Paolo Sorrentino è uno scrittore, Parthenope è l’inchiostro

Parthenope, ultimo film di Paolo Sorrentino, ha fatto discutere e dividere tanti appassionati e critici cinematografici. C’è chi lo reputa un altro lungometraggio senza trama, e c’è chi urla all’ennesimo capolavoro, quello che mi sembra essere un dato di fatto, è che Sorrentino è stato e rimane, un grande amante della penna. Con Parthenope ci ha lasciato delle pagine di poesia, prima che di prosa, per questo motivo in pochi lo comprendono; io che ho sempre odiato i poetelli della domenica sera, mi sono avvicinata in maniera ossessiva alla prosa, al romanzo, alla saggistica, lasciando il trono dei poeti a quelli che hanno tutto il diritto di essere appellati come tali: William Blake, Alda Merini, Walt Whitman, Paul Verlaine, Giacomo Leopardi… Sorrentino è un poeta, il significato di tutta una storia sta nei versi che affida ai suoi protagonisti, in quelle conversazioni intimiste e profonde sul senso della vita e sullo scorrere del tempo. Questo è il messaggio di Parthenope, la velocità dell’esistenza, la sua effimerità, la giovinezza che non ho vissuto– dirà l’autore in una intervista. Così Parthenope, sirena della mitologia greca che nasce dal mare e giunge esanime dove sorge Castel dell’Ovo perchè Ulisse risulta insensibile al suo canto, prende il volto di Celeste Dalla Porta, e ne prende anche il corpo, seduttivo, ammaliatore, totalmente libero nell’età e nella forma del pensiero.

Parthenope vuol far l’attrice, ma finisce con studiare antropologia, quella materia moderna che si prefigge di analizzare l’essere umano sotto il profilo culturale, sociale, filosofico, religioso, ne scruta i comportamenti e le psicologie all’interno della società. Uno studio in perenne prendere appunti che fa lo stesso Sorrentino, così attento a destinare i dialoghi più giusti, spiati tra i tavoli di un ristorante nella sua quotidianità, o nelle sue visioni oniriche notturne (immagino un taccuino pieno di annotazioni e di frasi che stanno cercando un volto ed un nome), ai personaggi più adatti.

NAPOLI

Parthenope ama Napoli, eppure ha sempre quel velo melanconico nello sguardo, perchè “non si può essere felici nel posto più bello del mondo“.
In questa Napoli, Sorrentino si è messo in strada, ha passeggiato nei vicoli meno fastosi delle sue pellicole precedenti, ha voluto dire la verità. In una carrellata, una Napoli fatta di tante piccole stanze che raccontano le piccole vite di gente comune, una vecchia che dorme accanto ad un bagno, sei bambini che saltano su un unico letto, una donna sola che allatta un neonato, la fatica e la povertà di una città abbandonata e forse anche un po’ rassegnata, una città dove si vive e si muore per motivi così futili.”

I PERSONAGGI

Tesorone

Arcivescovo di Napoli, uomo del Santo Protettore, delle ampolle e del miracolo di San Gennaro, è forse il personaggio più criticato dal pubblico italiano. Grasso, sudato, fanfarone e laido per immoralità, credo invece sia centrale nella comprensione del carattere della protagonista.
Parthenope lo incontra per approfondire il tema del miracolo, ed assiste ad una messinscena ormai iconica del napoletano, in cui il sangue però non si liquefà. Napoli, maestra nel custodire, creare e perpetrare favole e superstizioni che – dice Sorrentino – sono inutili ma indispensabili, alimenta certi attaccamenti superati, ma così orgogliosa delle sue tradizioni, le rinnova con ottusità e cecità.
Tesorone si avvicina a Parthenope con calma, come si fa con Dio e la religiosità. La seduce con la sfacciataggine, la veste solo del tesoro di San Gennaro, mentre Parthenope prende tutto con la leggerezza della giovinezza, con una sorta di affetto nei confronti degli emarginati (“tutto in me è fatto per essere rifiutato), con l’amore di chi ama profondamente perchè profondamente si sente solo. E questa è certamente una croce. “Tu ami troppo o troppo poco?” le chiede.

(Il miracolo si compie nel momento dell’amplesso.)

– Cosa le piace di una donna?
– La schiena, il resto è pornografia
.

Greta Cool
Camminate a braccetto con l’orrore e non lo sapete. Siete solo trasandati e folcloristici.
Siete poveri, vigliacchi, piagnucolosi, arretrati, rubate e recitate male. E sempre pronti a buttare la croce addosso a qualcun altro, all’invasore di turno, al politico corrotto, al palazzinaro senza scrupoli, ma la disgrazia siete voi, siete un popolo di disgraziati. E vi vantate di esserlo, non ce la farete mai…cari orrendi napoletani io me ne torno al Nord, dove regna il bel silenzio, dal momento che io non sono più napoletana, da molti anni. Io mi sono salvata, ma voi no. Voi siete morti”.

Greta Cool (Luisa Ranieri) è la diva in decadenza, look alla Sofia Loren, accolta come una regina e buttata all’angolo come un neomelodico che decide di spiegare le ali e staccarsi dal fango di Napoli per volare altrove. Per i Napoletani o sei dentro o sei fuori, e quando sei fuori, devi essere eliminato. Come tutti i fanatici, non c’è sfumatura che tenga, il napoletano ama oppure odia, non ha mai le vie di mezzo, non può essere neutrale e soprattutto, possiede un attaccamento morboso alla sua terra con cui ha una sorta di amore incestuoso, così sanguigno ma indicibile, che vorrebbe scorticarsi di dosso ma non ce la fa.
Greta Cool si salva, scappando. E biasima i napoletani per la loro unione disgregante, compattati nella disperazione.

“Gli amanti si dicono sempre le stesse cose. 
Fortuna ci sono gli scrittori a togliere la monotonia con le loro parole.”

John Cheever
Insoddisfatto, malinconico, John Cheever è lo scrittore americano che Parthenope incontra nelle notti capresi (prima che nelle sue letture predilette), quelle più vitali dove la bellezza, come la guerra, le apre le porte, e dove la delusione arriva ancora più fulminea e tagliente delle armi.
John Cheever, un commovente Gay Oldman, affoga nell’alcol rimorsi e rimpianti, i dolori nascosti di una sessualità che non può essere esplicitata, il desiderio di storie mai iniziate e già finite.

Lo senti anche tu?
Cosa?
L’odore degli amori morti

IL SURREALE E LA MAGIA

Per trasformare un secchio di plastica in una lanterna magica, ci vuole l’ingegnosità che ebbe Hitchcock in “Suspicion” quando fece montare una lampadina dentro un bicchiere di latte, per rendere ancora più ambiguo e carico di mistero l’oggetto incriminato. In una corte di “stanze chiuse” dove le donne di malaffare salutano e osannano l’uomo di malaffare che passa a trovarle, accompagnato da Parthenope, scendono nel buio della notte dei panari, azzurri come il cielo e illuminati come delle lucciole. Portano messaggi d’amore, e trasformano la sequenza in un piano di pura poesia estetica.

Sono convinta che la grandezza di Sorrentino, come regista e sceneggiatore, basterebbe senza l’aggiunta di suppellettili surreali ad effetto wow. Ma il fatto che lui si diverta tanto, diverte molto anche me per osmosi.
Omaggi a Fellini? Semplice trastullamento? Il macrocefalo obeso è il figlio del Professor Marotta, (interpretazione straordinaria di Silvio Orlando) fatto di acqua e sale, come il mare, e affetto da disabilità, come Napoli.
Il commento di Parthenope “è bellissimo“, è forse la scena meno riuscita di tutto il film, forzata, con poca potenza, anche se dal simbolismo metaforico. Lascia, “il mostro”, una sorta di spazio bianco dove ciascuno di noi può scrivere la propria interpretazione, come quando guardiamo un quadro per la prima volta e non conosciamo nulla dell’autore, né del paesaggio o di chi vi è ritratto.
Il Professor Marotta sarà fondamentale per la crescita di Parthenope, che lascerà Napoli per dedicarsi alla docenza in Antropologia. Tornerà solo a settant’anni ricordando quel che le diceva il suo maestro:

Antropologia è vedere. E si inizia a vedere solo quando si perde tutto il resto.



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E’ stata la mano di Dio


“Vera”, il film su Vera Gemma disponibile su MUBI

Il film è la sintesi dell’ossessione sulla verità. “Vera”, vita vera, come il nome della protagonista Vera Gemma, che interpreta nessun altro al di fuori di se stessa.

Vera Gemma, figlia del grande attore e stuntman Giuliano Gemma, quello bello che faceva roteare pistole come fossero carte da gioco tra le mani, quel padre famoso che ogni figlio non vorrebbe, perchè il peso della notorietà grava sempre su chi lo segue. Solo i non famosi lo sognano, appesi all’illusione che il cinema e la celebrità regalano, nascondendo la polvere sotto il tappeto. In questo film tutto lo sporco salta fuori; con una secchezza e un minimalismo quasi da Nouvelle Vague, i registi Tizza Covi e Rainer Frimmel fanno sfilare le presenze venali e superficiali che circondano il mondo di Vera, dall’agente al fidanzato che chiede, dietro la finzione dell’amore, denaro.
Sarà sempre Vera a pagare, per il compagno, per una famiglia a cui si lega, vittima di un imbroglio.

Vera con Manuel

Vera viene rappresentata così com’è, eccentrica nel vestire, indossa sempre un cappello da cowboy, tacchi vertiginosi, gilet di pelliccia, e un trucco da trans. “Mi ispiro alle trans. Più somiglio a una trans e più mi sento bella. Da piccola ero innamorata pazza di Eva Robin’s.

Lo sguardo è sempre imbronciato, un po’ triste, amareggiato dalla vita, a volte rassegnato quando si parla di lavoro e di persone.
Vera è la figlia d’arte che potrebbe avere le porte spalancate, e invece le si chiudono in faccia, con una ferocia e una noncuranza che la porta a dire “basta”. Basta casting, basta film, buttandosi senza paracaduta nella vita vera.

È qui che si scontra con il padre di Manuel, disperato vedovo che vive nella borgata di Roma che tira a campare aggiustando motorini, vivendo nella casa dell’anziana madre (costretta a riempire secchi d’acqua alla fontana pubblica) e fingendo incidenti con il figlio per racimolare qualche spiccio dalle assicurazioni.
È così che si guadagna da vivere, così che irretisce Vera, arrivando a drogarla e derubarla di tutti i gioielli regalatole dal padre, nella sua piccola casa a Trastevere. Vera, combattuta se denunciarlo o no, preoccupata di quel figlio senza madre che potrebbe ritrovarsi a vivere pure senza un padre, rinuncia per compassione, come quando capisci che nella vita tutto ha un inizio ed una fine, e non puoi farci nulla se le regole sono queste, puoi solo accettarle, puoi solo accogliere la sofferenza o crogiolartici.

Vera Gemma con Asia Argento

È nella scena con l’amica di sempre Asia Argento, che si legge un momento di complicità e leggerezza, quando Asia la porta al cimitero acattolico di Roma, a vedere la tomba del figlio di Goethe. Una tomba senza nome, solo il “figlio di”, come si sentono le due donne, le figlie di Dario Argento e di Giuliano Gemma. Si chiedono se qualcuno ha pensato mai ai dolori di quel ragazzo, se hanno mai parlato dei suoi sogni e delle ambizioni, se lo hanno mai chiamato per nome. Qui Vera accenna un sorriso, quei sorrisi amari che si svelano solo nella complicità, come quando due animali braccati si annusano e si riconoscono; e così anche il dolore ha lo stesso odore.


Quanti avranno pensato che Vera Gemma sarebbe stata così talentuosa? Il film è stato premiato al Festival di Venezia 2022 Sezione Orizzonti con due premi: migliore attrice femminile e migliore regia.

È il pregiudizio ad averci fregato, come confessa lei con grande onestà, “non ho mai la faccia giusta, non sono mai abbastanza bella come mio padre, sono sempre sbagliata“, un viso segnato dalla chirurgia, pratica iniziata alla tenera età dalla madre.
Perchè ha voluto rifarci il naso?” – chiede Vera alla sorella mentre riguardano delle diapositive “erano così belli“.

Una ricerca ossessiva della bellezza, quella bellezza esteriore che ci mette tutti sotto torchio, sotto esame, dalla Barbie che ci regalano da bambine, alle mode che cambiano repentinamente. Eppure, la bellezza che vediamo in questo crudo e trasparente documentario, come attraverso un cristallo, è quella più pura, l’empatia più sacra, la genuinità più integra, la generosità più calorosa.
Vera è l’amica che vorrei.

Vera è Disponibile su MUBI.





Il Whisky sul set, 5 film dove è protagonista

Non avrei mai dovuto passare dallo Scotch al Martini
(Humphrey Bogart, 14 gennaio 1957, ultime parole prima di morire)

La lista delle presenze sulle scene del distillato di malto piú amato dagli attori e dagli spettatori di tutti i tempi potrebbe tenerci incollati allo schermo per lungo tempo. Per questo motivo abbiamo scelto alcuni titoli non per la loro importanza cinematografica ma per portare all’orecchio di tutti gli appassionati qualche nome noto e qualcun altro meno conosciuto.

Daniel Craig interpreta James Bond in Skyfall

Skyfall (2012)

La particolaritá, oltre al prestigio di questa bottiglia, è che il Macallan 1962, fu distillato proprio lo stesso anno dell’uscita del primo film sull’agente 007. Quella stessa bottiglia fu firmata da Daniel Craig, nelle vesti di James Bond, e subastata per beneficenza.

Il sapore di questo whisky è incredibilmente complesso, con una profonda sfumatura color mogano e un’elegante armonia di aromi e sapori concentrati diversi, con un sentore speziato proveniente dal legno della botte e un lieve aroma di vaniglia, ma anche nocciola, cannella, e molto altro ancora.

Jack Torrance a “colloquio” col barban

Shining (1980)

Jack Torrance, interpretato dal grande Jack Nicolson diretto da Kubrick, beve una spettrale coppa di Jack Daniels nella scena del bar dove in realtà ha chiesto un Burbon. Il figlio di Jack nel film si chiama… si, proprio Daniel.

Dal colore ed aroma molto intensi, un sapore di cereali tostati ben marcato ed un fondo di vaniglia e caramello, come ci si aspetterebbe da un Tennesse che riposa per 2 o 4 anni in botti di rovere bianco tostata al suo interno avrà un livello di “bruciato” differente che attribuirà sapori ed aromi distinti ad ogni whisky.

Breaking Bad (2008-2013)

Nella serie acclamata dalla critica soprattutto per la sceneggiatura, la regia e le interpretazioni degli attori principali, il protagonista Walter White (Bryan Cranston) predilige un whisky Scozzese poco conosciuto al di fuori degli USA, il Dimpel Pinch.

Nato nel 1890 come apice della ricerca di un blend della marca esiste solo nella versione 15 anni affinato in botti americane di quercia bianca. Pepato al naso, morbido ed elastico ma con una struttura decisamente solida.

Lord Charlie Mortdecai, un “mercante d’arte” e truffatore

Mortdecai (2015)

Sicuramente non ricordiamo scena nella quale l’eccentrico protagonista, interpretato da Johnny Depp, appaia senza un drink. Ma indubbiamente la piú interessante del film è quella del risveglio nell’Hotel The Standard dove sul comodino troviamo una bottiglia di Lagavulin 16.

Un single malt scozzese invecchiato in botti di quercia e dall’inconfondibile sapore di fumo di torba del sud dell’isola, iodato e salino, con una dolcezza ricca e profonda. Ricordi di frutta secca e passa con un fondo quasi piccante.

Il Whisky, uno degli attori principali della serie.

Peaky Blinders (2013-2022)

Nella serie televisiva britannica ambientata nella Birmingahmil del dopoguerra, il protagonista Thomas Shelby (Cillian Murphy) afferma che: “Il whisky è un metodo di prova: ti dice chi è autentico e chi no.” offrendo e bevendo un Old Bushmills, attuale Bushmills 10years old.

Immaginiamolo come la porta di accesso ai più grandi single malt del mondo. Dalle botti di sherry e bourbon prende gli aromi di miele e vaniglia oltre al sentore di cioccolato bianco. Tanto complesso quanto accessibile.

Il saluto a questo viaggio nel mondo del cinema attraverso bottiglie e bicchieri di pregio lo facciamo dare da  Lt. Archie Hicox (Michael Fassbender)  che in Bastardi senza Gloria (2009) dice giustamente:

C’è un posto speciale all’inferno riservato alle persone che sprecano un buon scotch…”

Malcolm & Marie, un litigio in bianco e nero


Malcom & Marie

Una coppia rientra in casa (la Caterpillar House in California all’interno di una riserva naturale, su un unico piano e pareti vetrate), dopo la première del film di cui lui è regista. Lei, Zendaya, in un meraviglioso abito lungo con spacco profondo in seta lamè cut-out con corpetto intrecciato sul seno, unico capo ad essere indossato per metà film (oggi anche in vendita in pre-ordine sul sito di Aliétte per 1200 dollari) è la prima a varcare la soglia di casa. Il nervosismo è nell’aria, mentre cucina in men che non si dica dei maccheroni al burro e formaggio, mentre lui euforico per il successo della serata e per qualche bicchiere ( di whisky?) vorrebbe solo festeggiare.


106 saranno esattamente i minuti dell’intero litigio (se questa è la durata minima di una discussione di coppia, mi chiedo perchè la vendita di pantoprazolo non sia aumentata) in cui dopo numerose insistenze del protagonista (il sexy ex giocatore di football americano John David Washington, ma d’altronde è figlio di Denzel) si scopre che Marie ce l’ha a morte con Malcolm perchè non l’ha citata tra i ringraziamenti; lei che è stata la musa ispiratrice della storia, ex tossicodipendente che ha abbandonato il sogno di diventare attrice per uscire dal dramma della droga.


E’ una battaglia in bianco e nero (certamente rende la fotografia più elegante e lascia che ci si concentri sui dialoghi) dove colpisce più profondamente chi affonda cattiverie, chi recrimina, chi offende, chi gioca sulla gelosia, chi umilia.
Lui, chiuso nell’orgoglio, lei in un malcelato masochismo, sembrano riappacificarsi a intermittenza con baci molto lontani da quella che potrebbe essere definita come “passione”.

Malcolm & Marie



Marie, catturata l’attenzione appena entrata nella stanza che sarà teatro di tutto il film (di intento godardiano basato sull’autenticità della coppia – autenticità parola ridondante nei dialoghi), si imbruttisce a mano a mano che va avanti la discussione (ha qualche attinenza con la relazione di coppia? Con il modo che lui ha di vederla?); dopo un bagno che avrebbe dovuto essere purificante, che avrebbe dovuto sciogliere le tensioni, Marie struccata, abbandonati i tacchi, l’abito da grande soirée e le lunghe ciglia artificiali, si scopre in tutte le sue debolezze: la gelosia nei confronti dell’attrice che il compagno ha scelto per il suo film, le scene di nudo che Malcolm ha voluto inserire, la delusione per non essere stata ringraziata davanti al pubblico; Marie piange e attacca, si dispera e affonda un’altra coltellata. Ma quella a soffrire di più è lei, questo lo si intuisce, dall’atteggiamento di Malcolm irritato quando lei incalza dopo un bacio, mentre lui vorrebbe solo divertirsi e godersi la serata (quante scene similari ha vissuto ciascuno di noi?!)

Zendaya in “Malcolm & Marie.”


Sam Levinson, regista di “Malcolm & Marie“, verso la fine si trastulla con altisonanti citazioni cinematografiche, vomita critiche agli addetti al settore che non capiscono a volte un film può essere semplice e solo esercizio di stile anziché cavilloso lavoro concettuale, ma questo non ci scandalizza, lo fanno in tanti. Piuttosto, riuscire a rendere un ping pong teatrale efficace, è assai arduo quando gli attori non sono poi così esperti; Zendaya non sempre risulta credibile, manca di pathos, peccato perchè a mantenere alto almeno il fuoco di alcune scene (come quelle delle presunte riappacificazioni) avrebbe reso l’insieme più magnetico, per lo meno per giocarsi al meglio la sua bellezza.
John David Washington è più interessante da muto a petto nudo, perchè forzato nelle battute in cui dichiara il suo amore, con ironia, con quel ritmo black della camminata e dei gesti.
La storia è interessante e ci obbliga all’immedesimazione, è un litigio come miliardi di altri litigi che avvengono ora nel mondo, lui che non capisce il malumore di lei, lei che nega fino all’esaurimento e che esplode quando ormai è troppo tardi.


Il picco di interesse sale quando finalmente Marie confessa la sua vera pena: è offesa perchè non è stata scelta come attrice protagonista dal suo compagno, che ha preferito una donna dalla corporatura diversa dalla sua, più femminile a suo dire, “lo so che genere di donna ti piace”. Ha perso in questo modo la possibilità di raccontare la “sua” storia, di dimostrare a se stessa e agli altri che anche lei può farcela, lei che ha tentato il suicidio, e che ora invece ha un motivo in più per farsi del male.
E’ in canottiera bianca e mutandine, capelli bagnati (ricorda molto la scena con Nicole Kidman in Eyes Wide Shut) che si dirige a letto quando Levinson si tira la zappa sui piedi con un “Grazie” recitato da Malcolm. E ai registi dobbiamo ricordare che l’inizio e la fine sono le scene più importanti, come le prime e le ultime frasi di un libro, e che banalizzarle può rovinare un intero lavoro.

“Don’t look up” siete voi



Snervante quanto delle unghie che stridono su una lavagna, personaggi irritanti quanto un’orticaria, il regista di “Don’l look up” ha esasperato le caricature che più che macchiette diventano surreali.

La dottoranda in astrofisica Kate Dibiasky (Jennifer Lawrence) scopre che una gigantesca cometa colpirà il Pianeta Terra entro sei mesi provocandone l’estinzione; insieme al docente dell’Università del Michigan Dr. Randall Mindy (Leonardo Di Caprio) decidono di correre dalla Presidente degli Stati Uniti (Meryl Streep) per comunicare la tragica notizia. Ad accoglierli, Janie Orlean, una Presidente molto più attenta alla pantomima politica piuttosto che alla salvaguardia del pianeta.
In questo contesto il capo di Gabinetto è ovviamente il figlio, impreparato alla carica, ignorante, superficiale e idiota da superare “Scemo & più Scemo” (tema le classi privilegiate che mandano avanti prole e parentado al comando?), un responsabile della comunicazione che stila discorsi politici prendendo a prestito frasi dai film tipo “Il Soldato Ryan”.

Al cospetto di tanto scempio e di fronte ad un teatrino che più che la Casa Bianca sembra una commedia di provincia, i due scienziati sono furibondi perchè inascoltati, beffeggiati e messi alla porta.
Sono gli unici sani al centro di una totale perdita d’intelletto dell’intero paese.



Cosa dilaga? Stupidità, la coppia di astronomi si rivolge poi ad un programma televisivo nella speranza che le autorità possano ascoltarli e intervenire per salvare il mondo, invece sbattono contro due personaggi, i presentatori, complici della nullità imperante. Lei, una Cate Blanchett fastidiosa come una strombazzata in pieno mattino, ridacchia alla notizia, trasforma tutto in battuta, paragone cristallino ai media americani, ma diciamo anche italiani, inglesi, giapponesi, trasformando così la giovane astronoma in uno zimbello del web, un meme virale su cui scagliare la propria ignoranza e frustrazione.

L’unica preoccupazione sembra essere l’indice di gradimento del web, una massa informe di teste vuote interessate solo a sapere se una pop star tornerà insieme al rapper che l’ha appena cornificata (hanno affibbiato il ruolo ad Ariana Grande, bella voce però – ma su corna e tira e molla del web, in Italia ne abbiamo da vendere). Nessuno si preoccupa ancora della cometa che impatterà sulla Terra, fino a quando la cometa sarà visibile a occhio nudo nel cielo.
La popolazione a quel punto si divide, c’è chi urla tradimento al Presidente che mente (riferimento ai No Vax?), c’è chi sostiene la donna perchè “non è una bomba sexy?” spinge il figlio durante l’elettorato.


I ruoli sono confusi, chi dovrebbe informare pensa solo all’ospite sexy, chi dovrebbe dirigere pensa solo a coprire gli scheletri nell’armadio (foto nude e scappatelle – riferimento a Clinton?). La scienza è messa alla porta, taciuta, spogliata del ruolo (la ragazza finisce per essere zittita, costretta a firmare l’abbandono alla missione e si ritrova a fare la commessa in un piccolo supermercato di periferia. Quante volte abbiamo sentito questa storia? Medici che scoprono antidoti a malattie mortali, scomparsi nel nulla, esiliati, morti in circostanze sospette).

Il professor Randall Mindy cede alla vanità della popolarità, si lascia trascinare dal turbinìo facile del denaro, mentre la moglie lo invita ad una passeggiata fuori lui è impegnato a rispondere alle critiche sui social network, cede alle avances della conduttrice scema che in un momento di intimità gli confida “sono stata a letto con due ex presidenti, sono nata dannatamente ricca, ma ho tre lauree e ho acquistato due Monet”, come se questa confessione fosse il più nobile dei pensieri, la più profonda dichiarazione di sé (ricorda vagamente la bella Isabella Ferrari de “La Grande Bellezza” quando dopo una notte d’amore si interessa di mostrare all’amante i suoi selfie). In risposta, il professore, per raccontarsi: “Quest’anno è morto il nostro cane e non c’è momento più doloroso che io ricordi”. (questa frase è indice che per il personaggio c’è ancora una speranza di salvezza).

Tra challenge idiote, capi della NASA ex anestesisti, masse di pecore che vivono sui cellulari, salta fuori la mente informatica, il fondatore dell’azienda ipertecnologica Bash, Peter Isherwell (Mark Rylance), magnate macchietta di un Steve Jobs, Bill Gates o Zuckerberg, ideatore di uno smartphone che capta il tuo umore e ti proietta “animaletti musetti” per farti sorridere. (ma sono davvero utili i cellulari? Cosa ci hanno regalato e cosa tolto? Le relazioni umane non sono forse sbriciolate da quando la tecnologia ha preso il sopravvento? Noi umani queste domande ce le poniamo, al contrario di questi esseri problematici, sociopatici, che sembrano avere solo risposte.)

E’ solo intorno alla tavola imbandita, famiglia raccolta, moglie con cui si è riappacificato, che l’astronomo comprende il valore della vita, gli affetti: “Noi abbiamo veramente tutto, se ci pensate”.


Le intenzioni erano buone, la deriva del nostro tempo, la pochezza palese sui social network, l’assenza di emozioni, l’esplosione dell’ego, la corsa al denaro, la presunzione dell’ignorante, peccato che Adam McKay abbia impegnato un cast colossale in parti di davvero poco conto (come al povero Timothée Chalamet a cui vengono affidate due battute inutili alla trama).



Don’t look up” è un filmetto con tanti bei faccioni, ma temo ce ne dimenticheremo.

ON AIR LA NUOVA CAMPAGNA BARILLA “GESTO D’AMORE”

LA PASTA È UN “GESTO D’AMORE” NELLA NUOVA COMUNICAZIONE DI BARILLA

Barilla riporta in primo piano il valore emozionale della pasta, la cui preparazione diventa un modo per comunicare oltre le parole.

Con una nuova comunicazione lanciata in tutto il mondo, Barilla torna a far sentire la propria voce più emotiva ed esprime – come nelle campagne storiche del passato – il desiderio di parlare al cuore delle persone. Sotto il nuovo messaggio “Barilla. Un gesto d’amore” preparare la pasta diventa un modo per comunicare ciò che spesso non si riesce a dire con le parole. Frasi difficili da pronunciare come “ti amo”, “mi sei mancato” o “scusa, è colpa mia” possono essere dimostrate con qualcosa di semplice come un piatto di pasta.

È questo il racconto al centro del film di brand che rappresenta il manifesto della comunicazione di Barilla e si apre proprio con la domanda “Cosa possiamo dire senza le parole?”. In esso storie multiple dal sapore classico, ma estremamente contemporaneo, sanno dare un valore particolare a un piatto di pasta preparato per una persona cara. Le medesime storie saranno riprese nei soggetti della campagna globale integrata, on air a partire dall’11 aprile in 40 Paesi.

Anche la colonna sonora che sceglie di riproporre la rielaborazione del brano “Hymne” di Vangelis, sottolinea un ritorno alle origini con la musica che nella memoria di molti è indissolubilmente associata a Barilla.

Per la campagna “Barilla. Un gesto d’amore”, la regia è stata affidata al regista italiano Saverio Costanzo.

Il film di brand può essere visto a questo link:

Claude Sautet vi racconta la donna in “Nelly e Monsieur Arnaud”

Nelly e Monsieur Arnaud”, un film di Claude Sautet


Nelly vende baguette, è di una bellezza dolce e sensuale, di quelle bellezze che vestono chi non sa d’esserne portatrice, difatti Nelly, come molte donne inconsapevoli, ha sposato un fannullone, un uomo che passa le giornate sul divano a guardare la tv, in attesa che la mogliettina torni a casa e adempia pure ai suoi obblighi da coniugata. 

Nelly presto riceve, da un conoscente di una sua cara amica, la somma di denaro che coprirà tutti i suoi debiti, come dono, come un regalo, un gesto di quelli che, anche alla più ingenua delle donzelle, lascia il punto di domanda e molti puntini di sospensione.

Il gentiluomo è un ex magistrato che ha avuto fortuna negli affari immobiliari, le proporrà di fargli da dattilografa, offrendole una fissa retribuzione, dettandole il libro che avrebbe sempre voluto scrivere e avendo così l’opportunità di starle accanto ogni giorno. Troverà il tempo di sedurla con lo sfoggio del potere, con le parole, con cene sontuose, con l’eleganza di un uomo d’altri tempi.

Alla bella Emmanuelle Béart hanno consegnato un copione bianco con moltissimi “OUI” e “NO”, detti a labbra serrate, alla francese, ma forse a lei basta presenziare in questa pellicola di Claude Sautet, che lascia alla donna il ruolo misterioso e magnetico, persuasivo e sfuggente.

Non uno dei suoi film migliori, ma di Sautet sappiamo che il silenzio è una componente onnipresente, nei suoi personaggi distaccati, introversi, guardinghi, come in Stéphane, il liutaio di “Un cuore in inverno”. 

Piuttosto noioso se non fosse per il magnetismo della Béart che ci attacca allo schermo a seguire ogni suo movimento, e per una scena rivelatrice che Sautet descrive in maniera eccellente: 

Una sera Nelly e Monsieur Arnaud cenano insieme in un ristorante stellato, l’età media della clientela è molto alta e la ragazza non passa certo inosservata accanto all’anziano signore, che tutti conoscono per fama. Lei indossa un tubino nero, degli orecchini di perle e un disinvolto chignon (ça va sans dire); l’alcool, uno Chateau d’Yquem del ’61, fa il suo gioco, e i due si ritrovano a flirtare scherzosamente per le insistenti occhiate dai tavoli vicini: tutti pensano che lei sia una prostituta e questo la diverte. 
Salutato Monsieur Arnaud, Nelly chiama in piena notte l’uomo che da tempo la corteggia, l’editore di Arnaud, a cui, fino a quella sera, non si era mai concessa, e si lascia andare ad un gioco che era già stato iniziato da un altro uomo.

Ecco, questa scena descrive perfettamente la donna dal punto di vista della donna, le bugie, le contraddizioni, i capricci, i desideri. Nelly sa che può trovare un corteggiamento antico, maturo ed elegante da Mr Arnuad e sa che può rivelare il suo lato istintivo con Vincent, l’editore, che l’accoglierà con l’ardore di un giovanotto. Nelly, dopo aver lasciato il marito, prende tutto, ma dovrà fare i conti con i sentimenti, quelli che fanno radici con lo stesso silenzio con cui lei si burla degli altri, per poi fare rumore quando sta per perderli. 

L’uomo proibito e l’unicità dei rapporti umani

L’uomo proibito è un cortometraggio italiano del regista Tiziano Russo, prodotto da ABOUT DE FILM. Si tratta di un viaggio incredibile che prende avvio da una missione spaziale sino a coinvolgerne una che riguarda tutti, la vita.


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E’ pertanto il racconto di un’avventura umana di cui Andrea è il protagonista. Dopo aver contratto un virus in seguito a una missione spaziale, si ritrova ad affrontare tutte le difficoltà che comporta doversi relazionare con la figlia e la moglie, con tutte le sfumature e le sensazioni che necessariamente ne derivano. L’attenzione si concentra pertanto sulla quotidianità, in tutta la sua spontaneità. E’ un cortometraggio colmo di parole taciute, silenzi, riflessioni pensate e accennate, ma anche spazi vuoti.


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E’ dunque un’analisi attenta dei rapporti umani, dove ognuno dei personaggi ha una missione superiore: conoscere se stesso attraverso l’altro e superare i propri limiti.


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Il cortometraggio si serve di una fotografia delicata, che diviene pertanto la metafora perfetta della fragilità, quella stessa fragilità che caratterizza inevitabilmente la condizione umana e l’esistenza, e di cui spesso ce ne dimentichiamo facendone un problema.


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SPLIT, ventriquattro personalità e un solo volto

Vi siete mai chiesti: chi sono?

Split è una continua domanda, sempre la stessa, sempre più incessante: chi sono?
Un uomo può spingersi oltre il proprio potere, la propria potenzialità, oltre il proprio valore e la propria forza fisica?
Se possiede 23 personalità, sì.

La storia di Kevin Wendell Crumb s’ispira alla vera storia del criminale americano Billy Milligan, descritta a pieni voti (con qualche accenno fantastico) dal regista di Split M. Night Shyamalan.
Kevin è così frammentato in 23 personalità differenti, anzi 23 + 1.
L’ultima personalità sarà svelata nell’arco dell’ultima mezz’ora di proiezione e vedrà il compimento a termine di un lato oscuro venuto a galla a causa di un precedente trauma infantile.

Uno, nessuno e ventiquattro direbbe Pirandello.
Ma chi è l’Uno?
La vera identità del protagonista non vedrà mai la luce se non nelle ultime scene quando, in un momento di lucidità dato dal pronunciare il suo vero nome per intero, sembri comprendere il dolore e la sofferenza provocata.
E alla domanda: “chi è stato?”, la risposta: “tu” rivelatrice e premonitrice di ulteriori sofferenze non lascerà spazio alla consapevolezza del suo vero Io.

Inquietante, adrenalinico e angosciante è il film che vuole scavare a fondo tra uno dei disturbi psichici in natura umana: il disturbo dissociativo d’identità.
Secondo il DSM, il DID implica “la presenza di due o più identità o stati di personalità separate che a loro volta prendono il controllo del comportamento del soggetto, accompagnato da un’incapacità di evocare i ricordi personali“.
Il tema, cioè la metafora di un’esistenza contradditoria di cui Split si fa portavoce, è indice di un prodotto consapevole in grado di smuovere le coscienze e rivoluzionare la propria storia nel mondo alla domanda: chi sono io?

Ma Split non è il primo prodotto di massa nel trattare il disturbo dissociativo d’identità, basti pensare a “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde” di Robert Louis Stevenson (1886) o a “Fight Club” di Chuck Palahniuk (1996) in letteratura, o ancora a “Psyco” di Alfred Hitchcock (1960) e “Shutter Island” di Martin Scorsese (2010) nel cinema e all’album dei Genesis (1974) “The Lamb Lies Down on Broadway” o alla canzone dei Dream Theater (2002) “Six Degrees of Inner Turbulence” in musica.

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Tom Ford torna al cinema con “Animali Notturni”

A sette anni dal successo della sua opera prima, A Single Man, Tom Ford torna sul grande schermo con un noir ad alto tasso di adrenalina. Animali Notturni è un film complesso, ricco di suspense e velato da nostalgici rimpianti per una vita non vissuta: i fantasmi di un passato mai dimenticato tornano prepotentemente a farsi sentire, in un vuoto esistenziale che non lascia scampo.

Prodotta e sceneggiata dal designer americano, la pellicola si ispira al romanzo Tony and Susan, scritto nel 1993 da Austin Wright. L’animale notturno del titolo è un riferimento alla protagonista, gallerista di successo prigioniera di una vita infelice: Susan Morrow (interpretata da una splendida Amy Adams) ai tempi del suo primo matrimonio con lo scrittore Edward Sheffield (Jake Gyllenhaal) era una donna genuina e spontanea. Ma oggi resta ben poco di quella ragazza, che Edward era solito chiamare “animale notturno”: la vera essenza di Susan appare ora sepolta sotto una patina vuota di apparenza e convenzioni sociali. Risposatasi con un uomo che la tradisce, dopo ben diciannove anni dalla rottura col suo primo marito, Susan riceve da quest’ultimo un pacco misterioso: è un manoscritto, forse una rivalsa da parte di quell’uomo che tanto l’aveva amata e che lei aveva tradito in modo imperdonabile.

È un film crudo, Animali Notturni, che prende per mano lo spettatore conducendolo in una inaspettata discesa negli inferi, in cui sperimentare la deflagrante potenza dell’orrore, della violenza più spietata, che tutto calpesta in modo privo di logica. Dietro un’estetica impeccabile, dinanzi alla quale lo spettatore resta quasi sopraffatto, come preda della fatidica sindrome di Stendhal, dietro alle mise sofisticate e agli smokey eyes della protagonista si cela la vendetta più crudele, che si esplica attraverso la sofferta lettura di quel manoscritto: la storia narrata sublima i rancori di vecchia memoria e funge quasi da catarsi, costringendo la protagonista a riflettere sul suo passato e ad assumersi la responsabilità delle proprie scelte. Non c’è ritorno, non c’è salvezza, ma solo un’espiazione che, pagina dopo pagina, infligge alla fredda Susan una sofferenza crescente attraverso la narrazione di scene di ordinaria follia che si consumano nella cornice del deserto del Texas.

Amy Adams e Tom Ford
Amy Adams e Tom Ford






Tom Ford si conferma arbiter elegantiae per eccellenza. Nessun particolare sfugge al suo controllo, tutto appare perfettamente bilanciato, tutto è pervaso da bellezza, a partire da Amy Adams: nessuno prima dello stilista era riuscito ad esaltare in maniera tanto potente l’allure dell’attrice. Tra i volti che non scorderemo lo sguardo enigmatico di Michael Shannon, che ci regala una toccante interpretazione nei panni del controverso sceriffo.

Brutale ed angosciante, il film è un crescendo di emozioni, fino alla sete di vendetta e di giustizia, da ottenere a qualsiasi costo. Come inghiottiti dentro una vertigine, diviene talvolta difficile distinguere la dimensione dell’onirico e quella del reale, in una successione catatonica di eventi narrati dallo scrittore. Magnificenza e sublimi virtuosismi stilistici dominano l’intera pellicola, tra incursioni fetish in cui trova spazio l’Unheimlich, il perturbante di freudiana memoria: Tom Ford diviene mirabile deus ex machina di un film potente ed affascinante in cui la bellezza diviene beffarda ingannatrice e al contempo porto sicuro in cui rifugiarsi dinanzi alla violenza. Le forme plastiche evocate dalla sceneggiatura vengono dilaniate da un’autentica crudeltà, mentre suggestioni post-apocalittiche si alternano a sublimi exploit estetici.

La locandina del film
La locandina del film

The Ripper: il film sulla vita di Alexander McQueen e Isabella Blow

Chi era Isabella Blow?

Per chi non lo sapesse, era la più grande fonte di ispirazione dello stilista Alexander McQueen!

La Blow era tra le fashion editor più apprezzate dall’editoria di moda e grande talent scout. Se tutti noi abbiamo conosciuto e apprezzato il talento di McQueen è a lei che dovremmo dire grazie.

 

L'eccentrica e visionaria Isabella Blow (fonte immagine bitsmag.com.br)
L’eccentrica e visionaria Isabella Blow (fonte immagine bitsmag.com.br)

 

Alexander McQueen era molto riconoscente a Isabella Blow (fonte immagine theawkwardblog.com)
Alexander McQueen era molto riconoscente a Isabella Blow (fonte immagine theawkwardblog.com)

 

 

Isabella era molto legata ad Alexander. Lo conobbe per la prima volta nel 1992, durante la presentazione della primissima collezione dello stilista esibita in occasione della cerimonia di chiusura dell’anno accademico della Saint Martin School of Art.

Al termine dell’evento, la Blow acquistò tutta la collezione del giovane ed ancora inesperto stilista, spendendo 5.000 sterline. Nacque così, un legame lavorativo ed umano forte e impenetrabile.

 

Il famoso caschetto nero di Isabel Blow (fonte immagine tinaperlmutter.com)
Il famoso caschetto nero di Isabella Blow (fonte immagine tinaperlmutter.com)

 

 

La loro unione spezzata dal suicidio di Isabella avvenuto il 7 maggio a Gloucester, oggi è oggetto di un film/documentario (che avrà come titolo The Ripper) che racconterà la loro unione, un’amicizia legata anche dalla stessa dannata sorte (Alexander McQueen si tolse la vita nel 2010).

La sceneggiatura è curata da Gesha-Marie Bland ed a sviluppare la pellicola ci penserà la Maven Pictures.

Per il momento sono ancora sconosciuti i nomi degli interpreti e la data di uscita nella sale cinematografiche.

 

 

Fonte cover cinematographe.it