L’intelligentia americana ha guardato agli scandali sessuali, alle accuse di molestie, ai toni verso immigrati e donne, ed ha parlato delle mail di Hillary. Ha considerato il risultato scontato e spesso “per non uniformarsi alla massa, per fare un dispettuccio alla Clinton (tanto vince lo stesso)” hanno votato Jill Stein, ha disprezzato, offeso, umiliato e deriso – spesso con gli stessi toni razzisti e classisti di cui lo accusavano – sia Trump che, peggio, i suoi elettori.
Questo atteggiamento di superiorità morale e intellettuale è costato Michigan, Pennsylvania e Florida (ben il 4% in una battaglia che si è chiusa in meno di due punti percentuali).
Eppure se si fossero aperti gli occhi bastava ricordarsi che solo il 25% degli Stati Uniti sono le “grandi città” (dove ha vinto la Clinton) mentre il resto del Paese è un’enorme distesa di campi agricoli e distretti industriali, fatta di una popolazione operaia che se non ha perso casa e lavoro ha visto un calo del suo potere di acquisto di oltre il 20% in 12 anni e ne ha recuperato appena il 5%.
È fatto di una popolazione agricola fortemente minacciata dalle importazioni a basso costo, che ha visto diminuire i sussidi all’agricoltura, che ha perso gran parte della propria ricchezza.
È un paese che ha visto crescere le spese militari e impoverire le proprie case di figli mandati in guerra in luoghi che non conosce, mentre ha percepito crescere l’insicurezza in patria.
Questo paese lo si poteva conoscere uscendo dalle strade del centro di New York, di Washington, di Chicago, e lo si sarebbe potuto vedere nelle piazze. Ed anche questo era un indice riconoscibile.
Da un lato le centinaia di persone “portate” ai comizi della Clinton dai candidati democratici locali.
Dall’altro le migliaia che spontaneamente accorrevano ai discussi e discutibili comizi di Trump.
L’America di Trump non è un altro paese. Era semplicemente il paese che la classe dirigente non ha visto. E se non lo vedi non lo puoi capire, ascoltare e quindi nemmeno interpretare e rappresentare.
Trump ha semplicemente colto quel malcontento. E gli ha dato voce, sin dalla scelta dello slogan.
Riportare al centro l’America e gli americani, renderla di nuovo “grande”. Ha individuato e indicato agli americani l’origine del loro problema (irrilevante che non sia vero) nell’immigrazione di massa (che abbassa i salari) e nelle aziende americane che delocalizzano (facendo perdere posti di lavoro interni).
La ricetta a tutto questo sarebbe la sua politica. E poco importa che in fondo, nemmeno gli americani ne siano convinti. Se sappiano che non è così facile come sbandierarlo da un palco della provincia dell’Ohio.
I democratici gli hanno anteposto una ex first lady con trent’anni di politica attiva alle spalle, che ha guadagnato 200 milioni di dollari dalle lobby e che ha siglato e sostenuto quei trattati commerciali che – per il popolo americano della periferia – sono stati la causa di quei posti di lavoro persi e di quei salari ribassati.
È la donna delle banche che hanno generato la crisi, e che ora sono più ricche di prima e che a loro hanno tolto la casa.
Ed è colei le cui mail maldestramente cancellate hanno dimostrato senza scrupoli nel far fuori i suoi avversari interni ed imporsi al suo stesso partito. Pronta a fare favori (anche laddove legittimi) in cambio di fondi (circa un miliardo di dollari) per la fondazione che porta il suo nome.
Era questo il nome ed il profilo democratico che avrebbe dovuto contrastare Trump?
Trump non ha diviso il popolo americano. Il popolo americano lo era già. E nessuno se ne era accorto. O meglio, nessuno della classe dirigente americana era pronto a riconoscere e vedere che otto anni di amministrazione democratica avevano fatto molti miracoli, ma avevano fallito nell’impresa di unire.
Era più semplice attaccare la lobby delle armi (che è la stessa che arma le guerre fatte anche dai democratici) e parlare di conflitto razziale, per non vedere quella trasversale frattura sociale che non ha come segno distintivo il colore della pelle.
Gli americani sapevano del giudizio di Trump sulle donne, senza che i democratici lo ricordassero con superiorità e arrogante sufficienza (come se i Clinton fossero puritani). Lo sapevano le donne, che in un assioma tutto elitario avrebbero dovuto in massa votare una donna. E invece oltre il 46% ha scelto Trump. Forse perché le donne sono anche pronte a votare una donna, ma non solo perché donna, e certamente non si riconoscevano in quella donna in particolare.
Gli americani sapevano dei rapporti con le lobby della famiglia Clinton, e Sanders senza i grandi elettori della Clinton se la sarebbe giocata davvero sino in fondo. Ma con tutti i mal di pancia di questa candidatura forzosa e forzata, quelle mail semmai hanno fatto finire di perdere entusiasmo, in un paese e in un tipo di elezioni, in cui l’entusiasmo dei volontari e degli attivisti è tutto, Obama docet.
Tutto questo, l’erotomania di Trump e le mail della Clinton, che hanno pesato negli editoriali e nei corridoi della politica, non hanno toccato le persone comuni, che hanno scelto di andare contro un sistema ed un modo di fare politica.
Hanno frantumato il partito repubblicano distruggendo le dinastie politiche e le carriere blindate.
Hanno disertato il partito democratico che ha registrato le primarie con la più bassa affluenza della storia.
Ed anche su questo c’erano indicatori precisi. Se solo si fosse usciti dalle stanze dorate delle grandi città. Due anni fa, per le elezioni di medio termine, sono andati a votare meno del 36% degli aventi diritto, confermando e accrescendo la maggioranza repubblicana.
Anche questo avrebbe dovuto raccontare qualcosa.
Se l’America stava meglio, perché questo segnale negli ultimi due anni di amministrazione Obama?
A queste elezioni sono andati a votare meno del 56% dei cittadini. E quelle “impennate” nelle registrazioni al voto delle ultime ore di campagna elettorale non hanno minimamente bilanciato il sentimento di un paese che non si sentiva più rappresentato dalla sua classe politica.
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Come il web aiuta i Hillary Clinton
Qualche mese fa si parlò di una riunione tra i vertici delle big company della silicon Valley preoccupate per i successi alle primarie di Donald Trump.
Che non sempre le web company siano state del tutto con i Democratici era cosa nota; parliamo pur sempre di aziende multimiliardarie, di dimensione globale, i cui manager e fondatori (anche loro multimiliardari) se possono non disdegnano una politica economica americana con maglie fiscali più larghe.
Ma Trump deve essere stato stretto anche a loro, visto che hanno finanziato durante le primarie il “fondo repubblicano contro Trump”. E non riuscendo nell’intendo di arrestarne quanto meno la corsa, oggi appoggiano direttamente – ma soprattutto indirettamente – la certamente più amica Hillary Clinton.
Che il web abbia contato moltissimo dalla prima vittoria alle primarie di Obama, e poi nelle due successive campagne presidenziali è cosa nota.
Nota al punto che da quelle esperienze anche la “vecchia politica europea” ha comunicato a comprendere il fenomeno ed attrezzarsi, anche quando poco e male.
Il web crea dibattito, sposta elettorato, dà visibilità quando i media mainstream la limitano, e fa da eco a notizie che possono diventare virali e di pubblico dominio.
Gaffe, dichiarazioni, foto, video che spesso non sarebbero emersi, col web finiscono con il fare notizia.
La parte nota di questa campagna è quella relativa ai finanziamenti.
Le web company non solo stanno contribuendo massicciamente alla campagna presidenziale diretta, ma fanno confluire anche notevoli somme sui comitati elettorali di senatori e congressisti in lizza.
La parte meno nota ma che invece comincia ad essere visibile, è un impegno civico, che di fatto si traduce in un aiuto notevole alla campagna democratica.
Wordpress, ad esempio, ha sviluppato un widget di “invito a registrarsi per il voto” da inserire anche sui blog.
Il calcolo è presto fatto: tolto lo zoccolo duro di circa 170 milioni di elettori, si stima che ogni tre nuovi iscritti, ben due siano orientati sui democratici, perché ad esempio giovani, immigrati, appartenenti a minoranze, persone alla prima esperienza elettorale.
I social si stanno scatenando sia nella produzione di dirette video dei dibattiti, sia nella viralizzazione delle sintesi degli stessi.
Questo per raggiungere tutti i “non appassionati” di politica televisiva e di giornali.
Anche in questo caso una fetta di popolazione che – come indicano i big data – sarebbe orientata verso un voto democratico.
Quanto inciderà tutto questo lo scopriremo il girono dopo.
Di certo questo impegno non è marginale, nemmeno dal punto di vista economico, tanto che alcuni analisti si sono spinti a fare una stima per difetto di circa 500milioni di dollari.
Ma i candidati possono stare tranquilli: il mondo del web sa come muoversi nelle maglie della regolamentazione sui finanziamenti elettorali, e nessuno potrà dire che queste iniziative sono “un finanziamento diretto” da inserire a bilancio.
Anche questo è web.