La realtà ti frega sempre. È una vecchia battuta satirica. Ma dietro questa battuta della satira sulla satira c’è una verità ancora più profonda e disarmante. La satira moderna, nata in Francia con i primi giornali e subito esportata in Inghilterra, altro non è che la rivisitazione di quei giullari che erano gli unici che “si salvavano la testa” avendo la facoltà di dire al Re come stavano le cose, senza filtri e senza diplomazie. Un salvacondotto che ha attraversato i tempi dall’antica Grecia, ai riti del carnevale, attraverso i versetti murali. Un toccasana catartico per il popolo, una scintilla di democrazia anche in tempi della storia quando la democrazia non c’era.
Perché i potenti di ogni tempo la tolleravano? Per il semplice motivo che a chiunque, qualsiasi sia il sistema di Stato e di Governo, occorre una cartina di tornasole in grado di restituirci come stanno le cose, oltre gli opportunismi dei cortigiani di ogni tipo e tempo storico.
In tempi di democrazia la satira è più dirompente e pericolosa, forse perché il potere del Re è meno certo, meno ereditario, più discutibile. E se la qualità della classe politica scende, allora la satira fa ancora più paura. Vista così la satira è la cifra della salute della democrazia, e della qualità di una classe politica e dirigente. Reagire male, censurare, sdegnarsi, parlare di buon gusto, sono tutti indici di fragilità. E questo, per un popolo consapevole, dovrebbe essere un altro campanello d’allarme, perché rischia di essere l’anticamera, quando non della dittatura, certamente di norme liberticide.
Già quest’estate il ritratto del ministro Boschi da parte di Riccardo Mannelli “lo stato delle cos(c)e” ha suscitato reazioni sessiste. Il disegnatore ci restituiva il rischio che, dietro la facciata di tanti discorsi, mancasse la sostanza nel più ampio dibattito su una riforma cruciale come quella dell’ordinamento costituzionale, e che restasse solo l’apparenza.
A poche settimane da quell’episodio è di oggi l’indignazione per la vignetta di Charlie Hebdo. Vittime del terremoto rappresentate come “piatti di pasta”. Cosa diceva quella vignetta, e cosa ci voleva ricordare? Qualcosa di anche troppo banale: che per qualcuno, quei morti, quelle case, altro non sono che “un piatto da, e in cui, mangiare”, e che spesso molti di quei morti lo sono proprio perché su quei lavori edili qualcuno ha abbondantemente mangiato.
Una politica sana avrebbe capito, compreso. Non si sarebbe indignata per una vignetta (bella o brutta non conta). Avrebbe ad esempio ricordato le intercettazioni della notte del terremoto de L’Aquila, dove la realtà che supera la satira ed ogni macabra fantasia, ci restituiva davvero commensali festosi intenti a pensare solo al prossimo banchetto. Tutti assieme: politici, tecnici e costruttori.
Una politica sana nasce da un popolo consapevole, e un popolo consapevole avrebbe compreso quella dura vignetta che come un pugno nello stomaco ci ricordava una realtà più cruda della satira. E una politica sana avrebbe risposto semplicemente e fermamente: “grazie per averci ricordato qualcosa di tragico avvenuto nel passato, e faremo di tutto perché non si ripeta”.
In tempi privi di democrazia il Re avrebbe capito, non avrebbe risposto o replicato, avrebbe forse riso (meno i suoi cortigiani affaristi) e la testa del giullare sarebbe stata salva.
In tempi di democrazia invece, in cui esiste la libertà di stampa “pro domo nostra”, a quanto pare la politica debole risponde con sdegno e scarsa memoria. Paladini della libertà di espressione propria, dimenticano con troppa leggerezza quella altrui.
Perché libertà di stampa – va chiarito in tempi di democrazia debole – non è “la mia libertà di dire ciò che voglio” quanto difendere il diritto altrui, soprattutto di chi è decisamente distante dalle tue idee, di essere libero di affermarle.
La buona notizia però c’è. Ieri un quotidiano nazionale vicino proprio a quei faccendieri che hanno speculato e mangiato su L’Aquila (Libero) ha replicato alla vignetta di Charlie Hebdo con il seguente titolo a tutta prima pagina “verrebbe voglia anche a noi di sparargli”. Ecco, significa che la satira chi ha decisamente “azzeccato”, e che ancora una volta la realtà supera la satira (e che qualcuno anche nel mondo dell’informazione non ha ben chiaro il proprio ruolo).
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Democrazia e ragion di Stato
Non è la prima volta che questi due pilastri della real-politik si scontrano.
La prima, soggetta spesso agli umori del momento, agli effetti della propaganda, della retorica, del populismo. Talvolta a maggioranze non sempre consapevoli della scelta che vanno a compiere, e su temi su cui non sono adeguatamente preparate. La seconda non sempre chiara ed efficace, spesso lontana dai desideri e dalle ambizioni dei popoli, tesa a raggiungere “il bene” della nazione in una logica ed una prospettiva che va oltre il momento, il ciclo elettorale, li umori.
Senza escludere le volte in cui la seconda – la cd. realpolitik – ha usato la prima – la democrazia – per raggiungere i suoi obiettivi.
Ed allora succede che sia necessario scavare nei meandri delle pieghe del diritto a che la real-politik trovi qualcosa, per il bene della nazione in una prospettiva più ampia e lungimirante – che limiti gli effetti devastanti che una democrazia, usata male, manipolata, e gestita peggio, può generare.
È il caso della GranBretagna, che certo nessuno – piaccia o meno – può tacciare di “mancanza di democrazia”.
E lo è – a ben vedere – nelle pieghe del day-after tra i tanti commenti giunti dalle “periferie del regno”. Da quella Scozia che ha votato sul filo di lana per separarsi dall’unione inglese ma che compatta ha votato per restare nell’Europa. O da quella Gibilterra che al 93% si è espressa per restare in UE. O da quell’Irlanda del Nord che non ne vuol sapere di lasciare l’UE.
Tutti ad affermare di “stare in Gran Bretagna perché sino a ieri era Europa, ma se cambiano le condizioni…”.
E allora spunta, dal cilindro della real-politik, che non considera “una cosa buona per il paese nel lungo periodo” un crollo verticale di sterlina, conti e commercio, che non considera salutare isolarsi dal mondo, nell’era del mondo globalizzato, una piccola grande legge. Che oggi assurge a monumento democratico.
Una petizione per chiedere un secondo referendum.
La petizione, sul sito parliament.uk, chiede modifiche al processo referendario e potrebbe trasformarsi in un secondo referendum sull’adesione del Regno Unito all’Unione europea.
È stata già superata la soglia delle 100 mila firme necessarie per avviare un dibattito in Parlamento, come è avvenuto in precedenza per la cannabis.
La petizione infatti ha raccolto il consenso di oltre 150mila firmatari in meno di dieci ore e il numero continua a crescere rapidamente.
In Gran Bretagna un secondo referendum può essere richiesto dai cittadini se il risultato del quesito vincente alla prima votazione è inferiore al 60% oppure se l’affluenza non ha superato il 75%. Requisiti soddisfatti in questo caso. Hanno partecipato infatti il 72% degli elettori e il “leave” ha vinto per un soffio: il 51,9% dei voti mentre il “remain” ha ottenuto il 48,1%.
Ogni volta che in questa campagna sono stati dati scenari preoccupanti, il fronte del “leave” ha risposto che era solo terrorismo mediatico e fandonie, e c’era da star certi che invece non ci sarebbero state ripercussioni negative.
In un solo giorno la GranBretagna è stata impoverita del 20% e mai come oggi, nell’ultimo secolo gli inglesi si sono sentiti “odiati” da tutti e lontani dal mondo.
Ecco, l’Europa non ha “scenari da immaginare”, ma grazie alla Brexit ha certezze su cosa può accadere in caso di uscita dall’Unione.
Siamo tutti avvisati sul cosa succede a dar credito ai populismi, e per una volta c’èra sperare che la ragion di Stato trionfi sul lato debole della forza della democrazia.