Pietro Germi aveva iniziato a lavorare ad Amici miei dopo il 1972. Ma a causa dell’aggravarsi di una malattia di cui soffriva da tempo, la regia fu affidata a Mario Monicelli, uno dei massimi esponenti della commedia all’italiana insieme a Dino Risi e a Luigi Comencini. Monicelli aveva già diretto pietre miliari del cinema italiano come I soliti ignoti (1958), La grande guerra (1959) e L’armata Brancaleone (1966). Il film uscì nel 1975, poco dopo la morte di Germi, a cui i titoli di testa sono dedicati: «Un film di Pietro Germi».
Il cuore della vicenda è quella toscana popolare e goliardica che sarà rivisitata negli anni Novanta da Pieraccioni, mentre l’emblema stesso della fiorentinità sarà quel Benigni capace di trattare argomenti seri (l’olocausto, la mafia, la guerra ecc.) in maniera leggera. In questo caso, l’unico grande argomento è l’amicizia, o meglio il valore dell’amicizia, intesa come strumento per evadere da una quotidianità grigia, squallida e insoddisfacente, per tuffarsi in avventure (o “zingarate”) che hanno la freschezza e il sapore della gioventù. Eppure i cinque protagonisti sono tutt’altro che giovani. Sono ormai cinquantenni ma si conoscono da una vita: compagni di scuola, di militare e di vagabondaggi, sono pronti a farsi beffe l’uno dell’altro e a tornare amici subito dopo. Per loro l’amicizia è l’unica vera cosa che conta.
Lo sa bene Raffaello Mascetti (Ugo Tognazzi), un ricco – grazie a sua moglie – capace di sperperare tutto quello che possedeva, per ritrovarsi a vivere in uno scantinato (pagato dai suoi amici), e a dover badare a un’amante molto più giovane di lui, Titti, di cui è gelosissimo e che ha tendenze bisessuali. Non è molto diversa la situazione degli altri componenti della banda, a incominciare dall’architetto Melandri (Gastone Moschin), sbandato proprio come Mascetti. Melandri vuole però una donna e la trova in Donatella, moglie di Alfeo Sassaroli (Adolfo Celi), primario della clinica presso cui Mascetti, Melandri e gli altri due amici, Perozzi (Philippe Noiret) e Necchi (Duilio Del Prete), erano stati ricoverati dopo una delle loro tante zingarate. Melandri riesce a conquistare Donatella grazie all’aiuto dei suoi amici (che parlano con lei al telefono facendole credere che a parlare fosse lo stesso Melandri) ma c’è una trappola: Sassaroli accetta che Donatella si trasferisca da Melandri, ma pretende che con lei vadano anche il cane Birillo, le due figlie e la governante tedesca. I due si accordano per visite bisettimanali di Sassaroli a moglie e figlie, ma il dottore non risparmia critiche, anche pesanti, sulla mediocrità di Melandri, il che è appoggiato dagli altri tre amici, che vogliono vendicarsi per la fuga repentina di Melandri dalla clinica e per aver nascosto l’esito positivo dell’incontro con Donatella.
Allo stesso Melandri si deve una frase che riassume l’intero senso del film: «Ragazzi, come si sta bene fra noi, fra uomini! Ma perché non siamo nati tutti finocchi?». Le donne fungono solo da cornice, così sono gli uomini a innescare, con le loro “supercàzzole”, gli unici legami profondi. Personaggi che si sentono soli al di fuori della loro cerchia, di una banda che li unisce come fratelli e che li fa sentire davvero a casa. Perché essere accettati da una famiglia è il loro reale problema. Lo è per esempio per il giornalista Giorgio Perozzi, che ha un rapporto ostile sia con sua moglie, da cui è separato, sia con suo figlio Luciano, stufo di doverlo rimproverare per i suoi comportamenti immaturi. Anche Perozzi, come Mascetti e Melandri, trova nel sesso una parziale compensazione del vuoto che lo circonda (ogni tanto accetta di incontrare delle prostitute). È proprio da Perozzi che ha inizio il racconto del film: un nuovo giorno – l’alba – e lui che non ha nessuna voglia di tornare a casa. Vuole ritrovare i suoi amici, per ridere, scherzare e godersi la vita nonostante sia cosciente di non poterlo fare, ma ha voglia di sorridere e di dimenticare.
Nel secondo capitolo, Amici Miei – Atto II (1982), si scopre qualcosa di più sulla vita di Perozzi, che gli amici sono andati a trovare al cimitero. Così si era chiuso il primo film: con la morte di Perozzi, che nessuno riteneva vera, segno che a furia di scherzare si rischia di fare sul serio. In questo flashback, quindi, si svela il motivo del rancore di Luciano verso suo padre: perché Perozzi era stato lasciato da sua moglie e come si era comportato con il bambino in seguito; i tentativi di sbolognarlo a Mascetti, che glielo restituisce dopo nemmeno un giorno; la geniale trovata per convincere sua moglie Laura a riprendersi il bambino: Laura aveva lanciato invettive contro l’amante di Perozzi, Anita, la moglie del fornaio. In seguito a un incidente in cui muoiono sette persone, Perozzi fa credere a sua moglie che anche Anita fosse morta, al fine di far germogliare dentro di lei i sensi di colpa e di dimostrarle con Anita è tutto finito. Tattica perfetta per poterle restituire quel bacchettone di suo figlio.
Il secondo episodio, tuttavia, rispetto al primo è molto più cinico: dal lucido e disincantato ritratto di Luciano sul proprio diario nelle poche ore in cui si era ritrovato a vivere nello scantinato di Mascetti, presentato come un monolocale di lusso; momenti drammatici che si ricollegano a eventi storici locali, come l’alluvione che colpì Firenze nel 1966; o la stessa situazione familiare di Mascetti, con sua moglie Alice che di nuovo (come nel primo film) tenta il suicidio e impazzisce, mentre sua figlia è incinta di uno sconosciuto e per questo Mascetti vorrebbe farla abortire; o lo scherzo del rigatino (l’abbigliamento tipico dei facchini degli alberghi, utile per una fuga invisibile), seduzione e abbandono dell’aspirante attrice di turno, in questo caso una contorsionista, che finirà, dovendo esibire le proprie abilità a Sassaroli, per essere rinchiusa in una valigia. Tutto questo fino al drammatico finale, in cui Mascetti, in seguito a una trombosi, si ritrova su una sedia a rotelle. È agli amici che esprime il proprio rammarico per non poter più fuggire dalla trappola della famiglia «Guardatela come è contenta» dice riferendosi a sua moglie. «Finalmente sono tutto suo. Mi possiede, non posso più scappare. Mi lava, mi pettina, mi mette il borotalco. Vogliono per forza che mi senta utile. Ma a me non m’importa di essere utile. Sono sempre stato inutile. […] Per favore, non mi venite a trovare più. Quando vi vedo, penso, ricordo, vi invidio. Facciamo come si faceva per il povero Perozzi: fuori uno. Così fate lo stesso col povero Mascetti: fuori due. Tanto non c’è più scopo, non mi diverto più.»
Amici miei – Atto II si era chiuso con una gara di velocità tra paraplegici a cui aveva partecipato il povero Mascetti dopo l’attacco di trombosi. Il terzo episodio, Amici miei – Atto III (1985), conferma il cast dei primi due film ma vede un cambio alla regia, affidata a Nanni Loy. L’azione si sposta dalla campagna a una casa di riposo, dove Mascetti è stato ricoverato. Dopo la morte di Alice, il suo umore è migliorato, così da tornare il “bischero” di una volta. Necchi, Melandri e Sassaroli lo vanno a trovare di frequente e non mancano, come al solito, gli scherzi sciocchi che caratterizzano la banda. Per esempio far credere agli altri anziani di essere sintonizzati su un canale rivolto alla terza età, mentre sono loro stessi che, attraverso il cavo di una videocamera, trasmettono contenuti altamente volgari e irriverenti.
Melandri, dopo aver raggiunto Mascetti presso la casa di riposo, riesce a fidanzarsi ma non a sposarsi. La nipote della futura sposa avverte Mascetti che quella che sembra una gentildonna è in realtà una poco di buono. Per salvare Melandri da un matrimonio che potrebbe rivelarsi pieno di tradimenti, Mascetti seduce la futura sposa e filma il momento del loro incontro, dimostrando così a Melandri le tendenze adulterine di colei che vuole portare all’altare. Melandri tronca senza pensarci due volte e ringrazia Mascetti: segno, per l’ennesima volta, che il matrimonio, per la banda di Amici miei, non è qualcosa di felice ma qualcosa di assolutamente infelice (non a caso Mascetti migliora dopo la morte di sua moglie) e da cui bisogna fuggire a tutti i costi. Lo farà anche Necchi, che convince sua moglie Carmen ad abbandonare il bar che gestiscono per trasferirsi nella casa di riposo con Mascetti e Melandri, nonostante Carmen sia del tutto contrariata per questa decisione, visto che si sente ancora in grado di lavorare.
Non mancano, nel frattempo, le solite burle, per esempio far credere a un uomo ricoverato nella casa, un certo Lenzi, che Mascetti e Melandri partecipano a delle messe nere e che si vendono al diavolo per avere in cambio l’elisir della giovinezza. Da buoni toscani, non possono che citare Dante («Pape Satàn, aleppe!») durante il falso rito; e il risultato è far credere a Lenzi di essere davvero tornato giovane (in realtà lo truccano a pennello). Sassaroli dirà agli altri, responsabili indiretti per la morte di Lenzi, che in realtà gli hanno fatto solo un favore, alleviandogli le pene della morte (ma soprattutto della vecchiaia).
Ormai, però, tutti questi scherzi, più che far ridere, fanno pena. Nei primi due film si rideva piangendo e il desiderio dei tre protagonisti di sentirsi ancora giovani, di fare ancora quegli stessi sciocchi scherzi che facevano da giovani, di non avere relazioni serie tranne che tra loro stessi (nemmeno quindi con le mogli, che erano anzi di intralcio) – tutto questo aveva un che di drammatico, di estremamente malinconico: l’età avanza ma loro cercano di fare qualunque cosa per sentirsi ancora vivi. Seppur anziani, ostentano energie che non posseggono più. In tal senso il finale di Amici miei – Atto III è particolarmente significativo, nel momento in cui Necchi e Sassaroli ritentano il celeberrimo scherzo del treno del primo film: schiaffeggiare i passeggeri in partenza, affacciati ai finestrini. In quel caso era stato emblematico Perozzi che, tra le vittime del treno, trovava suo figlio Luciano.
Ma ora Perozzi non c’è più e Necchi, dal canto suo, non ce la fa più a saltare; e infine i treni sono diventati più alti. Ora accade il contrario e sono quindi i passeggeri a schiaffeggiare l’allegra banda di “bischeri”, anche se Mascetti, sempre sulla sedia a rotelle, spruzza dell’inchiostro con una peretta ai passeggeri, segno che, pur essendo invalido, non è cambiato per niente. Intanto Sassaroli – molto prevedibilmente unitosi agli altri tre – è diventato direttore della casa di riposo, dopo aver venduto la clinica di cui era primario. Finalmente riuniti, i quattro “bischeri” possono far baldoria fino alla fine dei loro giorni, celebrando la loro infinita vitalità.
La morale, in sostanza, è non avere legami: tutti e cinque i protagonisti non vogliono legarsi a nessuno se non tra loro stessi. Le mogli non servono: sono meglio le amanti, perché le donne, secondo una visione del tutto misogina, sono utili soltanto per soddisfare degli impulsi sessuali perenni, al di là dell’età. Il matrimonio, insomma, è qualcosa di troppo serio, con delle regole a cui non si può e non si vuole sottostare. Era proprio per questo che Mascetti, nel finale del secondo film, sottolineava di avere un solo scopo, vale a dire sentirsi libero. E l’amicizia diventa, per tutti loro, sinonimo di libertà. Che è la libertà di burlarsi l’uno dell’altro, di perdonarsi nonostante le “supercàzzole”, di fare ciò che si vuole. Una complicità che non ha eguali, di cui le donne non possono – non devono – essere rese partecipi.
Eccezione è Melandri, l’unico che cerca di nutrire dei sentimenti sinceri ma ogni volta c’è qualcosa che ostacola il compimento del suo amore: nel primo film si innamora di Donatella, la moglie di Sassaroli; poi, nel secondo, riesce a sposarsi (dopo essersi perfino battezzato) ma proprio quando la sua sposa sta per concedersi, a causa dello straripamento dell’Arno tutto va in fumo (preferisce salvare i suoi quadri e i suoi incunaboli!); e infine si innamora, nel terzo film, di una donna che, a un minimo tentativo di seduzione, cede al primo che capita (in quel caso Mascetti). Da qui deriva la dipendenza totale di Melandri al gruppo di amici e l’impossibilità di chiudere il cerchio e di arrivare, dopo fasi costanti che prevedono l’innamoramento, il desiderio e la seduzione, anche al possesso della donna. L’amore non può quindi coesistere non tanto con l’amicizia ma con quegli amici, che avranno sempre la priorità. Accade la stesa cosa a Necchi quando sua moglie Carmen lascia la casa di riposo in seguito all’invito, da parte del direttore – visti i continui comportamenti poco consoni alle regole da parte di Mascetti, Melandri e Necchi – ad andarsene. Anche Necchi preferisce gli amici: è quindi come Melandri, pur avendo in parte compiuto il ciclo amoroso (perlomeno si è sposato).
L’unico profondo legame è insomma tra gli amici: un legame che li unirà fino alla morte. Non c’è donna che tenga, ma loro sono inseparabili. Per l’amicizia rinunciano a ogni cosa. In cambio ottengono una fedeltà molto più sicura di quella coniugale, capace di soddisfarli fino in fondo, fino a farli sentire incredibilmente vivi.