Pitti 91: Angelo Inglese – Per una camicia “Presidenziale”

L’ispirazione per la nuova collezione A/I 17-18 nasce dalla valigia di cartone usata dal suo bisnonno, Cosimo Inglese nato a Ginosa, che dovette emigrare temporaneamente negli Stati Uniti d’America negli anni ’20.


Le sue foto ed i suoi abiti sono stati gli elementi guida di gran parte delle collezioni G. Inglese Sartoria e ANGELO INGLESE Autunno/Inverno 17-18, nelle quali traspare tutta la storia della vera sartorialità e dell’artigianalità, come la tradizione insegna.


Angelo Inglese
Angelo Inglese



Il prodotto principe, la camicia, viene proposta con tessuti di qualità superlativa: titoli altissimi, filati di cotone egiziano, righe e colli di altri tempi ma rivisitati ed adeguati per i più esigenti e attenti alle mode che cambiano. Incredibile la varietà di colli disegnati ma soprattutto tagliati a mano dai maestri sarti che hanno fatto la storia della sartoria di famiglia e dei principali artigiani delle sua terra.


Angelo Inglese
Angelo Inglese



Davvero interessante la Cravatta proposta dal maestro, un must have per il gentleman moderno che si ispira alle icone del passato, elemento che viene presentato in ogni sua sfaccettatura, per tutti i gusti, in ogni larghezza e lunghezza, con qualsiasi tipo di personalizzazione; persino su misura.
Ripercorrendo gli States, il brand G. Inglese, ha creato una capsule collection con un fotografo e fashion blogger di livello internazionale, Karl-Edwin Guerre, in arte GUERREISM. I due si sono divertiti a creare un confronto tra le culture dei luoghi che hanno vissuto: New York e Ginosa.


Angelo Inglese e Guerreism
Angelo Inglese e Guerreism



L’idea è quella di generare una seconda migrazione dall’Italia all’America, ma questa volta digitale. Il merito e’ di “Mad for Italy”, un’associazione che ha come obiettivo quello di esportare la cultura italiana principalmente in America, in tutte le sue peculiarità: cibo, musica, design e moda.
Attraverso questa grande community, Mr. Inglese, ha realizzato la camicia per il neo Presidente Statunitense, DONALD TRUMP. Si, avete capito bene: e’ stata commissionata una classica e preziosa camicia bianca, consegnata qualche settimana fa direttamente alla Trump Tower e voci di corridoio dicono che sia stata indossata dal neo presidente USA per il suo giuramento.


Lunga vita al Made in Italy


Angelo Inglese
Angelo Inglese



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Sgarbi – Il Volo, continua la lite sulla cerimonia di Donald Trump

Sgarbi contro Il Volo: sembra che la querelle non accenni a placarsi tra il critico d’arte e i tre giovani tenori, rei di aver (a loro dire) rifiutato l’invito alla cerimonia di insediamento di Donald Trump «perché ha basato la sua campagna su atteggiamenti xenofobi e razzisti». Le polemiche sul suddetto rifiuto hanno diviso i fan del gruppo e l’opinione pubblica, ma ad infuriarsi di più è stato proprio Sgarbi. Infastidito da un atteggiamento secondo lui presuntuoso e arrogante, il critico ha iniziato una vera e propria campagna denigratoria, prima insultando Il Volo sui social e in diverse trasmissioni e poi accusandoli di non essere mai stati invitati. «I tre, intorpediniti, hanno solo cercato pubblicità affiancandosi ai divi che, come De Niro, hanno vilipeso pretestuosamente Trump» ha attaccato, giocando con il nome dell’agente Michele Torpedine che cura gli interessi dei tre cantanti.


La replica di Piero Barone, Ignazio Boschetto e Gianluca Ginoble è arrivata durante la scorsa puntata di Domenica Live, dove i tre hanno mostrato a Barbara d’Urso il documento che attesterebbe l’invito alla cerimonia di insediamento di Trump alla Casa Bianca. Vittorio Sgarbi, però, rincara la dose in un video facebook in cui parla dell’hotel Rigopiano, in cui uno dei tre ragazzi avrebbe dovuto trovarsi al momento della tragedia. Sgarbi torna a sostenere che Il Volo non sia mai stato invitato all’evento e, dichiarandosi  guidato dal desiderio di scoprire la verità, adduce prove alla sua tesi. È lo stesso Trump, sempre secondo l’interpretazione di Sgarbi, ad aver smascherato la falsa notizia de Il Volo, sostenendo che «tutte le celebrità che dicono che non verranno all’inaugurazione, non vengono perché non le abbiamo invitate». Inoltre, continua nel video su facebook, al Consolato generale Usa a Milano non risulta che nessun artista italiano sia stato invitato a cantare e neanche a presenziare alle celebrazioni dell’insediamento del Presidente. Chi dice la verità, Vittorio Sgarbi o i ragazzi de Il Volo? Non resta che aspettare la prossima stoccata social.

Ivanka Trump: addio alla moda

Cambiamenti in casa Trump: Ivanka Trump, la figlia del neo presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump, ha deciso di lasciare la fashion house che porta il suo nome, controllata dalla Trump Organization. Una decisione che si è resa necessaria dati i crescenti impegni politici della giovane Ivanka, che è stata costretta a rinunciare alla sua carica managerial-creativa all’interno del board dell’azienda paterna, dove ricopriva dal 2005 il ruolo di executive vice president of development & acquisitions. Cessa così ogni rischio di dar vita a possibili conflitti di interesse, data la nomina del padre alla Casa Bianca.

Bionda e procace, la splendida Ivanka Trump (all’anagrafe Ivanka Marie Trump), è nata a New York il 30 ottobre 1981. Imprenditrice, modella e personaggio televisivo ma anche socialite e protagonista del jet-set internazionale, la giovane è figlia del 45º Presidente degli Stati Uniti Donald Trump e dell’ex-modella Ivana Trump.

Dopo aver frequentato la The Chapin School a New York, Ivanka si è diplomata al Choate Rosemary Hall a Wallingford, Connecticut. Successivamente si iscrive alla Georgetown University, che però frequenta solo per un biennio, prima di trasferirsi alla Wharton School of Business della University of Pennsylvania, dove si laurea cum laude in economia nel 2004.

IVANKAWOW
Ivanka Trump è nata a New York nel 1981


Volto splendido e curve sinuose, Ivanka viene ben presto notata dal fashion system, che la vuole come modella: già nel 1997 la giovane diviene ragazza copertina per il magazine Seventeen. Successivamente Ivanka ottiene numerosissime cover, da Forbes, Golf Magazine, Avenue Magazine, Elle Mexico, fino ad Harper’s Bazaar, Page Six e Philadelphia Style. La giovane sfila per Versace e Thierry Mugler e presta il volto alle campagne pubblicitarie di Tommy Hilfiger e Jeans Sassoon. Il suo fisico prorompente viene inoltre immortalato da Sports Illustrated.

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Prima di entrare nell’azienda di famiglia, Ivanka Trump ha lavorato per Forest City Enterprises e ha creato una linea di gioielli, fondando il brand che porta il suo nome. In seguito la sua attività ha incluso anche una linea di scarpe e borse fino all’abbigliamento. Nel 2004 l’esordio televisivo: insieme al fratello Donald jr. Ivanka partecipa come giudice al reality The Apprentice, prodotto e presentato dal padre Donald e trasmesso dalla NBC. Madre di tre bambini, nati dal matrimonio con Jared Kushner, ora la figlia del Presidente è balzata nuovamente agli onori delle cronache ed è uno dei personaggi più chiacchierati del momento.

Quindi chi vincerà le elezioni americane?

Chi vincerà le elezioni presidenziali Usa 2016?
Lo show è previsto per la notte tra l’8 e il 9 novembre.
Di show si tratterà, con oltre 250 testate accreditate presso i comitati dei due maggiori candidati: un mare di circa duemila persone tra stampa, televisione radio, e naturalmente tanto web. Da ogni parte del mondo.
Solo in America si stimano 150 milioni di telespettatori nella curva dele quattro ore, da costa a costa. Il web si attende oltre 3 miliardi di pagine visitate ogni ora (e l’attacco del 21 ottobre non promette nulla di buono in proposito).


Il sentiment europeo è tutto per Hillary Clinton.
Quanto questo sia corrispondente al sentiment degli elettori americani è un altro discorso.
Anzi, la prima cosa di cui tenere conto è proprio questa: una Clinton benvista all’estero come interlocutore e partner è esattamente la sua debolezza interna. L’America che cresce poco dopo la recessione pre-Obama e che ha perso milioni di posti di lavoro è stata fortemente sollecitata dagli slogan di Trump. Quel “prima gli americani” e “America nuovamente forte” fa breccia in quelle masse che vedono le enormi spese militari all’estero e la fuga delle imprese a caccia di salari più bassi come un problema che difficilmente “un nome noto” e protagonista della politica Usa degli ultimi trent’anni potrà affrontare.
Del resto Trump ha vinto proprio perché vendutosi e percepito come uomo fuori dagli schieramenti e dalla carriera politica.


Il vero tema che emerso è la straordinaria debolezza e mancanza di leader in campo repubblicano: distrutto prima dal Tea-Party, che lo ha radicalizzato a destra, fortissimo nelle competizioni locali (e non a caso da decenni detentore delle maggioranze al Congresso e spesso anche al Senato), il partito conservatore americano fa fatica a trovare un candidato forte, che emerga tra i nomi noti della leadership e capace di unire il partito.
E non è un caso che nella sfida tra i senatori Marco Rubio e Ted Cruz, il Governatore della Florida Jeb Bush, il Governatore del New Jersey Chris Christie, Carso, Fiorina, e Governatori o ex come Gilmore, Scott Walker, Jindal, Huckabee, Kasich, Pataki, Perry o Senatori e ex come Graham, Rand Paul, Marco Rubio, Rick Santorum, alla fine abbia prevalso Donald Trump.
Nessun primo inter pares che ha lasciato campo libero a qualcosa che va oltre il semplice populismo tipico dei “miliardari americani in cerca di potere”.
Ed un tema di mancanza di leadership che si riproporrà tra quattro e forse anche otto anni.


Ago della bilancia saranno, ancora una volta, tre categorie di persone ed elettori, che almeno sulla carta nessuno dei candidati rappresenta davvero.
Sono i giovani alla prima esperienza elettorale, sono gli immigrati di prima generazione al primo accesso al voto e quelli di seconda generazione a seconda che si registrino o meno al voto.
Sono le donne, soprattutto le donne, che come abbiamo visto sono state quelle più chiamate in causa e che per la prima volta hanno una propria candidata che può vincere, soprattutto contro un candidato che, al di là delle parole, chiaramente non le rappresenta (e ne ha scarsa considerazione).


E tuttavia va ricordato che li Stati Uniti sono un paese vasto (ben sei ore di fuso orario) e molto eterogeneo. Un insieme di stati centrali, normalmente tendenzialmente conservatori, che salvo rare eccezioni sono anche poco densamente popolati, ed esprimono quindi “pochi voti presidenziali”.
Gli stati della costa, più giovani, industrializzati, ricchi e tecnologici, non privi di contraddizioni anche politiche.
La California ad esempio, che esprime spesso due senatori democratici, ma quasi sempre amministrata da governatori repubblicani. O lo Stato di New York, in cui hanno convissuto un sindaco repubblicano, una maggioranza in congresso e in senato democratica e un governatore repubblicano.
In America si vince con la maggior parte dei voti presidenziali, e non con la maggior parte dei voti popolari. Per cui si può anche stravincere da qualche parte in termini di voti, e perdere di strettissima misura in Stati chiave, e perdere quindi le elezioni complessive.
Andrà quindi con attenzione compreso sino a che punto i candidati al Congresso, in Senato, i Governatori e i Sindaci dei singoli Stati spingeranno con forza, fondi e determinazione per il corrispondente candidato Presidente, o se tutto verrà sostanzialmente lasciato al sentiment dell’elettorato, smarcando il proprio destino dal candidato alla Casa Bianca (ipotesi molto probabile per Trump, meno per la Clinton).


Stando ai sondaggi di quindici giorni prima del voto i rapporti dovrebbero essere – in termini di intenzioni di voto quantitativo sul voto popolare – di 48 a 42. 
Quanto sia poi spalmato questo voto non è dato sapere, anche se la conta pare sia abbastanza netta, con pochi stati in bilico.
262 voti sono praticamente già accreditati per la Clinton, 164 già attribuiti a Trump, e solo 112 sarebbero i voti ancora da assegnare (va ricordato che viene eletto chi si aggiudica almeno 288 voti).


Con la Clinton sarebbero
Michigan (16)
Illinois (20)
New Jersey (14)
Washington (12)
Rhode Island (4)
Delaware (3)
Maine CD1 (1)
New Hampshire (4)
Maine (2)
Wisconsin (10)
Colorado (9)
Oregon (7)
Pennsylvania (20)
Virginia (13)
Connecticut (7)
New Mexico (5)
Massachusetts (11)
New York (29)
California (55)
District Of Columbia (3)
Hawaii (4)
Maryland (10)
Vermont (3)

Sarebbero assegnati a Trump
Indiana (11)
Texas (38)
Missouri (10)
South Carolina (9)
Utah (6)
Louisiana (8)
Mississippi (6)
Montana (3)
South Dakota (3)
Tennessee (11)
Alaska (3)
Kansas (6)
Nebraska CD2 (1)
Alabama (9)
Arkansas (6)
Kentucky (8)
Idaho (4)
Nebraska (4)
North Dakota (3)
Oklahoma (7)
West Virginia (5)
Wyoming (3)


Ancora da assegnare secondo gli analisti sono
Georgia (16)
Florida (29)
Ohio (18)
North Carolina (15)
Nevada (6)
Minnesota (10)
Iowa (6)
Arizona (11)
Maine CD2 (1)

Cosa è successo nel terzo dibattito tra Trump e la Clinton?

Il terzo ed ultimo dibattito tra Donald Trump e Hillary Clinton può essere annoverato come un esempio da manuale sotto tutti e tre i punti di vista.

Esempio di ottima ed equilibrata moderazione da parte del conduttore Chris Wallace, una vera icona del giornalismo americano. Figlio di Mike Wallace, reporter di “60 minuti alla CBS”. Dopo il divorzio dei genitori suo patrigno è stato Bill Leonard, presidente della CBS News, che lo ha affiancato a Walter Cronkite già nel 1964. Ha lavorato per la carta stampata (al Boston Globe, uno dei giornali più rigorosi al mondo, quando era studente ad Harvard e a Yale), ma la passione per il giornalismo politico lo ha proiettato prevalentemente in televisione, in NBS e Fox, sempre ai vertici dei programmi di approfondimento come della cronaca politica, già dal 1982 al 1989 quando fu tra i più longevi “corrispondenti anziani” dalla casa Bianca.
Un curriculum di grande rispetto con una conoscenza della politica e del giornalismo politico che abbiamo visto perfettamente applicato al terzo dibattito. Nessuna remora a interrompere i candidati, a riportarli sul punto della domanda, nessuna soggezione alla storia politica, alla reputazione ed all’atteggiamento dei suoi interlocutori, perfetta conoscenza del tema di domanda, e grandissima esperienza nella moderazione dei temi, riuscendo nel difficile compito anche di far rispettare i tempi della risposta e delle repliche.
Un giornalismo d’altri tempi che è risultato imparziale ed equilibrato ed ha consentito ai telespettatori di entrare nel merito (primo blocco in particolare) delle rispettive posizioni su temi di cronaca e attualità della politica nazionale.


Esempio da manuale di come si gestisce un dibattito da parte di un candidato. È il caso della Clinton che ha preparato a lungo le risposte per stare nei tempi e nelle giuste percentuali: 2/3 del tempo per essere precisa nell’esporre la sua posizione e la sua risposta su ogni punto, e 1/3 per attaccare l’avversario.
Lo si è visto su tutto: nomine alla Corte Suprema, aborto, controllo delle armi, immigrazione, controllo confini, mailgate, nucleare, economia interna, rispettive fondazioni benefiche, trattamento di donne e immigrati.
La Clinton ha prevalso su qualsiasi argomento, anche quelli teoricamente più congeniali ai repubblicani ed a Trump, come immigrazione, intervento militare, capacità di comando, sicurezza interna.
Il passaggio probabilmente più “potente” è stato sul cavallo di battaglia di Trump che si è sempre speso come “l’uomo contro i politicanti” che non fanno nulla, mentre lui ha costruito una grande azienda: la Clinton ha replicato ricostruendo cosa faceva Trump in parallelo al suo curriculum “mentre io ero nella stanza dei bottoni durante la cattura di Bin Laden Trump produceva miss Universo, mentre io difendevo i diritti delle minoranze Trump veniva accusato di discriminazione, mentre io mi laureavo con le mie forze Trump avviava la sua azienda con i soldi di papà, mentre io pago le tasse Trump non mostra la sua dichiarazione dei redditi e non ha versato un solo dollaro di tasse federali, e ne paga meno degli immigrati che insulta”.
Un parallelo senza concessioni. E senza diritto di replica. Fondato su semplici fatti esposti in maniera sequenziale, manichea, diretta, semplice.


Esempio infine da manuale di come non si deve affrontare un dibattito in televisione. È il caso di Trump che è apparso sconclusionato, non organizzato, violento (cosa che è maggiormente emersa in senso negativo essendo la sua avversaria una donna), irrequieto.
Non ha mai risposto nel merito, ha sempre cambiato discorso e spostato l’attenzione su altri argomenti. Non ha presentato un solo dato che avesse un minimo di fonte. 
Ha negato l’evidenza di sue stesse dichiarazioni e posizioni precedenti – cosa che ci stava due mesi fa ma non all’ultimo dibattito quando non si ha tempo per una polemica e precisazioni successive in campagna elettorale.
Il suo cedimento maggiore è stato ripetere più volte “una presidenza Clinton” rivolgendosi alla sua antagonista, il che ha reso materiale e concreto il successo della sua avversaria.
Peggio ancora il discorso libero finale con l’invito al voto: Trump non ha fatto il suo, si è limitato ad attaccare e replicare a quanto detto dalla Clinton, che altro non era che un invito all’unità nazionale ed al bisogno che tutti partecipassero al voto ed alla campagna.

La pietra tombale è stata la domanda tecnica, se avrebbe accettato il risultato: alla posizione presidenziale della Clinton “abbiamo una tradizione di elezioni libere e noi accettiamo i risultati anche se non ci piacciono, ed è questo che ci si deve aspettare da ogni candidato”, la risposta di Trump è stata “non lo so, vedrò quel giorno”, il risultato del voto è falsato “da una stampa corrotta e iniqua, e un voto a cui si registrano milioni di persone che non ne hanno diritto” e ancora “abbiamo un candidato come la Clinton che per i suoi reati non dovrebbe nemmeno poter concorrere”.
Un assist alla Clinton formidabile per replicare: “un anno di indagini mi hanno prosciolto da qualsiasi ipotesi di accusa, non sono stata accusata di niente, ogni volta che Trump pensa che le cose vadano diversamente da come vuole lui, dice che tutti ce l’hanno con lui, quando ha perso alcune primarie repubblicane lì il voto era corrotto, quando non ha avuto un Emmy per i suoi programmi, anche i Emmy erano corrotti” per chiudere “sarà anche divertente ma non è così che funziona la nostra democrazia”.


La conclusione da cronaca del conduttore “abbiamo una tradizione in cui la sera dei risultati il candidato perdente chiama il vincitore per congratularsi ed accettare il risultato, lei sta dicendo che non lo farà”.
Un messaggio di sintesi che ha colpito certamente la parte moderata degli elettori di tutti gli schieramenti, anche gli indipendenti, che di certe tradizioni democratiche fanno un fondamento dell’unità dello stato e della democrazia americana. E in questo passaggio, per molti, più che per i singoli temi e punti di vista, Trump è stato percepito come un pericolo.
Il sondaggio del giorno dopo ha visto il minimo storico di Trump nelle intenzioni di voto con un 38 a 52. Una forbice che è probabilmente destinata anche a crescere.

Il secondo dibattito tra Hillary Clinton e Donald Trump

Donald Trump aveva due obiettivi per il secondo dibattito presidenziale della notte scorsa: 1) distogliere l’attenzione dalle dichiarazioni registrate del 2005 in cui si vantava della sua capacità di “assaltare” le donne e 2) doveva mantenere la sua base elettorale, e recuperare quanti, nel partito repubblicano, lo avevano abbandonato la settimana scorsa.
Per raggiungere questi obiettivi è tornato alla strategia con cui ha vinto le primarie e ottenuto al nomination, definita dai commentatori politici “carne al sangue” (per qualcuno “carne cruda”).

Prima dell’inizio del dibattito il suo team ha trasmesso un incontro tra Trump e quattro donne che hanno accusato Bill e Hillary Clinton i vari misfatti, tra cui Paula Jones , Kathleen Willey , Juanita Broaddricke Kathy Shelton. Inoltre – dopo un video in cui era apparso imbarazzato e chiedeva scusa per le sue dichiarazioni del 2005 – le ha ridimensionate durante il dibattito a “chiacchiere da spogliatoio da palestra” e “solo parole”.


A parte i primi venti minuti, in cui Trump è apparso sulla difensiva e faticava a trovare un ritmo, il dibattito si è trasformato in un match di wrestling, teatrale e retorico, favorito anche dall’impianto con i candidati in piedi, a microfono mobile e liberi di muoversi.
Trump ha attaccato a mani basse praticamente su tutto, cambiando spesso argomento, senza praticamente mai rispondere nel merito, cercando sempre e solo di svicolare, arrivare ai suoi slogan vincenti, e dimostrare di non essere stato messo all’angolo.
Ha detto che se fosse stato eletto, che avrebbe chiamato per un procuratore speciale per indagare sull’uso da parte della Clinton di mail private quando era Segretario di Stato. Una politicizzazione del Dipartimento di Giustizia che ha ricordato agli analisti più attenti l’ultima spiaggia di Richard Nixon e che ha ricordato al pubblico l’immagine di Kennet Starr che indaga sul caso Clinton-Lewinsky.


La Clinton non è stata così forte come era nel primo dibattito, né forse così determinata.
Immaginava un Trump dimesso e in svantaggio per il calo dei consensi nel suo stesso elettorato, e non ha voluto affondare il colpo in attesa della replica di Trump sugli scandali sessuali del marito Bill. Particolarmente evidente è stato il passaggio in cui ha citato Michelle Obama, “quando lui abbassa il livello, tu innalzalo”, ma che ha evidenziato sostanzialmente una non risposta dell’ex first-lady.


Quanto alla sostanza delle cose dette, anche non essendo direttamente parte della politica e della società americana, il dibattito è stato farcito davvero da tantissime balle. Opinione riscontrata anche dal titolo del resoconto di factcheck.org – sito indipendente che “verifica le affermazioni nei dibattiti pubblici americani” che ha affermato letteralmente: Abbiamo trovato una montagna di dichiarazioni false e fuorvianti.


Il Wall Street Journal ha affermato che Trump “ha trovato il suo passo”. Il New York Times ha detto affermato che Trump era migliore di quanto non fosse nel primo dibattito e che la Clinton peggiore, ma non ha dichiarato un vincitore. 
Un sondaggio della CNN ha rivelato che il 57 per cento degli intervistati ha consegnato il dibattito a Clinton e solo il 34 per cento ha dichiarato Trump vincitore. I bookmakers – vero autorevole player dei sondaggi elettorali – non sono mai stati così certi che la Clinton vincerà le elezioni, aumentando la loro previsione ad una probabilità dell’87 per cento dall’80 di pochi giorni fa.


Come tutti gli show, a quanto pare, anche la campagna per le elezioni presidenziali Usa2016 si deciderà all’ultimo dibattito, a due settimane dal voto, salvo assoluti colpi di scena.
Vanno però segnalate due curiosità.
La prima è la base elettorale: la Clinton con il suo richiamo all’essere uniti cerca – ovviamente – di espandere il suo elettorato a quei repubblicani moderati che non disdegnano una collaborazione tra i due partiti nelle scelte centrali del governo del paese.
Trump, che ha in parte perso l’appoggio repubblicano, e che ha visto lo spettro di una richiesta di ritiro – che dopo il dibattito è poco probabile che ci sarà – ha richiamato più volte l’attenzione su uno zoccolo duro personale, quei 25milioni di follower che lo seguono sui social: un patrimonio suo, personale, che sbaraglia ogni repubblicano candidabile.
La seconda è un articolo fatto davvero molto bene pubblicato dal Washington Post, una sorta di “guida al linguaggio del corpo” durante i dibattiti elettorali, che integra le molte cose scritte e valutate dagli analisti ed offre qualche elemento in più – utile anche per noi e per la politica di casa nostra, nell’osservare i politici mentre cercano di guadagnarsi il consenso attraverso lo strumento televisivo.

Donald Trump, in un video commenti sessisti anche alla figlia Ivanka

Il secondo dibattito Trump – Clinton che si è svolto stanotte non poteva cominciare sotto una luce più nefasta per il magnate della finanza. Donald Trump ha partecipato al confronto con la sua rivale alla carica presidenziale, Hillary Clinton, nel pieno della bufera scatenata da un video della Cnn di venerdì. Si tratta di un audio rubato al tycoon nel 2005, mentre si stava recando sul set di uno show insieme al conduttore televisivo Billy Bush. Ancora insulti alle donne e commenti sessisti da parte di Donald Trump, colti dal microfono acceso del conduttore. A pochi mesi dal suo terzo matrimonio con Melania Trump, l’uomo dichiarava di aver provato a portare a letto una donna sposata. «Quando sei una star le donne te lo lasciano fare» dichiara nel video, riferendosi ad apprezzamenti pesanti, palpeggiamenti e rapporti sessuali.

Ma cosa ha detto Trump nell’ennesimo video che ha indignato l’America e il mondo intero? «Ho tentato di sc*****a, era sposata. Ci ho provato come si fa con una prostituta, ma non ce l’ho fatta». Trump ha dedicato frasi sessiste anche alla compagna del conduttore, l’attrice Arianne Zucker, facendo apprezzamenti sul suo fondoschiena. Perfino Ivanka Trump, allora ventiquattrenne, ha avuto la sua dose di commenti poco lusinghieri. «Va bene se chiamano Ivanka un pezzo di f***» ha detto, aggiungendo che se non fosse stata sua figlia ci avrebbe provato e anche con lei perché non si pone limiti di età. A poche ore dal dibattito Trump – Clinton questo video, pubblicato dalla Cnn e poi diffuso da tutti i media, ha provocato un’incontenibile bufera su Donald Trump e sulla sua candidatura. I suoi stessi compagni di partito auspicano un suo ritiro, a partire dal suo vice Mike Pence che si è dichiarato offeso dai commenti sessisti in quanto marito e padre. Il Presidente uscente Obama ha commentato il video semplicemente con l’espressione «cose inquietanti» e la rivale Hillary Clinton ha chiesto in un tweet che le donne americane lo fermino. Anche un personaggio dello spettacolo come Robert de Niro ha girato un video in cui dichiara «È un cane, un maiale, a me piacerebbe prenderlo a pugni». Perfino la moglie del magnate, Melania Trump, si è vista costretta a commentare l’accaduto. «Le parole di mio marito sono inaccettabili ed offensive. Non rappresentano l’uomo che conosco – ha dichiarato la moglie di Trump, aggiungendo – Spero che la gente accetti le sue scuse, come ho fatto io».

Cosa ha detto Trump di tutto questo trambusto? «Erano chiacchere da spogliatoio. Bill Clinton mi ha detto cose molto peggiori, giocando a golf. Comunque mi scuso se qualcuno si è offeso» – ha dichiarato in un tweet. Per poi aggiungere «Vogliono farmi fuori, ma io non mi ritiro».

Muhammad Alì, tra Malcom X e Donald Trump

Si ripete spesso che lo sport è formativo, che insegna regole e valori, e che forma i giovani. E che i veri campioni lo sono dentro e fuori dal campo.


Cassius, come molti afroamericani che lottavano per il riconoscimento dei diritti civili e contro la segregazione razziale si unì al movimento afroamericano Nation of Islam, quella di Malcom X, e cambiò legalmente il suo nome.
Nel 1967, tre anni dopo la conquista del campionato mondiale, Alì si rifiutò di combattere nella Guerra del Vietnam e per questo, fu arrestato e accusato di renitenza alla leva e privato del titolo iridato. L’appello di Alì fece strada sino alla Corte suprema degli Stati Uniti d’America, che annullò la sua condanna nel 1971. La sua battaglia come obiettore di coscienza lo rese un’icona nella controcultura degli anni sessanta.


Prima dello storico incontro con Foreman, Mohamed Alì incontrò degli studenti che gli fecero alcune domande.
Tra questi, uno studente gli chiese se lui fosse davvero “il più veloce”, e se questa velocità riguardasse solo il pugilato. Alì rispose di si e che la velocità è una forza che hai dentro.
Allora, incalzando, lo stesso gli chiese avesse potuto “battere” la poesia più corta mai pubblicata che era di sole quattro parole. Alì guardò i ragazzi e disse “la mia poesia ha solo due lettere”: “we” (noi).


Con l’avvicinarsi delle Olimpiadi pochi di noi possono scordare l’emozione di quella fiamma olimpica accesa da Muhammad Ali, nato Cassius Marcellus Clay Jr.: l’ultima sua battaglia, quella mano che a fatica era tenuta ferma, con braccio immobile, combattendo contro i tremori dell’alzheimer. 
E ci saremo augurati, per quel grande combattente che ha insegnato agli ultimi, ai diseredati, agli afroamericani come ai sudafricani a combattere per i propri diritti dentro e fuori dal ring, rispettando le regole, che quella fosse l’ultima sua battaglia. 
Gli avevamo augurato, in cuor nostro, di trascorrere l’ultima parte della sua vita “riposandosi”.
Ma sarebbe stato innaturale per lui.


L’ultimo suo atto pubblico è stato scrivere di suo pugno un messaggio di risposta a quel Donald Trump che ha proposto – da candidato presidente – di chiudere le frontiere ai musulmani.
Anche per Alì è stato troppo.


“Io sono un musulmano e non c’è niente di islamico nell’uccidere persone innocenti a Parigi, San Bernardino, o in qualsiasi altra parte del mondo. I veri musulmani sanno che la violenza spietata dei cosiddetti jihadisti islamici va contro gli stessi principi della nostra religione.
Noi come musulmani dobbiamo resistere a coloro che usano l’Islam per portare avanti i propri programmi personali. Essi hanno alienato molti dall’imparare a conoscere l’Islam. I veri musulmani sanno o dovrebbero sapere che va contro la nostra religione provare a costringere qualcuno a convertirsi all’Islam.
Credo che i nostri leader politici devono usare la loro posizione per sensibilizzare alla comprensione dell’Islam e chiarire che questi assassini hanno influenzato negativamente le opinioni dei cittadini su ciò che l’Islam è veramente.”


Ecco. Quando diciamo genericamente che si deve essere campioni nello sport e nella vita, ai giovani basterà ricordare questo grande pugile, capace di combattere senza risparmiarsi, e di un’infinita tenerezza.
E dovremmo semplicemente sapergli dire grazie. E scusa per il male che ti abbiamo fatto.

Elezioni Usa, Hillary Clinton è la prima donna in corsa per la Casa Bianca

Con l’inattesa vittoria alle primarie Usa in California, lo stato più popoloso e influente, Hillary Clinton conquista la “nomination” per la corsa alla Casa Bianca, la prima di una donna nei 240 anni della storia degli Stati Uniti. Ieri si è aggiudicata la vittoria in California, New Jersey, New Mexico e South Dakota contro l’avversario di partito Bernie Sanders e avendo superato la soglia di 2.383 delegati è ormai la candidata del Partito Democratico per le elezioni presidenziali di novembre. «Grazie a tutti, abbiamo raggiunto una pietra miliare, e’ la prima volta nella storia della nostra nazione che una donna sara’ la candidata di un partito importante – ha dichiarato alla folla riunita al Brooklyn Navy Yard di New York per festeggiare – Questa vittoria non riguarda una persona. Appartiene a generazioni di donne e uomini che hanno combattuto, si sono sacrificate, e hanno reso questo momento possibile».


Hillary Clinton ha fatto pacate congratulazioni «per la straordinaria campagna che ha condotto» a Bernie Sanders, che pure dichiara di non arrendersi e di sperare ancora che la convention di luglio possa ribaltare il risultato delle primarie Usa. L’attuale Presidente Barack Obama ha già chiamato ieri sera i due candidati del partito democratico, invitandoli ad unire le forze per battere il repubblicano Donald Trump, e a questo scopo vedrà Sanders domani pomeriggio per convincerlo ad appoggiare Hillary. Dal canto suo, anche il magnate ha festeggiato ieri un importante traguardo, cioè un numero record di votanti alle primarie repubblicane. Festeggiamenti che si sono dimostrati l’ennesima occasione per lanciarsi a testa bassa in una serie di invettive contro Obama e i Clinton, accusati di fallimenti ed errori di varia natura e di aver «trasformato la politica dell’arricchimento personale in una forma d’arte per se stessi». Nonostante gli apparenti successi, il suo stesso partito fatica a perdonare il discorso decisamente razzista di lunedì in cui Trump ha messo in dubbio l’attendibilità dei giudici ispanici.


Le spaccature che attraversano sia il partito democratico che quello repubblicano rendono quindi sempre più incerto l’esito delle elezioni Usa del prossimo novembre. La maggioranza degli uomini bianchi dichiara di votare Donald Trump, ma Hillary ha dalla sua sicuramente le minoranze e molti dei cittadini americani più giovani sono stati avvicinati all’ala democratica da Sanders. C’è da dire che la Clinton, considerata per 20 anni consecutivi la donna più ammirata d’America (secondo i sondaggi Gallupp) oggi non gode in toto delle simpatie femminili. Nonostante la portata storica della sua candidatura alle elezioni presidenziali, è infatti accusata di essere “un prodotto della cultura maschilista” e di essersi fatta strada nel mondo della politica grazie alle influenze del marito Bill.

Sanders e Trump, i candidati antipartito delle primarie americane

Bernie Sanders non vincerà queste primarie. Non perchè non sia un politico capace. Anzi la sua storia è costellata di battaglie difficili, di posizioni scomode, di scelte coraggiose. Non vincerà perchè “è troppo a sinistra”. La sua battaglia in queste primarie ha tre ragioni profonde. 
La prima, perchè è importante che in democrazia ci siano alternative e non plebisciti preconfezionati. E questa è una grande lezione per tutte le democrazie: ricordare che è fondamentale che non vi siano solo alternative tra partiti e leader, ma anche un’alternativa e un dibattito interno nello stesso partito.
La seconda, a conclusione di una lunga carriera e storia politica di battaglie sociali e per i diritti civili, Sanders ha poco o nulla da perdere, e molto da rivendicare e ricordare al suo partito, al suo popolo, e al suo partito.


La terza, perchè proprio per la prospettiva plebiscitaria di queste primarie, certi temi e certe battaglie se non le riporta “uno come lui” nell’agenda politica rischiano di restare ai margini.
Primo fra tutti offrire un’antitesi forte alle tesi del teaParty e di quel nucleo di imprenditori disposti a tutto pur di non regolamentare il salario minimo e le questioni ambientali.
Il sogno, da dodici anni a questa parte, era una discesa in campo di Elisabeth Werren, in qualche modo la capocorrente di qualla parte di pensiero dei Democratici americani. Ma con un’altra donna in lizza sarebbe stato stavolta davvero complicato. Ci ha pensato Bernie.


Va detto che proprio per il metodo e per il dibattito democratico, le primarie ben si prestano a far emergere candidati più radicali, che anche mediaticamente appaiono più decisi, forti, schierati, chiari. Ma non è ciò che fa vincere le primarie che fa vincere anche le elezioni vere. E questo lo sanno bene i circa 400 grandi elettori indipendenti: quei nomi che votano per le primarie indipendentemente dagli stati, e portano “voti presidenziali” ai singoli candidati: 360 sono con la Clinton, 5 con Sanders. A questi si sommeranno i voti conquistati stato per stato.


Discorso analogo per Donald Trump, mattatore televisivo che comincia a scricchiolare anche lui nel voto vero delle primarie repubblicane. Qui non ci sono i maggiorenti del partito a pesare, e chi vince anche di un solo voto in uno stato porta a casa tutti i voti dei delegati statali (e non proporzionalmente come per i democratici). E quindi se per Sanders può andare meno peggio, per Trump il popolo repubblicano una seria riflessione la fa, e pesantemente.
Trump si avvicina ma non riesce a vincere in modo forte e convincente, e l’elettorato del GOP premia i suoi (numerosi e frammentati) avversari, che tuttavia restano in campo, crescono, pronti ad una seria riflessione tra qualche mese per chiudere sul ticket che ha maggiori chance di competere e vincere. Ma anche lui non è un fenomeno da sottovalutare. Un magnate due volte sull’orlo della bancarotta salvato dall’intervento pubblico, che si schiera contro l’intervento statale, che combatte contro il lavoro degli immigrati, che tuttavia sono la indicibile e impopolare ossatura di ciò che resta della grande industria americana e della sua rete di distribuzione. Attaccare il Papa per qualcuno è stato un autogol, e politicamente certamente lo è stato. Ma anche il suo messaggio non è da sottovalutare, e scremato da populismo, manicheismo, goffaggine e quant’altro è forte e chiaro.


La classe che ha finanziato il TeaParty, che sta dietro le costosissime campagne repubblicane (che hanno pochi finanziamenti diffusi e grossi finanziamenti di imprese private) oggi vuole contare in prima persona, non si accontenta di finaziare, stare dietro le quinte, ottenere la tutela dei propri interessi dietro le quinte e quando non sono troppo impopolari.
Quella classe sociale vuole esserci in prima persona, e dimostra di poter pesare e contare, almeno sino a quando i politici di professione (i Bush, i Cruz, i Rubio) non scenderanno a “più miti consigli” sulle loro posizioni e prenderanno impegni oncreti.


Ad esempio con quei fratelli Koch che sono pronti a spendere sino a 900milioni di dollari per le prossime presidenziali, creatori del TeaParty e magnati dell’industria del carbone e dell’acciaio, seriamente minacciati da qualsiasi legge di tutela ambientale, di riduzione delle emissioni, accordi di Kyoto vari ed eventuali.
Se non teniamo conto di questi fattori in campo, è davvero molto difficile comprendere le primarie americane, e confonderle con una buffonata televisiva.

Verso USA 2016

Manca oltre un anno al voto presidenziale americano, e le primarie sono già cominciate qualche mese fa. Ufficialmente ad aprile, con le varie dichiarazioni di “discesa in campo”, a caccia di sostenitori e finanziatori. La prima sfida è esattamente questa: assicurarsi per tempo un certo numero di comitati, sedi, volontari, macchine organizzative, banche dati, e ovviamente cospicui fondi elettorali. Tutto questo è “la dote” che i candidati porteranno – alla fine – a ciascuno dei due candidati del proprio schieramento politico che risulteranno vincitori, e il peso politico di ciascuno si misurerà esattamente in questa forza e nelle risorse raccolte e disponibili per la “campagna vera”.
Ad oggi di sorprese ce ne sono almeno due.


La prima è in casa democratica. Prevedibile che la corsa di Biden fosse solo strategica, ma addirittura doppiato da Sanders nessuno se lo aspettava. Prevedibile che la Clinton, senza avversari veri, soprattutto a sinistra, battesse tutti, ma non addirittura che superasse il 50% delle preferenze nonostante una politica presidenziale che mese dopo mese le “sottrae” progressivamente molti argomenti: dall’Iran a Cuba ai diritti lgbt.

La seconda, vera, grande sorpresa è però in casa repubblicana, dove il miliardario Donald Trump sta letteralmente doppiando ovunque i due avversari diretti e “veri” di queste presidenziali: Jeb Bush e Marco Rubio. Il dato è straordinario anche perché entrambi gli sfidanti non hanno alcun problema di raccolta fondi o organizzativo, ed entrambi sono politici navigati, con una struttura solida e ottimi argomenti. Ed anche nei dibattiti televisivi, nonostante gli altri siano più preparati è sempre Trump a dominare la scena, nonostante evidenti gaffe.


Verso USA 2016


Certo, non si è ancora votato in Stati popolosi e determinanti, né in quelli propriamente repubblicani, ma il dato va letto in molti modi. Intanto la classe media elettrice repubblicana non si fida più dei politici di professione. Quell’elettorato prematuramente stimolato da Ross Perot stavolta sembra maturo per una scelta “diretta”. Trump, da miliardario, appare meno “succube” e ricattato dai finanziamenti delle lobby, e questo alone di indipendenza fa gioco in questa fase.
Che voglia davvero arrivare alla fine della corsa non è dato sapere, di certo il segnale è politicamente chiaro: il mondo dei miliardari americani che fanno l’economia vogliono partecipare in maniera diretta e determinate alle scelte politiche, e non solo finanziare e pesare dietro le quinte per ottenere favori occasionalmente e quando politicamente la cosa non disturba.


Verso USA 2016


Se questo è il messaggio politico che consegna al GOP la candidatura di Trump, la risposta dell’elettorato non si fa attendere: Trump può anche vincere le primarie interne ma è anche quello che con maggiore certezza perderebbe le elezioni vere contro i democratici, già a prescindere favoriti, mentre la Clinton avrebbe vita certamente più difficile con Bush e Rubio.

Questa la situazione ad oggi, a 360 giorni dalla chiusura delle primarie dei due partiti. 
Un anno per ampliare e consolidare le proprie forze e risorse, e per decidere entro marzo a chi consegnare – in caso di ritiro – il proprio capitale politico, stringere alleanze, ottenere candidature e posizioni di potere in vista del novembre 2016.
E tutto questo a meno di sorprese e new entry che nella politica americana non mancano mai.


Verso USA 2016