ha proposta Michael Ellenberg, produttore esecutivo del primo Prometheus: «Cosa accadrebbe se si potesse incontrare Dio, ma questi si rivelasse essere il diavolo?».


Nessuna risposta, perlomeno non prima del 2017: Alien: Paradise Lost dovrebbe entrare in produzione nella primavera del 2016. L’obiettivo dei sequel, secondo Ridley Scott, sarà spiegare come e perché sono stati creati gli xenomorfi. «La domanda più semplice era: “Chi diavolo c’era nella nave trovata in Alien? Chi c’era al suo posto e perché portava quel carico? E dove andava?”», ha detto Ridley Scott. «Ci ho pensato per un po’ ma ero troppo impegnato e non avevo davvero nulla in mente e così, quando ho finalmente archiviato Alien vs Predator ho pensato: “Sai una cosa? Questa sì che è una buona idea”. Più ne parlavo e più pensavo: “Dannazione…” Il film [“Prometheus 2”] stavo per chiamarlo Alien: Paradise Lost perché ho pensato che avesse una connotazione inquietante l’idea, perché prepara la nostra concezione e l’idea di Paradiso, qualcosa suggerito dalla religione, e la religione dice “Dio” e poi Dio, che ci ha creati, e questa è una cosa sicura».


«Se c’è il Paradiso», ha aggiunto Scott, «non può essere quello che si pensi che sia. Il Paradiso ha qualcosa che lo rende estremamente sinistro e inquietante.» La sceneggiatura di Alien: Paradise Lost sarà scritta da Jack Paglen e Michael Green. Nel cast, come in Prometheus, Noomi Rapace e Michael Fassbender.



FONTE: MOVIEPILOT

TIFF, Tokyo International Film Festival: dal 22 al 31 ottobre 2015 la 28ma edizione

Manca ancora un mese alla 28ma edizione del Tokyo International Film Festival (TIFF), una delle rassegne più importanti sul cinema asiatico.


LA SCORSA EDIZIONE – Nel 2014, ad aggiudicarsi il premio più importante, il Tokyo Sakura Gran Prix, era stato Heaven knows what, film drammatico di Josh e Benny Safdie sulla vita di strada dei giovani drogati di New York, tratto dal libro di Arielle Holmes Mad love in New York City. Un film iperrealistico, con uno stile quasi da documentario, sull’amore viscerale che lega Harley, interpretata dalla stessa Arielle Holmes, e Ilya, dipendenti non soltanto l’una dall’altro ma anche dall’uso dell’eroina.


GLI SPECIALI – Per quanto riguarda la 28ma edizione, in programma dal 22 al 31 ottobre 2015, nuova sezione sarà “Japan Now”, che intende valorizzare la cultura e la poliedricità del Giappone. A inaugurarla, il regista Masato Harada, che nel corso della sua lunga carriera è riuscito a cimentarsi tanto nelle tematiche sociali quanto nel puro intrattenimento. Harada era stato premiato al Blue Ribbon Awards con il suo Climber’s High (2008), basato sullo schianto di un aereo della Japan Airlines contro il monte Takamagahara, una tragedia che provocò la morte di oltre cinquecento passeggeri. Tra gli altri film del regista, che saranno proiettati al TIFF con i sottotitoli in inglese, ci saranno anche Kamikaze Taxi (1994), Chronicle of My Mother (2011), Kakekomi (2015) e The Emperor in August (2015).


Secondo pezzo forte, per tutti gli amanti del brivido, sarà una sezione intitolata “Masters of J-Horror”, dedicata a maestri giapponesi dell’horror come Hideo Nakata (regista di Dark Water e The Ring, da cui è tratto il più noto remake hollywoodiano), Takashi Shimizu (noto per Ju-on: Rancore e The Grudge, ma anche per il recente remake in live action di Kiki – Consegne a domicilio, famoso per la versione animata dello Studio Ghibli di Miyazaki e Takahata) e Kiyoshi Kurosawa (Journey To the Shore, Tokyo Sonata ma soprattutto Cure, capace di abbattere i confini di genere e fondamentale per la crescita del J-horror): i loro film saranno proiettati per tutta la notte del 28 ottobre.


Il TIFF, che nel 2014 aveva dedicato una rassegna sulla saga di Evangelion, quest’anno omaggerà il mondo di Gundam, franchise nato nel 1979 grazie al regista Yoshiyuki Tomino e prodotto dalla casa giapponese Sunrise, con uno speciale intitolato proprio “The World of Gundam”. Un evento imperdibile per tutti gli appassionati delle saghe sui robot giganti: in totale, saranno ben 26 i film in programmazione, comprendenti cortometraggi, film tv e serie animate, da quella classica, la Universal Century del 1979, fino a quelle più recenti, Gundam SEED e Gundam 00. In Giappone, Gundam è poco meno di una divinità, tanto da essere il primo anime ad aver avuto una statua a grandezza naturale di circa 18 metri, raffigurante il capostipite della saga. Lo speciale “The World of Gundam” sarà affiancato dalla proiezione del film di Akira Kurosawa Quelli che camminavano sulla coda della tigre, adattamento di una commedia kabuki che la censura giapponese accusò di aver deriso la tradizione della forma artistica. Nel secondo dopoguerra, anche le autorità americane vietarono la maggior parte delle opere di kabuki, tra cui proprio il film di Kurosawa, credendo che avrebbe promosso i valori feudali.


APERTURA E CHIUSURA – Ad aprire la nuova edizione della kermesse nipponica sarà però l’ultimo film di Robert Zemeckis, The Walk, tratto da un libro di Philippe Petit, il funambolista che il 7 agosto 1974 camminò su un filo tra le Torri Gemelle del World Trade Center. Risultato di questa folle impresa furono 45 minuti di puro brivido a oltre 400 metri di altezza. Non è però la prima volta che l’esperienza di Petit si trasforma in un film: nel 1984 era uscito il cortometraggio di Sandi Sissel, High Wire, anche se la notorietà di Petit si deve soprattutto al film di James Marsh, Man on Wire – Un uomo tra le torri, con cui nel 2009 il regista britannico si aggiudicò l’Oscar per il Miglior documentario. The Walk, distribuito dalla Warner Bros e in uscita il prossimo ottobre, sarà interpretato da Joseph Gordon-Levitt (Inception, Il cavaliere oscuro – Il Ritorno), fortemente voluto da Zemeckis. L’attore sarà affiancato da Ben Kingsley (Shinder’s List, Shutter Island, Hugo Cabret, Ender’s Game, Exodus – Dei e Re), Charlotte Le Bon (Asterix & Obelix al servizio di Sua Maestà) e James Badge Dale (The Departed, World War Z). A chiudere la rassegna ci sarà invece The Terminal, un film drammatico di Tetsuo Shinohara sull’annullamento delle emozioni e sull’importanza dei sentimenti.


I FILM IN CONCORSO – Più di 1400 titoli presentati, ma finora tre sono quelli in concorso. Il primo è Foujita di Kohei Oguri, film biografico sul pittore giapponese che visse nella Parigi degli anni Venti, famoso per i suoi nudi femminili e amico di Picasso e Modigliani. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, Foujita coglierà l’occasione per un ritorno alle origini, nel suo amato Giappone, in un piccolo paese del nord, accanto a sua moglie. Un ritorno che gli permetterà di riscoprire il fascino della sua terra.
Secondo film selezionato è Sayonara di Koji Fukada. Tutt’altra tematica: lo scenario è un Giappone post-apocalittico contaminato dalle radiazioni. Il governo ordina ai residenti di abbandonare il paese, ma una donna e il suo androide saranno lasciati in balia della solitudine e di una morte che aleggia sempre nell’aria.
Terzo, e per ora ultimo, film in gara è The Inerasable di Yoshihiro Nakamura, in cui uno scrittore indaga su una serie di misteriosi suicidi che lo condurranno verso una verità sconcertante.


I SUCCESSI INTERNAZIONALI – All’interno della sezione “World Cinema”, e fresco del successo ottenuto alla 72ma Mostra del Cinema di Venezia, troveremo invece Everest di Baltasar Kormákur, che ha per oggetto un’altra impresa, dopo quella di Petit nel film di Zemeckis, vale a dire la scalata della vetta più alta del mondo da parte di Rob Hall (Josh Brolin) e della sua Adventure Consultants, che il 10 maggio 1996 guidarono un gruppo di dilettanti appassionati di alpinismo sul monte Everest.
Sempre ispirato a una storia vera, e in particolare a un’icona intramontabile del cinema, è Life di Anton Corbijn, film biografico sull’amicizia tra James Dean (Dane DeHann), simbolo del ribellismo giovanile anni ‘50 e reduce dalle riprese della Valle dell’Eden, e il paparazzo Dennis Stock (Robert Pattinson), che sogna di pubblicare una sua foto su una copertina di Life.
Presidente di giuria del TIFF 2015 sarà Bryan Singer (X-Men, Operazione Valchiria, Superman Returns, Il Cacciatore di Giganti).