“La fantasia e la creatività non servono a un cazzo, per fare cinema ci vogliono le palle o un dolore. Tu le palle non le hai, ce l’hai un dolore?”
E’ questa la chiave del film di Paolo Sorrentino “E’ stata la mano di Dio”, la frase che il regista Antonio Capuano urla all’alter ego del regista, Fabio Schisa, il ragazzo pelle e ossa e ricci che abbraccia un dolore troppo grande per avere le palle di raccontarlo. E lo fa ora, attraverso una pellicola autobiografica, intima, spoglia di orpelli, lo fa da adulto, lo fa da Paolo Sorrentino alla soglia dei 51 anni.
Come si può criticare un film quando racconta in maniera intimista di un taglio così profondo? Come si può giudicare un dolore? Come se il dolore possa in qualche modo essere classificato, nominato, numerato; che per ciascuno di noi il dolore che proviamo è sempre più grande di quello altrui, ma prenderlo in mano, guardarlo, riconoscerlo e mostrarlo al mondo, quello sì è un atto di coraggio. E allora Capuano aveva torto, perchè quel piccolo Paolo aveva sia palle che fegato. E un dolore da raccontare.
“Allora, tu un dolore ce l’hai? Hai una cosa da raccontare?”
“Quando sono morti non me li hanno fatti vedere!”
Sono i genitori di Fabio, morti per asfissia davanti ad un camino nuovo in quella casa a Roccaraso dove avrebbe dovuto esserci anche lui che invece la mano di Dio ha salvato, quel Dio che stava in campo a segnare dei rigori. E così Maradona e Sorrentino sono legati da un filo sottile ed eterno, quello della salvezza, del fato, della credenza e della superstizione, perchè senza quel biglietto dello stadio, il nostro amato regista non sarebbe tra noi.
In una Napoli senza fronzoli, Sorrentino racconta le vicessitudini familiari, prima della tragedia, tra ilarità e grottesco, in una sorta di teatro eduardiano, dove i personaggi felliniani, un Fellini che cita e omaggia, vibrano nelle case borghesi ricche di suppellettili, di pipe, di perline di legno, colti nella loro volgarità più vera (chi non ha vissuto tra i napoletani non conosce questa rispondenza piena alla realtà, che rende certi personaggi amati tanto quanto la loro abbondanza di parolacce, amati perchè senza filtri). Una nonna in sovrappeso che indossa la pelliccia anche in estate sbrodolandosi con un cuore di latte, un vicino di casa problematico ma buono che disegna cazzetti sulle targhette delle porte ossessionato dalla pulizia per l’auto, una zia impazzita che finisce i suoi giorni in manicomio, in questo palcoscenico che alla critica sembra esageratamente freak, ma a cui dobbiamo ricordare che Napoli E’ esagerata, l’amore più sano e dolce arriva dal rapporto tra il protagonista e sua madre. Una mamma presente, che vede senza chiedere, che sente senza bisogno di parlare, una madre che chiede al figlio adolescente di giocare ancora a nascondino.
Una famiglia che trova momenti di pace nelle difficoltà che hanno tutti, nel dramma del tradimento, nella rozzezza della violenza, dove a ritrovarsi si è sempre tra le mura domestiche, o meglio tra le lenzuola, dove tutto sembra passare e diventare meno grave.
Più vero che mai, il film di Sorrentino torna per come lo conosciamo con alcuni piani sequenza lunghi (due o tre al massimo) e dai lunghi silenzi, intervellati solo dal suono del mare, questo mare che fa “tuff, tuff, tuff”, quando è attraversato dagli offshore. E’ il mare a dettare il ritmo della pellicola, come ne “le onde” di Virginia Woolf con le sue parole; è tempestoso e chiassoso come la famiglia napoletana, e cupo, profondo e silenzioso come Fabio quando nasconde il suo dolore, quel dolore che ha imparato a tacere, perchè è dove si parla tanto, che si parla poco.
La figura di Diego Armando Maradona volteggia, ci sta sopra la testa, come un Dio, lo si sente nei dialoghi, lo si vede talvolta apparire nelle piccole tv senza telecomando, in quelle rettangolari cucine degli anni ’80 con le sedie in rafia e il bicchiere dell’acqua colorato di rosso. Il canale si cambia con un bastone perchè “si è comunisti”, se Maradona segna lo si festeggia in coro tra i balconi, se lo si vede per le strade di Napoli è sempre come un’immagine sacra, non si è mai certi che sia vero oppure no, come pure il “monaciello”, figura popolare dispettosa che ruba gli oggetti dalle case dei ricchi e che porta soldi in quelle dei bisognosi.
Maradona è la salvezza del protagonista, è la salvezza dei napoletani, è il mito che permea ancora per le strade del centro, ovunque sulle pareti, osannato sui manifesti, idolatrato nelle case.
Ma è il cinema che sottrarrà Fabietto alla disgrazia, un viaggio a Roma, lontano da quella Napoli amata e odiata, un saluto alla zia matta musa e desiderio, un abbraccio al fratello maggiore, uno zaino in spalla, gli alberi che si stagliano dal finestrino di un treno, e finalmente siamo anche noi partecipi della musica che Fabio ascolta nel walkman: “Napule è” mille culure di Pino Daniele
Napule è mille culure
Napule è mille paure
Napule è a voce de’ criature
Che saglie chianu chianu
E tu sai ca’ nun si sulo