La Bella e la Bestia diventa realtà: la rosa incantata che non sfiorisce mai esiste davvero

La Bella e la Bestia, il film live action che ripropone il classico Disney con attori in carne e ossa, diventa realtà. Il simbolo più iconico della magica storia d’amore tra la bella appassionata di libri e il principe trasformato in bestia esiste davvero: è la rosa incantata, conservata sotto una campana di vetro, che nel film rappresenta lo scorrere del tempo fino allo spezzarsi dell’incantesimo. La realizza un fioraio inglese, che con il brand Forever Rose si occupa da anni delle decorazioni floreali per la Famiglia Reale e ha deciso di portare un po’ di magia nelle vite delle principesse moderne. Conservati sotto una campana di vetro, proprio come la rosa incantata de La Bella e la Bestia, le rose e i bouquet di Forever Rose non sfioriscono mai. Non hanno bisogno né di luce solare né di acqua, e aggiungono un tocco di romantico incanto all’arredamento di casa.


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Qual è il segreto della rosa incantata di Forever Rose? Si tratta di una varietà che cresce nei «terreni vulcanici ricchi di minerali dell’Ecuador – si legge nel sito web dell’azienda – Crescono fino a dieci volte più resistenti e con petali cinque volte più grandi di qualsiasi altro fiore esistente». Si può scegliere fra trenta varietà di colore, oppure creare un intero bouquet mescolando le rose, ma la più richiesta è proprio The Bella Rose, creata appositamente in collaborazione con Disney in occasione dell’uscita del live action La Bella e la Bestia (acquistabile qui). Il film con Emma Watson e Dan Stevens ha riacceso i cuori dei bambini che negli anni ’90 si erano innamorati del cartone animato, della romantica fiaba e di una delle principesse più moderne e femministe della storia Disney. Per acquistare la propria rosa incantata bisogna spendere dai 70 ai 300 dollari, ma è un investimento a lungo termine: non sfiorirà mai.


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Yoox crea una vetrina dedicata al mondo Disney

Inedito connubio Disney-Yoox per uno store online che vi aiuterà a tornare bambini: da oggi nasce una nuova piattaforma su Yoox.com, interamente dedicata al mondo di Disney. Largo ad abbigliamento, accessori, scarpe e complementi di design realizzati da diversi brand: l’ispirazione è una sola, il mondo di Disney, Disney•Pixar, Star Wars e Marvel.

Collaborazioni esclusive che traggono ispirazione dai cartoon che hanno contraddistinto la nostra infanzia: dalle clutch firmate Olympia Le Tan ed ispirate ad Alice nel Paese delle Meraviglie ai maglioni di Kenzo raffiguranti i personaggi de Il Libro della Giungla, fino alle scarpe di Vans ispirate a Toy Story o, ancora, agli orologi Nixon che omaggiano Star Wars: sulla piattaforma di shopping online ideata da Federico Marchetti sarà possibile trovare un’area apposita dedicata a Disney.

Le nuove collezioni create in esclusiva includeranno i prossimi film: tripudio di creatività e full immersion nel colore per la piattaforma di shopping online, che unisce i maggiori designer del momento in un progetto esclusivo. Non solo shopping ma anche lifestyle: su Yoox sarà infatti presente una interessante vetrina di contenuti editoriali pensati appositamente per celebrare il magico mondo Disney, le avventure di Star Wars e i fumetti della Marvel.

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L’esclusiva partnership prevede articoli di alta moda, sportswear, scarpe, borse ed accessori, ma anche pezzi di design per arredare la casa con stile: Federico Marchetti, fondatore di Yoox e amministratore delegato di Yoox Net a Porter Group, ha dichiarato: «La fantasia di Disney è stata per me una grande ispirazione quando ho ideato Yoox nel 1999 ed è un enorme piacere per me poter combinare oggi il brand senza tempo Disney e lo spirito innovativo di Yoox, portando ai nostri clienti contenuti creativi e prodotti difficili da trovare». Disney come Yoox amano «rompere gli schemi creando design non convenzionali» e «portare la creatività a un livello completamente nuovo».

Kenzo: una capsule collection per omaggiare Disney

Chi non ha visto Il libro della giungla, restando affascinato dalle avventure di Mowgli e dei suoi amici? Forse la favola più amata da intere generazioni rivive ora in un’esclusiva capsule collection lanciata da Kenzo. Una limited edition dedicata al celebre film della Disney, che oggi esce nelle sale in una versione nuova di zecca. Trattasi di un remake in chiave 3D della pellicola animata uscita nel 1967, con cui Walt Disney Pictures riporta in auge una delle storie più famose in assoluto.

Ora Carol Him e Humberto Leon, direttori creativi di Kenzo, traggono ispirazione proprio dai lussureggianti scenari della giungla descritti dall’originario romanzo di Rudyard Kipling e poi tradotti in cartoon da Disney, per una collezione in limited edition pensata per lui e per lei.

Motivi floreali, suggestioni tropicali, e, ancora, iconiche stampe che coniugano lo spirito della maison francese al mood jungle: da Bagheera la pantera all’orso Baloo fino alla temuta tigre Shere Khan, tutti i personaggi del film rivivono su una linea di maglieria che prevede felpe, t-shirt e bluse, per una capsule collection ricca di colore e brio. Giacche, abiti, top e camicie per lei, in cotone e seta stampate con i motivi che omaggiano la pellicola Disney; camicie hawaiane, pantaloni e giacche compongono invece la collezione pensata per lui. Anche qui stampe all over, in un tripudio di colori vitaminici e suggestioni naturalistiche.

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Scritto da Rudyard Kipling alla fine del XIX secolo, Il libro della giungla è forse una delle favole più amate in assoluto. Oggi, 14 aprile, esce nelle sale cinematografiche italiane la nuova versione 3D del film, prodotta da Walt Disney Pictures. Un appuntamento imperdibile per giovani e meno giovani.

La capsule collection di Kenzo dedicata alla celebre pellicola è disponibile dallo scorso 8 aprile sullo shop online del sito della maison francese, kenzo.com, in tutte le boutique Kenzo e negli store che trattano il marchio, come Colette a Parigi, Bergdorf Goodman a New York, Opening Ceremony a New York e Los Angeles, Selfridges a Londra, Excelsior a Milano e The Corner a Berlino.

(Foto tratte da Grazia.it)


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Biancaneve e i sette nani, la follia di Walt Disney

Il 21 dicembre 1937 presso il Carthay Circle Theatre di Los Angeles, al termine della proiezione in anteprima di quella che era stata definita una follia, il pubblico, composto tra gli altri da star del calibro di Charlie Chaplin, Shirley Temple, Clark Gable, Judy Garland e Marlene Dietrich, concesse una standing ovation al primo lungometraggio animato della storia. L’artefice di quella follia era Walt Disney e quel film era Biancaneve e i sette nani. All’epoca Walt Disney era un cineasta talentuoso che si era fatto conoscere prima per le Alice Comedies, nei primi anni ’20, e poi, soprattutto, per la serie di Mickey Mouse (dopo aver perso i diritti per Oswald the Lucky Rabbit) e delle Silly Symphonies, cortometraggi animati molto distanti dalle produzioni seriali di Tex Avery o dei fratelli Fleischer (creatori di Betty Boop e Braccio di Ferro).


Mickey Mouse era il simbolo del New Deal, il coraggioso americano che combatteva la paura della Grande Depressione con la positività che era tipica anche del suo creatore, Walt Disney (anche se, secondo alcuni, a disegnarlo sarebbe stato Ub Iwerks). Dall’altro lato c’erano le Silly Symphonies, anch’esse portatrici dei valori del New Deal e già capaci di per sé di rivoluzionare, dal punto di vista tecnico, il cinema d’animazione, ad esempio per l’introduzione della multiplane camera, capace di dare profondità all’immagine (in The Old Mill, 1937) o per aver regalato per la prima volta il colore (in Flowers and Threes, 1932) a delle produzioni fino a quel momento piuttosto spartane e dipendenti dai più importanti lungometraggi live action.


In realtà già qualcuno aveva provato a nobilitare un tipo di cinema che sembrava soltanto il surrogato di quello con attori in carne e ossa. Un primo tentativo l’aveva fatto l’argentino Quirino Cristiani, i cui film furono però distrutti in un incendio; in seguito c’era stata anche Lotte Reiniger con Le avventure del Principe Achmed (1923), realizzato con la tecnica delle silhouette. Ma nessuno di loro era stato in grado di dare ai cartoni animati un’impronta hollywoodiana, così come accadde per Biancaneve e i sette nani. D’altronde anche Max Fleischer – forte concorrente di Disney – avrebbe tentato la stessa operazione due anni dopo, con I viaggi di Gulliver (1939), ottenendo risultati tutt’altro che gratificanti. Gli ingredienti del successo di Disney erano piuttosto semplici, prelevati da una nota fiaba dei fratelli Grimm e riadattati secondo la visione del mondo di Walt Disney: da un lato una fanciulla dal volto e dal cuore candido, orfana prima della madre e poi del padre; dall’altro una matrigna – una regina – gelosa della crescente bellezza della sua figliastra nonché della sua giovinezza e della sua squisita bontà.


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Un primo tentativo di affronto: l’ordine a un cacciatore, uccidere la fanciulla e portare il suo cuore in uno scrigno. Ma il cacciatore, impietosito da Biancaneve, la lascia andare e così la fanciulla trova rifugio presso una casetta, al di là del bosco. Qui vivono i sette nani, che all’inizio lei scambia per dei bambini. I nani, i cui nomi rispecchiano le peculiarità caratteriali (Dotto, Gongolo, Eolo, Mammolo, Cucciolo, Brontolo e Pisolo), tornano a lavorare nelle miniere, mentre Biancaneve, calatasi più nel ruolo di ragazza-madre che di principessa, si occupa delle faccende domestiche, con l’aiuto degli animali della foresta, lavando e cucinando. Intanto la regina scopre che il cacciatore non le ha portato il cuore di Biancaneve ma quello di un cinghiale, così decide di muoversi in prima persona per annientare una volta per tutte la sua nemica e per essere lei «la più bella del reame». Ora rivela la sua vera natura: è una strega, una profonda conoscitrice di formule alchemiche mostruose, capaci di tramutarla in una vecchia megera; e capaci anche di trasformare il frutto del peccato originale, la mela – una bellissima mela rossa – in un’arma letale. L’ingenuità di Biancaneve non può nulla contro la furbizia della strega. Giunta alla casetta dei nani, è sufficiente offrirle la mela per assicurarsi che Biancaneve non si tirerà indietro: basta un solo morso per ucciderla.


Nel frattempo, gli animali della foresta corrono alla miniera per richiamare i nani e per avvertirli che Biancaneve è in pericolo. A sconfiggere la strega sarà il Fato, che la farà precipitare sghignazzando da un burrone, mentre tenterà di schiacciare i nani «come formiche». Quanto a Biancaneve, c’è un solo modo per risvegliarla da un sonno tutt’altro che mortuario: il bacio del vero amore, che potrà esserle dato da un giovane, un principe che già aveva dimostrato di amarla, quando aveva ascoltato la sua candida voce mentre raccoglieva l’acqua dal pozzo. Una fiaba con una trama semplice, lineare, con pochi ma essenziali personaggi, ognuno dei quali con una funzione ben precisa: la strega come antagonista, i nani come aiutanti, il principe come risolutore/salvatore; e Biancaneve che, passiva, attende il compiersi della propria sorte. Essere odiata perché lo Specchio Magico rivela alla regina che non è lei «la più bella del reame». C’è invidia, c’è odio, c’è soprattutto la profonda consapevolezza che la fanciulla potrebbe oscurarla. Questo è il moto dell’azione, che si sviluppa attraverso le celeberrime canzoni della Disney, che fanno diventare il film una vera e propria operetta.


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Una follia, già. Una follia che nel 1937 trasformò Disney e la sua azienda in colossi cinematografici, con incassi da capogiro, considerata l’epoca. Soltanto Via col Vento, due anni dopo, sarebbe riuscito a fare meglio. Ma Walt Disney non era uno capace di accontentarsi; e così, da vero self-made man, desiderò moltiplicare il proprio successo con qualcosa di ancora più ambizioso. I profitti di Biancaneve lo portarono a realizzare un nuovo studio, a Burbank, dove ora risiedono i Walt Disney Studios. Ma l’inizio della guerra e lo sciopero del ’41, a causa dei numerosi licenziamenti, non gli facilitarono le cose, per cui il film successivo, Fantasia (1940), troppo all’avanguardia per quei tempi, non fu abbastanza apprezzato, pur essendo la geniale unione tra cultura alta e cultura popolare: la musica e il cartoon, o meglio la musica classica e Topolino, simbolo aziendale decaduto, rilanciato nell’episodio L’apprendista stregone dopo che, nei cortometraggi tra la fine degli anni ‘30 e i primi anni ‘40, il successo di Paperino lo aveva quasi oscurato. Paperino era infatti diventato lo strumento di propaganda anti-nazista di Walt Disney, incarnando lo spirito dell’americano per eccellenza, esemplato in un cortometraggio – talvolta male interpretato – come Der Fuherer’s Face, laddove sognava di essere un nazista, per poi risvegliarsi da quel tremendo incubo e baciare la Statua della Libertà.


Film di propaganda, dunque. L’impegno politico di Walt Disney, che sarebbe diventato collaboratore di J. Edgar Hoover nella caccia ai comunisti, è indiscutibile sin dai primi cortometraggi di Topolino, ma anche in Biancaneve non mancano messaggi coraggiosi: l’iperattivismo dei nani è un inno al lavoro. Sono americani che non si perdono d’animo, che anche nei momenti più difficili continuano a lavorare con positività, instancabili. La stessa cosa la fa Topolino, che anzi, come già detto, incarnava l’essenza stessa del New Deal di Roosevelt. Dall’altro lato, come elemento negativo, troviamo il Lupo Ezechiele, che nei Tre porcellini (1933), secondo Ejzenštein, rappresentava la disoccupazione. E non a caso la canzone canticchiata da due dei tre porcellini (quelli più scansafatiche) era “Who’s afraid to the Big Bad Wolf?”, un testo scritto da Frank Churchill e inno del New Deal durante la Grande Depressione, citato anche da Frank Capra in Accadde una notte (1934). Capra, non a caso, era amico di Walt Disney.


Oltre a un forte richiamo alla realtà politica dell’epoca, però, Biancaneve è anche ricco di simboli. Per esempio Biancaneve che invoca l’amore quando raccoglie l’acqua del pozzo, ovvero le emozioni raccolte dal subconscio. E anche le personalità dei nani non sono casuali: si va dall’ingenuità infantile di Cucciolo alla saggezza di Dotto, con Brontolo a simboleggiare l’intolleranza e la vecchiaia e Gongolo e Mammolo negli stadi intermedi dell’innamoramento. Tutte le fasi della vita, scandite in sette personalità diverse. Ma i film di Walt Disney, non soltanto Biancaneve e i sette nani, sono stati interpretati anche in maniera tutt’altro che positiva. La metamorfosi della regina in vecchia, ad esempio, secondo un utente spagnolo di YouTube, alluderebbe a un’invocazione a Satana: «Polvere di mummia, per invecchiare; per tingere le vesti, il nero della notte; per arrochire la voce, risata di strega; per imbiancare i capelli, un urlo di terrore; turbine di vento, per agitare il mio odio». Sono ingredienti che hanno l’obiettivo di terrorizzare lo spettatore e di inquietarlo per il potere oscuro della regina e per le sorti di Biancaneve. Ma se così non fosse stato, se la regina non avesse avuto questi poteri oscuri, il film avrebbe perso interesse e non avrebbe avuto successo.


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Pur essendo tratto da una fiaba dei Grimm, il film ha alcune fondamentali differenze che addolciscono il contenuto e che riadattano la storia per il pubblico a cui Disney voleva rivolgersi: le famiglie americane che amano l’entertainment e il dolce sapore del lieto fine. Perché nel mondo di Walt Disney tutto deve finire bene e anche storie profondamente drammatiche come potevano essere il Peter Pan di Barrie (il triste isolamento del bambino in un mondo che gli impedisce di crescere e che lo porterà ad allontanarsi dalla famiglia), o simboliche come il Pinocchio di Collodi – devono avere i tratti tipici della “disneynità”. Per cui, se nella fiaba dei Grimm la strega tenta più volte di uccidere Biancaneve, prima soffocandola con una cintura e poi con un pettine avvelenato, nella Biancaneve di Walt Disney è sufficiente la mela avvelenata; in secondo luogo, il bacio del principe non esiste per i Grimm: Biancaneve si risveglia in maniera del tutto casuale, quando un principe (che non l’ha mai vista se non dopo essere stata avvelenata con la mela) la conduce nel suo castello e nel corso di una caduta Biancaneve riesce a espellere il boccone avvelenato. Niente di romantico, quindi. E anche la punizione del Fato è un’invenzione di Walt Disney: la matrigna, invitata alle nozze di Biancaneve con il principe, è costretta a indossare delle calzature incandescenti e a ballare, finché non muore. Varianti essenziali, come si è già detto, per identificare alcuni elementi con la Biancaneve di Disney, non con quella dei Grimm.


Le trasposizioni più recenti della celeberrima fiaba non fanno altro che restituire alla storia di Biancaneve il tema essenziale che Disney aveva cercato di celare: la sessualità. Perché in fondo la regina vuole uccidere Biancaneve perché è gelosa di lei, della sua bellezza, ma soprattutto della sua femminilità; una femminilità pericolosa perché le può sottrarre il suo sposo. Un elemento che nel film della Disney non è per niente accentuato, cosa che accade invece in Biancaneve (2012) con Lily Collins e Julia Roberts, laddove le due donne arrivano addirittura a contendersi il principe. È chiaro che, anche per il pubblico a cui è destinato Biancaneve e i sette nani (le famiglie, ma soprattutto i bambini, la cui sessualità è ancora latente), due donne che, per conquistare un uomo, esprimono al massimo la propria femminilità non sono affatto concepibili, anche se, nella Sirenetta (1989), questo elemento verrà fuori. Ma si tratta di un periodo differente, e soprattutto con un’azienda del tutto rinnovata e orfana di Walt Disney. Purtroppo le esigenze di marketing portano però anche a una rilettura di fiabe classiche secondo una visione moderna e di genere totalmente diverso che va a snaturare la morale stessa della storia, trasformandola in un futile intrattenimento fine a se stesso. È ciò che accade in Biancaneve e il cacciatore, sempre del 2012, che segue il filone di altre fiabe ritornate al cinema in live action come il deludente Alice in Wonderland (2010) di Tim Burton o come lo pseudo-horror Cappuccetto Rosso Sangue (2011); oppure, infine, l’altrettanto deludente e inutile remake La Bella e la Bestia (2014).


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Tornando a quella notte del 21 dicembre 1937, la follia di Disney si era rivelata una scommessa più che vincente: il successo al botteghino per il primo lungometraggio animato della storia, escludendo i tentativi – di cui si è già accennato – di Quirino Cristiani e di Lotte Reiniger, fu straordinario. Walt Disney, due anni dopo, si aggiudicò l’Oscar alla carriera e fu lodato da Chaplin e da Ejzenštein, che definì Biancaneve il più grande film mai realizzato. Tramandato per intere generazioni, amato da ogni famiglia, senza distinzione di sesso o di età, Biancaneve e i sette nani è il più grande classico fra tutti i classici Disney, una pietra miliare della settima arte, innovativo tanto quanto lo sarebbe stato Quarto Potere soltanto tre anni dopo ma molto più popolare. Un’esplosione incontenibile di emozioni, dettate da situazioni anche piuttosto naïf, ma assolutamente originale, se si considera l’epoca in cui è nato. Un film di quasi ottant’anni fa – settantotto, per essere precisi – ma immortale tanto quanto il suo creatore, un uomo che voleva farsi ibernare per ottenere l’immortalità e che è riuscito a salvaguardare il proprio nome, la propria fama, attraverso personaggi innocenti e genuini come dei bambini, divenuti tra i maggiori simboli della cultura popolare, non soltanto di quella occidentale.


GEORGINA MAY JAGGER LIKE MINNIE

La fashion influencer Georgina May Jagger protagonista e promotrice di una mostra in onore della celebre Minnie

Il conto alla rovescia è iniziato: dopo mesi di preparazione il 18 settembre la tanto attesa mostra dedicata all’amata fidanzata di Topolino prenderà il via, in concomitanza con la settimana della moda londinese. Protagonista indiscussa di questo progetto Georgina May Jagger, la 23 enne figlia dell’icona del rock  Mick Jagger e della stupenda Jerry Hall. Modella, fotografa e fashion influencer Georgina è oggi una delle icone di stile più seguite da mezzo mondo e, in quanto tale, non poteva non essere innamorata di colei che, prima di ogni altra, è stata essa stessa riferimento di stile: Minnie. Ebbene sì, perché il tanto amato cartoon Disney, creato nel 1928 dalla geniale mano di Walter Disney, già ai tempi interpretava lo spirito più anticonformista delle ragazze americane che in quella gonnellina a pois e quel fiocco nero in testa vedevano il segno tangibile della rivoluzione allora in corso in quel Paese, gli Stati Uniti, in cui la libertà di pensiero, di parola e di stile erano dogmi da portare avanti con il massimo della determinazione.

Ecco perché “Minnie style” non poteva che essere il nome di quella mostra che fino al 22 settembre 2015 presenterà una Georgina May Jagger inedita, truccata e agghindata proprio come la fidanzata di Topolino e vestita di abiti che, mai come in questa occasione, propongono una Minnie in carne ed ossa. Lei, Georgina, di tutto questo progetto è apparsa più che entusiasta, al punto di cimentarsi non solo come modella ma anche come fotografa.

Sono sempre stata una fan di Minnie“ ha dichiarato Georgia May ”e sono quindi elettrizzata all’idea di lavorare su questo progetto che metterà in luce con entusiasmo e creatività come la cultura pop può influenzare la moda”.

Parole sante quelle della modella inglese che con questo progetto ha così dimostrato come ancora una volta, generazione dopo generazione, il mito Disney si conferma come l’identificazione di una realtà “colorata, a tratti esilarante ma pur sempre elegante” o semplicemente l’interpretazione perfetta di quella componente irriverente che ogni femmina possiede. Generazione in generazione. Tutto nel segno della moda. 

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