Nelle ultime settimane, nell’imminenza del congresso e delle primarie per scegliere il nuovo segretario, il Pd sta proponendo una liturgia che conosciamo bene, sin dalla nascita dell’Ulivo che ne fu il padre politico putativo.
Il partito “ha perso le parole per parlare al suo popolo”, ha smesso di ascoltare e farsi interprete dei bisogni del suo elettorato, ha perso contatto col territorio e con le persone. Sono tutte considerazioni vere, ma che meritano un “andare in profondità”, con meno elucubrazioni mentali e più schiettezza e semplicità.
Il Pd era un partito del 30% a Napoli quando c’era una classe dirigente degna di questo nome, fatta dei tanti bistrattati Antonio Bassolino, Giorgio Napolitano, Berardo Impegno e tanti altri che non era solo capaci di rappresentare un mondo, ma anche di mettere insieme una squadra di governo, quella che generalmente viene definita “una classe dirigente”. Oltre a questa capacità, quella generazione politica ne aveva un’altra: quella di mettere insieme anime e persone diverse per un progetto di governo – o di opposizione – comune.
Questo significa che quegli anni hanno visto le migliori amministrazioni possibili? Assolutamente no. Spesso sotto il profilo della qualità delle scelte amministrative e progettuali, e in qualche occasione anche sotto il profilo della moralità, dell’etica e della legalità. Perché – e va ricordato in tempi di apparente trionfo del populismo, ed anche più del trionfo dei linguaggi e delle sintassi populiste e nazional popolari – chi amministra è sempre soggetto nei suoi atti e scelte al controllo della magistratura, e gli avvisi di garanzia sono lo strumento di comunicazione di un’indagine, che spesso in questi ambiti è atto dovuto ed ha come esito l’archiviazione.
La verità – che è bene che il Pd dica con chiarezza, prima di tutto a se stesso – è che il “nuovo che avanza” ha pensato semplicemente negli ultimi anni di cavalcare lui stesso quelle sintassi populiste di rinnovamento, rottamazione, cambio generazionale, semplicemente per “prendere il posto di”. Spesso delfini, persone cresciute all’ombra di, che un bel giorno hanno deciso di “prendere il posto di”, senza tuttavia quelle due caratteristiche di quella generazione politica.
Quello che ne è scaturito è sostanzialmente un vuoto pneumatico, incapace di formulare un’idea, una proposta politica, privo di rappresentanza sociale, primo di referenzialità se non se stessi e pochi accoliti, senza la capacità di aprirsi alla società civile creando una autentica classe dirigente capace di esprimere un concetto di governo degno dei tempi e delle realtà.
Un vuoto totale che risulta anche più marcato se consideriamo le rare eccezioni di buon governo (trasversale rispetto alle componenti) da Ciro Bonaiuto a Vincenzo Figliolia.
La sintesi di tutto è anche tutta qui. Drammaticamente e semplicemente. Il Pd è diventato un partito senza radicamento territoriale, scalabile con qualche centinaio di tessere e con qualche cordata di voti alle parlamentarie ed alle primarie. Un piccolo manipolo di interessi incrociati capace di mettere insieme tremila voti per collegio è quello che ha fatto eleggere i recenti parlamentari. Uno schianto elettorale che si è manifestato a tutte le elezioni amministrative sino alle regionali. Un partito dimezzato rispetto al trend nazionale, che al Comune ha raggiunto l’11%. Mai così in basso.
Con una classe dirigente che non ha mai fatto autocritica, in cui mai nessuno si è dimesso, in cui mai nessuno si è preso un’ombra di responsabilità. Con nove candidati su quaranta messi in lista a loro insaputa per “fare vedere” un seguito che non c’era. Un pò come quei generali che spostavano le truppe di città in città per mostrare a Mussolini una forza inesistente.
Il Pd non deve “recuperare le parole”, stabilire un contatto perso col suo elettorato o col suo popolo. Il Pd, semplicemente, deve rifondare se stesso, mettendo da parte tutti coloro che sono stati – indistintamente – dirigenti sino ad oggi, in qualsiasi grado e luogo e forma, e deve cominciare a scegliere una classe dirigente differente. Altrimenti resterà poco meno di quello che oggi appare (e talvolta è), ovvero un pullman che passa per far fare una carrierina di basso cabotaggio a qualcuno senza arte né parte.
Una scelta radicale che competerà a Renzi, Orlando, Emiliano: il coraggio di scegliere “con chi accompagnarsi” qui, in Campania, verso il congresso. Perché se pur di vincere caricheranno questi “chiunque” in cerca di una sistemazione, allora non sarà solo colpa di Napoli e della Campania.
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La strategia di Renzi tra congresso ed elezioni
È partita la corsa al congresso, che Renzi lancerà ufficialmente il 18 dicembre all’Assemblea Nazionale del Pd. L’idea è semplice: congresso “facile” a marzo, primarie, nuova direzione bulgara, nuova segreteria fedelissima con tutti i correttivi dettati dalle esperienze precedenti, e elezioni a giugno. Un’unica grande, lunga campagna elettorale, con alcuni vantaggi.
Non essere al governo, avere le mani libere di attaccare dall’esterno dei palazzi, non dare il tempo agli avversari interni di convergere su un leader anche solo teoricamente capace di offuscarlo o metterlo in discussione, e non dare il tempo a un centrodestra disunito di fare primarie (accrescendone il logoramento) né al Movimento 5 Stelle di chiarire le proprie fronde interne.
Utile allo scopo sarà lo strumento della nuova legge elettorale, che nessuno potrà accusare Renzi di intestarsela direttamente a proprio uso e consumo. Probabilmente prevederà l’eliminazione del ballottaggio e – se i sondaggi andranno in questa direzione – un eventuale premio alla coalizione più che al partito.
Sin qui, l’idea semplice. La sua realizzazione lo è molto meno. E vediamo gli ostacoli.
Partendo dalla fine, cosa blocca le elezioni a giugno.
Intanto il grande partito trasversale dei “parlamentari alla prima nomina” (circa 400) con l’obiettivo di arrivare almeno al primo ottobre per assicurarsi il vitalizio. Tra questi i molti che sanno che non saranno né ricandidati né rieletti, con l’obiettivo di arrivare a febbraio 2018.
I tempi della legge elettorale, che si incardinerà non prima di febbraio, quando la Consulta avrà depositato motivazioni e contenuti della sentenza sulla legge elettorale. E qui se non ci sarà un accordo convergente quanto meno con Forza Italia la nuova legge avrà vita durissima. Ostacolo non da poco visto che interesse del partito di Berlusconi è portare le cose per le lunghe, per spegnere la cavalcata elettorale di Salvini, evitare primarie, convergere su una leadership e unire il centrodestra. Tutte cose per cui occorre tempo.
Infine gli impegni internazionali (G7 di Taormina, elezione del segretario generale dell’ONU, l’avvio della procedura della Brexit, solo per citare quelli macroscopici) e quelli di governo, primi tra tutti i decreti nomine di febbraio e maggio. Qui la pedina centrale era Luca Lotti, colui che qualche giorno fa chiarì a cena senza mezzi termini “se Matteo si dimette, chi ci assicura che chi verrà si dimetterà quando vogliamo noi?”. Ed ecco che come garanzia per non perdere Palazzo Chigi Lotti diventa garante della continuità. Conserva le deleghe (Cipe ed editoria) e viene promosso a Ministro dello Sport (sede presso la Presidenza del Consiglio) ma non ottiene le deleghe ai servizi che voleva. Il suo potere viene in parte consegnato all’altra fedelissima di Renzi, Maria Elena Boschi, non più ministro ma rafforzata come unico sottosegretario alla presidenza, con in mano fascicoli delicati in qualità di segretario del Consiglio dei Ministri. Più che un governo fotocopia, un vero e proprio bunker. Già si parla di un cambio dei vertici Rai e del direttore generale del Tesoro Vincenzo La Via. E poi in primavera Enel, Eni, Poste, Finmeccanica, Terna e tanti altri consigli di amministrazione. Gran finale, Banca d’Italia, col mandato di Ignazio Visco che scade nel 2017. Proprio una analoga infornata di nomine produsse l’accelerazione che portò Renzi al posto di Letta.
Veniamo agli ostacoli verso la corsa a Palazzo Chigi.
In verità non sono tanti, ma sono tutti legati alla legge elettorale ed ai suoi tempi.
Come ha dimostrato il rapido passaggio tra vincere la segreteria e approdare al Governo, Renzi non è disposto a farsi logorare dalla “vita di segretario” e dai problemi di gestione del partito (che ha ampiamente delegato sempre), né è disponibile a stare a guardare le cose da fuori dicendo la sua dall’esterno senza ruoli.
Eppure la legge elettorale dovrà uscire da un Parlamento che in grande maggioranza tenderà ad allungare i tempi. Il centrodestra in cerca di unità e leadership non gradisce accelerazioni (come invece vorrebbe Salvini). Il Movimento cinque stelle apparentemente è per il voto subito, ma oltre la metà dei suoi parlamentari è a rischio, sia di ricandidatura che di riconferma, e non disdegnerebbe qualche mese in più. Sotto traccia sinora è stato anche il confronto interno sulla leadership. Il nome scontato sino a poche settimane fa di Di Maio premier è stato messo in discussione subito dopo il voto dallo scontro sempre nascosto sotto i tappeti tra i due pretendenti, Fico e Di Battista, pronti a puntare i piedi in cambio di garanzie future e di far sentire il proprio peso politico (e mediatico). Sempre in casa M5S c’è tutta la “battaglia romana” che parte dal caso Muraro (coperto sino a dopo il referendum) ma che chiama in ballo tutti i nomi noti del Movimento, che non se la passa bene nemmeno in un’altra sua roccaforte, la Sicilia, con gli scandali delle firme false e delle forniture non pagate e con la sospensione dal movimento di parlamentari noti ed influenti. Tutti nodi che sino a quando non verranno sciolti difficilmente convinceranno i protagonisti di queste vicende ad accelerare verso il voto.
Infine il tema ALA-SC, fuori dal governo, e i cui parlamentari sono “in cerca di una casa sicura” (leggasi quanto meno rielezione). E sino a che non la troveranno remeranno contro qualsiasi cosa. Qualcuno penserà “parva materia”, ma di fatto quei 18 voti al Senato sinora hanno permesso quattro anni di governi.
Il nodo della legge elettorale – che dovrà uscire da questo parlamento, con queste caratteristiche e queste rappresentanze – non è di poco conto.
Renzi con il ballottaggio – come tutti i sondaggi dimostrano – rischia di non vincere.
Senza un premio di maggioranza rischia di non governare. E senza un premio alla maggioranza non ci sarebbe ragione per i partiti di sinistra di allearsi col Pd per portare solo acqua a Renzi senza poi ottenere rappresentanza parlamentare.
Ostacolo non indifferente per almeno due motivi. Il primo, non ritrovarsi a perdere per una decina di punti persi a sinistra. Il secondo, perché una logica di coalizione genera “altri leader” alternativi a Renzi.
Si apre quindi il capitolo della sfida per la leadership della coalizione.
Qui le cose si complicano perché se Renzi vince le primarie a segretario, con una maggioranza amplissima, di lì a poco deve anche vincere le primarie per la leadership della coalizione.
Qui conterebbe su un voto popolare ampio, anche oltre il Pd, ma dovrebbe scontare il fatto che tutte le minoranze uscenti dal congresso potrebbero fare fronte comune su un candidato esterno capace – questo si – di mettere insieme tutti.
È il caso che fu di Milano con Pisapia, che sfidò in primarie aperte anche il cadidato Pd e la cui vittoria fu travolgente.
E non è un caso se quel modello, e quello stesso nome, oggi tornano in auge.
Ma che si chiami Pisapia o chiunque altro, il prodotto e lo schema non cambiano.
Prima di tutto questo c’è la sfida per la segreteria. Che appare scontata ma con tanti forse e mine sparse. Andiamo con ordine.
Le componenti del Pd sono molte, spesso eterogenee, ed anche quelle apparentemente minime possono contare, specie in regioni e provincie chiave. Molte di queste – come abbiamo visto negli ultimi congressi – generalmente si spostano sul candidato “più forte”, o vanno “in appoggio” del segretario dopo la sua elezione.
Prima di lasciare Palazzo Chigi Renzi si è assicurato – o almeno ha cercato – la fedeltà interna di varie componenti, tra cui quella di Orlando, dei Giovani Turchi, di Martina, di Franceschini, consolidando ed ampliando quella che era l’area strettamente renziana.
In un colpo solo Renzi avrebbe così neutralizzato anche possibili antagonisti (Orlando e Martina ed esempio) ed in qualche modo sterilizzato l’area Franceschini. Ma questi accordi non è detto che reggano al Natale, e in un’ottica strabica.
Da un lato nessuno oggi si ufficializzerebbe contro Renzi, restando anche un pò a guardare, cercando di accrescere il proprio peso interno, dall’altro nessuna componente – pur quando sarà appoggiando dichiaratamente Renzi – lo vorrà stra-forte, perchè una stra-forza di Renzi (e dei renziani) renderebbe il proprio contributo non solo non indispensabile ma anche relativamente necessario se non intercambiabile: un Renzi forte, si, ma sino a un certo punto.
Se rischi percentuali non sembrano esserci (la base PD vuole Renzi al 52% e i dieci leader dietro di lui raccolgono singolarmente dal 12 al 4% dei consensi), la partita si giocherà sulle convergenze, e soprattutto sul rischio outsider, capace di polarizzare oltre il consenso di singole correnti.
Anche per questo Renzi accelera e rilancia. Probabilmente mettendo mano anche al regolamento, alzando le asticelle minime per candidarsi, con qualche variazione (non da poco) sui requisiti.
Una forzatura che deve servire per scoraggiare, ma contemporaneamente per portare su di sé possibili “grandi elettori” ed aggregare componenti, con l’idea di dire “l’avversario non è qui dentro ma la fuori”.
Ciò significa tutt’altro rispetto ad una rinuncia alla resa dei conti interna. Renzi vuole che quelle minoranze accettino la sfida, per ridimensionarle oggi, ridimensionarne il peso interno (in termini di numeri in assemblea e direzione) e per poter anche ridurre (fortemente) la loro presenza e rappresentanza parlamentare.
Se sommiamo insieme tutti questi fattori, e concentriamo tutte queste sfide del prossimo semestre, quello schema che abbiamo descritto all’inizio – che appare semplice e lineare – comincia ad esserlo un pò meno.
Riuscire a portare a casa un risultato forte entro marzo, tra mille difficoltà e imprevisti, può essere il passo più semplice. Ma che accade se la legge elettorale non è quella giusta, o se Governo e parlamento trascinano le cose sino a settembre o peggio sino a febbraio 2018?
Quali nuovi scenari verrebbero aperti da un segretario che non può “incassare a breve e ripagare e garantire a brevissimo” il credito politico che cerca?
Logoramento di segreteria, lontananza (anche mediatica) da Palazzo Chigi, rafforzamento di ministri – ed anche dei renziani di ferro – nonché una campagna elettorale permanente di oltre un anno non sono sport in cui pare Matteo Renzi brilli particolarmente.