The Kingdom of Dreams and Madness: un viaggio nello Studio Ghibli

«Sono un uomo del XX secolo. Io non voglio affrontare il XXI.»


L’uomo del XX secolo è Hayao Miyazaki, maestro del cinema d’animazione giapponese, spesso riconosciuto come il Walt Disney del Sol Levante. È con questa frase che Miyazaki pare volersi congedare una volta per tutte dal proprio regno, quel regno dei sogni e della follia richiamato dall’omonimo documentario di Mami Sunada, The Kingdom of Dreams and Madness: un viaggio attraverso la nascita dei capolavori indiscussi dello Studio Ghibli, a cui è legato il nome di Miyazaki insieme a quello di un altro grande maestro, Isao Takahata, a cui si deve, oltre al commovente Una tomba per le lucciole (al cinema da novembre 2015, pur essendo del 1988), La storia della principessa Kaguya (2013). Miyazaki ha raggiunto il punto più alto della propria carriera con La città incantata (2001), vincitore dell’Orso d’oro a Berlino nel 2002 e dell’Oscar come miglior film d’animazione nel 2003 (prima e unica volta per un anime), capace di superare al box office nipponico persino Titanic. Ma non si devono trascurare altri indimenticabili film come Nausicaa della Valle del Vento (1984), Laputa – Il castello nel cielo (1986), La Principessa Mononoke (1997) e Il castello errante di Howl (2005), fino ad arrivare a Ponyo sulla scogliera (2008) e Si alza il vento (2013).


Ma The Kingdom of Dreams and Madness non racconta la carriera di Miyazaki e Takahata. Si tratta piuttosto di uno sguardo iperrealistico, in presa diretta, sul funzionamento dello Studio Ghibli: i ritmi intensi, l’assegnazione del ruolo da protagonista a Hideaki Anno, i pensieri di Hayao stesso, il lavoro di Takahata (che compare solo fugacemente), una sessione di doppiaggio di Si alza il vento che porta Miyazaki alla commozione… Il cineasta giapponese è uno che sa come si lavora sodo (lo fa ogni giorno, dalle 11 alle 21, esclusa la domenica), e che esige la cura di ogni minimo dettaglio. Una cura maniacale che gli ha portato via cinque anni, perlomeno per realizzare il suo ultimo film, Si alza il vento, presentato al Festival di Venezia nel 2013. Sarà l’ultimo in tutti i sensi e The Kingdom of Dreams and Madness è il diario di quest’ultima fatica, incominciato nel 2012 e concluso nei primi mesi del 2013. La regista Mami Sunada ha detto che la Disney Giappone voleva farle fare un dvd commerciale sullo Studio Ghibli, ma una volta entrata nella regno del fantastico duo Miyazaki-Takahata si era resa conto che quell’ultimo anno sarebbe stato molto diverso dagli altri, e così aveva optato per un documentario. La premiere di The Kingdom of Dreams and Madness si è tenuta durante il Festival di Toronto del 2014, ma il film è stato reso disponibile in dvd o in video on-demand soltanto dal 27 gennaio 2015.


«Ci sono molti documentari sullo Studio Ghibli che in Giappone sono stati trasmessi in tv», ha detto Mami Sunada. «Per questo quando il signor Suzuki [produttore ed esecutivo dello Studio Ghibli, ndr] prende una decisione, ciò che chiede è: “Che cosa si può fare di nuovo?”. In quest’anno davvero insolito e indimenticabile sono stati fatti sia Si alza il vento sia La storia della principessa Kaguya, quindi ho deciso che sarebbe stato proprio questo su cui avrei incentrato il documentario – il confronto tra i due registi, il loro storico rapporto professionale – e come ognuno occupa il proprio posto nello studio. Questa era la cosa su cui volevo soffermarmi.»


Miyazaki non scrive copioni ma storyboard, e i suoi assistenti iniziano la produzione da questi disegni prima che lui li abbia finiti. Quando accoglie Sanada nella sua casa-studio, Miyazaki filosofeggia sull’arte e sull’umanità per sentirsi come qualcuno che viene a patti con il lavoro di una vita. E così parla dolcemente del suo modo di fare film, in particolare di come la famiglia dello Studio Ghibli vede il cinema. In Si alza il vento c’è qualcosa di talmente personale da portarlo alle lacrime dopo l’anteprima: è la prima volta per un suo film.


Si alza il vento è un film biografico sui sogni “belli ma maledetti” di Jiro Horikoshi, un ragazzino miope che progetta aerei, non potendo pilotarli. Proprio Miyazaki, da piccolo, sognava il volo. Sognava che il suo corpo sfiorasse le nuvole sulle città giapponesi di Utsunomiya e Kanuma, dove era cresciuto; in altri sogni, la magia lo avrebbe improvvisamente tagliato fuori, e lui avrebbe fatto un giro su se stesso e sarebbe sfrecciato verso il basso, risvegliandosi con un salto prima di toccare per terra. Suo padre, Katsuij, gestiva una compagnia chiamata Miyazaki Airplane, che produceva alette di coda per aerei da combattimento giapponesi durante la Seconda Guerra Mondiale. In occasione di una visita alla fabbrica, il giovane Hayao fu incantato dalla bravura meccanizzata delle parti, per esempio il modo in cui un filo si univa a un albero e gestiva un timone. Ma non riusciva a collegare in modo consapevole gli oggetti che suo padre faceva ogni giorno e ciò che sognava.


«Nella mia testa, erano totalmente separati», ha detto il regista. «Probabilmente si tratta di un ottimo caso di studio psicoanalitico. Amavo gli aerei perché erano delle macchine incredibili, ma la velocità e l’altezza del volo – queste erano cose che capivo subito, da bambino. Penso che un sacco di persone abbiano fatto i miei stessi sogni.» Del film in sé per sé, però, ce n’è ben poco. Sanada concede qualche spezzone di Si alza il vento solo in fase di montaggio: d’altronde questo è molto più che un semplice documentario su un anno di vita dello studio. Il film di Sanada, non a caso, riesce a dare il meglio di sé quando la regista trasmette la consapevolezza che si tratta di uno studio e di una voce creativa in un periodo di transizione e forse nella sua fase crepuscolare. La musica, il tono, l’oggetto dei due film, la candida riflessione di Miyazaki – tutto concorre a dipingere il ritratto di qualcosa di meraviglioso che sta per finire. E il ritratto che ne emerge non è soltanto quello di un regista che ama ciò che fa ma anche delle persone che sono coinvolte nel processo creativo e che, ognuno nel proprio piccolo, contribuiscono a trasformare una faticosa catena di montaggio in qualcosa che sembra avere vita propria. Perché i personaggi di Miyazaki e Takahata riflettono la straordinaria umanità e la sorprendente sensibilità dei loro creatori.


Sunada, che in precedenza aveva lavorato come aiuto-regista in alcuni film di Hirokazu Kore-Eda e a una manciata di altri progetti, si rende conto che c’è una buona ragione per cui questo film esista ben al di là del fatto che si possa realizzare. Il suo documentario non è solo un lamento per la fine dello Studio, ma tende ad anticipare la fine stessa: e così, dal primo giorno in cui inizia le riprese nello Studio Ghibli, Sunada è fin troppo consapevole che il suo sarà un elogio. Quando confessa che «il futuro è chiaro: cadrà a pezzi», è come se Miyazaki leggesse dal copione. Se però lo immaginate come un nonnetto adorabile dagli occhi splendenti di meraviglia, potreste restare delusi. Dal film di Sunada emerge un uomo molto diverso: un uomo cortese e un operaio diligente benedetto da un colpo di genio. Ma è un uomo segnato allo stesso tempo da momenti di cinismo, risentimento e insicurezza che alludono a qualcosa di cupo dietro alle sue creazioni. «Non mi sono mai sentito felice nella mia vita quotidiana», dice. «Il cinema porta solo sofferenza.»

Jurassic Park, il più grande spettacolo dopo il giurassico

«Il mondo ha subito cambiamenti così radicali che corriamo per tenerci al passo. Non voglio affrettare conclusioni ma dico… i dinosauri e l’uomo, due specie separate da 65 milioni di anni di evoluzione, vengono a trovarsi gettati nella mischia insieme. Come potremo mai avere la benché minima idea di che cosa possiamo aspettarci?» 


Il vero messaggio di Jurassic Park è tutto qui, nelle parole di Alan Grant (Sam Neill), il paleontologo convinto da John Hammond (Richard Attenborough) a visitare il più grande parco dei divertimenti, un parco in cui torneranno in vita le creature più affascinanti che la storia della terra abbia mai conosciuto: i dinosauri. Le perplessità di Alan Grant sono confermate da Ian Malcolm (Jeff Goldblum): «La mancanza di umiltà di fronte alla natura che si dimostra qui mi sconvolge», dice. «Lei non vede il pericolo che è insito in quello che fa? La potenza genetica è la forza più dirompente che esista e lei se ne serve come un bambino che gioca con la pistola del padre.» Un pericolo autodistruttivo, insomma. La natura ha le sue leggi e se i dinosauri e l’uomo non hanno vissuto nella stessa era, questo era dovuto alla loro evidente incompatibilità.


Grant e Malcolm non saranno affatto smentiti quando si ritroveranno a dover fuggire da un Tirannosaurus Rex, liberato grazie all’interruzione del sistema di sicurezza. In realtà le recinzioni del parco sarebbero state sicure se Dennis Nedry non avesse disattivato l’impianto e rubato gli embrioni per venderli a un pezzo grosso della concorrenza. E la notte in cui Nedry tenta la fuga è una notte apocalittica, metafora della rabbia della natura per l’uomo ribelle, reo di aver tentato di stravolgere le sue regole o piuttosto di barare. Jurassic Park, per la fama e il successo che ha raccolto nel corso degli anni, non ha nemmeno bisogno di essere raccontato. Divenuto uno dei maggiori incassi della storia del cinema, il film, tratto dall’omonimo romanzo di Michael Crichton, permise a Steven Spielberg di superare gli incassi di E.T. – L’extraterrestre. Il 1993 fu un anno fortunatissimo per il regista, che sfornò, oltre a Jurassic Park, anche Schindler’s List, film che lo consacrò tra i grandi del cinema e che gli permise di aggiudicarsi due Oscar, miglior film e miglior regia. Dopo quella fortunata doppietta, però, Spielberg non è stato più quello di una volta (a parte l’Oscar per Salvate il soldato Ryan) e sebbene si sia sempre impegnato ad alternare film commerciali (come il quarto, deludente, Indiana Jones e La guerra dei mondi) a film d’autore (come Munich o War Horse), l’apice lo ha raggiunto tra gli anni Ottanta e la prima metà dei Novanta, proprio con Jurassic Park.


Un film che, al di là di tutto, riprende le tematiche topiche dei suoi film, come l’infanzia, già centrale in E.T., Indiana Jones e il tempio maledetto, L’impero del sole e Hook – Capitan Uncino. Il sapore del film spielberghiano è palese anche grazie allo splendido accompagnamento musicale di John Williams, non nuovo a lavorare con il regista. Se uno dei temi cari a Spielberg è l’infanzia, non potevano mancare due giovani protagonisti come Tim (Joseph Mazzello) e Lex (Ariana Richards), nipoti di John Hammond, che accompagnano Alan Grant, la dottoressa Sattler (Laura Dern) e Ian Malcolm nella visita al parco. Tim è un fan sfegatato del dottor Grant, mentre Lex è una giovanissima hacker (non a caso sarà lei a ripristinare l’elettricità). Proprio il dottor Grant dimostra di non provare molta simpatia per i bambini quando, nel prologo del film, un ragazzino, mentre Grant rinviene un fossile, paragona un Velociraptor a un grosso tacchino e il paleontologo fa di tutto per spaventarlo descrivendogli che cosa può capitare se dovesse trovarsi di fronte un animale primitivo così pericoloso. Ma nel corso della visita, Grant si trova da solo con i due ragazzi: le macchine che li avrebbero accompagnati durante la visita sono state distrutte dal T-Rex e loro sono costretti a tornare alla base a piedi, attraversando l’intera isola con la speranza di non imbattersi in Velociraptor o altre specie aggressive.


Sono proprio gli incontri con i predatori, però, a rientrare tra le scene da cineteca. La prima è la comparsa del T-Rex, con un primo piano del suo occhio illuminato appena dalla torcia di Lex; un occhio che è il simbolo del male, proprio come lo era quello dello squalo, sempre di spielberghiana memoria. E questo sarebbe un altro tema che ritorna: la lotta fra l’uomo e la natura (lì lo squalo, qui i dinosauri), una natura sempre più maligna e terrificante, ma questa volta figlia dell’uomo stesso. I dinosauri sono come il mostro di Frankenstein: John Hammond ha cercato di riportare in vita qualcosa che doveva essere morto, di cui la natura stessa aveva decretato la morte; qualcosa che si è rivoltato contro il suo stesso creatore perché si è ritrovato in un’epoca sbagliata e in un contesto sbagliato. Altra scena da antologia è l’inseguimento in cucina dei Velociraptor, con Lex e Tim nascosti e i due predatori che riescono ad aprire la porta, fino all’epico grido di Lex mentre uno dei due dinosauri l’attacca, stroncato da un vetro infranto poiché l’immagine a cui andava incontro il dinosauro era soltanto il riflesso della ragazza.


Il finale di Jurassic Park, con il T-Rex che salva, involontariamente, Grant, la dottoressa Sattler e i due ragazzi dall’assalto dei Velociraptor, e la bandiera del parco che crolla al ruggito del Tirannosauro, era abbastanza aperto per lasciare allo spettatore le conclusioni su una possibile ribellione dell’uomo alle leggi di madre natura. Proprio per la sua grandezza e per la spettacolarità delle animazioni – nonché per la sostanziale novità del tema – il secondo capitolo del franchise, Il mondo perduto – Jurassic Park (1997), anch’esso diretto da Spielberg, uscirà sempre sconfitto da ogni confronto con il primo. D’altronde le possibilità narrative offerte da un materia simile non sono tantissime, e il rischio che si correva – trappola in cui è poi caduta la sceneggiatura – era riproporre qualcosa di già visto sfruttando l’onda del successo, ma senza quel valore aggiunto che era stata la vera arma segreta di Jurassic Park.


Quattro anni dopo gli incidenti avvenuti sull’Isla Nublar, la società di John Hammond, la InGen, è fallita ed è Peter Ludlow, nipote di Hammond, ad avere ereditato la ditta. Oltre a Isla Nublar, Hammond aveva occupato un’altra isola, l’Isla Sorna, in cui i dinosauri crescevano prima di essere trasferiti a Isla Nublar al raggiungimento dell’età adulta. Ma Isla Nublar è stata abbandonata in seguito all’arrivo di un uragano, che aveva distrutto le strutture. I dinosauri, però, sono ancora lì. Proprio un incidente, occorso nel prologo, con una famiglia di turisti, la cui bambina si era imbattuta in un branco di Compsognathus, spinge Hammond a richiamare il dottor Malcolm, che nei quattro anni successivi alla disavventura nel Jurassic Park aveva cercato di denunciare le mostruosità nascoste nell’Isla Nublar. Hammond vorrebbe che Malcolm stendesse un rapporto sull’isola e sulle condizioni degli animali ma soprattutto che fermasse chi vuole catturarli per farne delle attrazioni in un parco di San Diego. Malcolm è scettico ma quando Hammond gli rivela che anche Sarah (Julianne Moore), la sua ragazza, è lì sull’isola, la missione scientifica si trasforma in una missione di salvataggio. A Malcolm si unirà, clandestinamente, anche la figlioletta Kelly.


Il resto sa molto di già visto: le aggressioni dei dinosauri, gli inseguimenti, la roulotte (al posto della macchina in Jurassic Park) sospesa nel vuoto, ma soprattutto l’arrivo del T-Rex a San Diego con la sua furia distruttrice, un richiamo evidente a icone della fantascienza catastrofica come King Kong e Godzilla, qualcosa che fa storcere non poco la bocca e rimpiangere l’immensità e la poesia di Jurassic ParkMa il fondo lo si tocca con il terzo film, Jurassic Park III. Al ritorno di Sam Neill e di Laura Dern corrisponde, però, un cambio in regia, Joe Johnston al posto di Spielberg. È inevitabile che la magia ormai si sia persa e che si rimpianga perfino Il mondo perduto, nonostante i limiti di essere un sequel senza tante grosse novità. Ancora un’azione di salvataggio, ma stavolta sarà Alan Grant, anziché Malcolm, a tornare a Isla Nublar. Gli effetti speciali non hanno più niente di speciale (si vede benissimo che i dinosauri sono finti!) e il soggetto è diventato un fiacco pretesto per allungare una trama che si è già diradata ben oltre le proprie possibilità. Di Jurassic Park è rimasto soltanto l’accompagnamento musicale, a rievocare qualcosa che non c’è più, ma questo non basta, tant’è che il film si era aggiudicato la nomination ai Razzie Awards del 2001 come Peggior Remake o Sequel.


Jurassic Park, rappresentando la novità (messa anche in prospettiva di un’epoca in cui il 3D era lontano anni luce), non poteva che suscitare incanto: i dinosauri di Spielberg giganteggiavano sullo schermo con un realismo mai visto prima; e a essi si univano azione, ironia, stupore (e l’entusiasmo immancabile di John Hammond). Il mondo perduto dimostrava già di essere una forzatura: la forza di Jurassic Park risiedeva anche nella simpatia del cast, da Alan Grant ai due ragazzini; dalla dottoressa Sattler al dottor Malcolm (l’unico recuperato, a parte le comparse di Hammond e dei nipotini cresciuti, ma solo nella parte iniziale). L’evocazione di Godzilla e di King Kong non avevano fatto che abbassare non soltanto la credibilità stessa del film ma di tutto il franchise, che ormai aveva virato verso stereotipi noiosi. Con Jurassic Park III, infine, c’è il ritorno di Alan Grant e della dottoressa Sattler (comunque marginale) ma non del tocco magico che Spielberg aveva saputo dare ai suoi primi dinosauri.


In Jurassic World ritornerà lo stesso Tirannosaurus Rex di Jurassic Park, arrabbiato come nel 1993 e pronto a fare nuove vittime. L’utilizzo massiccio del 3D, coadiuvato dal supporto della grafica digitale, renderanno l’apertura del parco dei dinosauri un vero e proprio evento mondiale.

Terminator, il Giorno del Giudizio non è scritto

Nella prima metà degli anni Ottanta, James Cameron era un regista semisconosciuto che all’attivo aveva soltanto un film, Piranha paura (1981), sequel dell’horror di Joe Dante Piranha del 1978. Era un film a basso costo che non aveva suscitato nessun clamore, né di pubblico né di critica. Ma Cameron non si arrese a quel primo insuccesso, e grazie a un incubo incorsogli durante un ricovero in ospedale per intossicazione alimentare, trovò l’ispirazione per realizzare il film che avrebbe dato il via alla sua straordinaria carriera da regista.


Gli ingredienti erano tanto semplici quanto efficaci: dei toni cupi, con una tensione sempre presente e un cyborg dalle sembianze umane, una minaccia proveniente dal futuro, indistruttibile, portatrice di morte tanto quanto di notizie catastrofiche. Per il ruolo delicatissimo del cyborg fu scelto Arnold Schwarzenegger, che da poco aveva raggiunto la fama internazionale con l’epic fantasy Conan il barbaro (1982) di John Milius. Proprio il volto inespressivo di Schwarzenegger, che diventerà poi un’icona degli action movie, è stato la vera chiave del successo di Terminator (1984), capace di incassare poco più di 38 milioni di dollari con un budget di appena 6,4 milioni. Due anni dopo Terminator, Cameron diresse Aliens – Scontro finale (1986), sequel di Alien (1979) di Ridley Scott, a cui sarebbero seguiti tutti gli altri successi del regista canadese, tra cui il celeberrimo e premiatissimo Titanic (1997) e Avatar (2009), rispettivamente il secondo e il primo maggior incasso di sempre nella storia del cinema.


Cameron si era rivelato insomma un Re Mida del cinema, capace di moltiplicare in milioni di dollari i budget concessigli dalle mega-produzioni hollywoodiane. Ma l’ascesa alla sua grande carriera di regista è legata a quel cyborg senza sentimenti, un T-800 (Arnold Schwarzenegger) proveniente dal futuro, dal 2029. In questa realtà, le macchine, grazie a un’intelligenza artificiale chiamata Skynet, sono riuscite a ribellarsi e a prendere il controllo della Terra, causando la distruzione dell’umanità. La resistenza è guidata da John Connor, figlio di Sarah Connor (Linda Hamilton). Ed è proprio lei che il T-800 deve uccidere: la deve uccidere prima che metta al mondo John, affinché il continuum temporale possa essere modificato. Ma anche la resistenza ha inviato qualcuno indietro nel tempo: si tratta del soldato Kyle Reese (Michael Biehn), che dovrà proteggere Sarah dal cyborg Terminator, programmato per uccidere.


Il Terminator incomincia la propria scia di omicidi cercando tutte le Sarah Connor sull’elenco del telefono. Ruba i vestiti a tre punk, si procura le armi e va verso il proprio obiettivo. Dall’altro lato c’è Sarah Connor, che già in Terminator – ma soprattutto nel sequel, Terminator 2 – Il giorno del giudizio (1991) – diventa una nuova Ellen Ripley, una donna-guerriero che non deve vedersela con entità aliene ma con un robot quasi invincibile. La regia di Aliens – Scontro finale per James Cameron, in tal senso, non è una casualità, e serve senz’altro per definire meglio i connotati della seconda Sarah Connor, quella che si ritroverà a dover fronteggiare i fantasmi del passato e a essere rinchiusa in un manicomio criminale proprio per aver cercato di distruggere una fabbrica di computer e di armamenti militari destinati a Skynet.


Se Terminator poteva, in un certo senso, essere autoconclusivo, con la distruzione finale del cyborg (la cui CPU – ma questo si apprende solo in una delle scene tagliate – sarà recuperata da due scienziati della Cyberdyne Systems, a cui si dovrà la creazione di Skynet), il secondo film della serie, Terminator 2, approfondisce non soltanto il rapporto tra uomo e macchina ma connota di maggiore umanità il cyborg stesso. Nel finale del cupo Terminator, la mano del cyborg scarnificato che si allungava verso Sarah Connor era la metafora della morte che si avvicina (non a caso il cyborg, al di sotto del rivestimento di pelle umana, è uno scheletro con gli occhi rossi). Nel secondo capitolo della serie, Sarah Connor deve fronteggiare una minaccia ancora più grande, vale a dire i propri incubi sul Giorno del Giudizio, che pare sempre più vicino. Stavolta, però, non dovrà proteggere soltanto se stessa ma anche suo figlio John, un tredicenne scapestrato di Los Angeles. Sarah è in manicomio e Kyle è morto nello scontro con il cyborg. Anche John crede che le storie sul Giorno del Giudizio e sulle macchine impazzite siano frutto solo della follia di sua madre, ma deve ricredersi quando si ritrova ad affiancare un tipo un po’ strano, serio, freddo, granitico e implacabile: questi altri non è che un nuovo Terminator, che ha le stesse sembianze di quello che anni prima aveva cercato di uccidere sua madre. Ora è stato inviato per un’altra missione: proteggere John Connor.


Il T-800, però, non è da solo, perché in quella dimensione temporale è arrivato anche un T-1000 (Robert Patrick), un cyborg moderno, fatto di metallo liquido, capace di assumere le sembianze di qualunque persona con cui entri in contatto ma anche di trasformare parti del proprio corpo in armi da taglio. Il T-1000 è stato inviato per uccidere non Sarah Connor ma John Connor. Dopo aver aiutato sua madre a fuggire dal manicomio criminale, per John si prospettano delle avventure mozzafiato accanto a un cyborg che, poco alla volta, assumerà degli atteggiamenti sempre più umani e che diventerà molto più che un semplice surrogato di padre. «Guardando John, con quel robot, tutto mi divenne chiaro» dice Sarah Connor. «Il Terminator non si sarebbe mai fermato, non lo avrebbe mai lasciato, né lo avrebbe mai fatto soffrire, non lo avrebbe picchiato né lo avrebbe sgridato, né avrebbe trovato scuse per non stare con lui; gli sarebbe sempre stato accanto e sarebbe stato pronto a morire per proteggerlo. Di tutti i padri putativi fin troppo umani che si erano avvicendati attraverso gli anni, questo robot sarebbe stato l’unico uomo giusto. In un mondo pazzo era la scelta più sensata.»


Il messaggio più forte di tutta la saga è però legato alla concezione antropocentrica, racchiusa nelle parole di John Connor a sua madre: «Il futuro non è scritto. Il vero fato è quello che ci scegliamo noi.» Un antropocentrismo che però è smentito dal terzo film, Terminator 3 – Le macchine ribelli (2003), fotocopia – perlomeno nella struttura narrativa – del secondo, con l’aggiunta di un po’ di ironia, a stemperare parecchio il clima di alta tensione che si avvertiva nel predecessore ma soprattutto in Terminator. Il cyborg è tornato, John Connor (Nick Stahl) è cresciuto ma il Giorno del Giudizio non è stato cancellato: è stato solo rinviato. Il futuro, in questo caso, va accettato. Questa volta il T-850 (identico al T-800) dovrà proteggere la futura moglie di John, Kate Brewster (Claire Danes), da un TX, che stavolta ha le sembianze di un’avvenente bionda (Kristanna Loken). Adesso John scopre di dover accettare suo malgrado il destino e di dover subire in maniera del tutto passiva la sconfitta dell’uomo di fronte all’ascesa della tecnologia. Così l’importante non è distruggere Skynet – non per ora – ma mettersi in salvo, affinché la battaglia non sia persa prima ancora del suo inizio.


Mentre i primi tre film erano ambientati in un contesto contemporaneo e suscitavano terrore per una minaccia soltanto evocata, che gravava nell’aria senza mai avvicinarsi del tutto, con Terminator Salvation (2009) siamo finalmente di fronte proprio allo scenario post-apocalittico descritto da Sarah Connor. Siamo nel 2018 e John Connor (Christian Bale) non è ancora diventato il leader della resistenza, anche se parla ai superstiti dell’umanità attraverso la radio. Oltre a distruggere Skynet, un altro obiettivo lo assilla: trovare il giovane Kyle Reese, il suo futuro padre, colui che dovrà tornare indietro nel tempo per salvare sua madre dal T-800 che cercherà di ucciderla; perché ora i paradossi temporali sono nell’aria (Ritorno al futuro insegna) e se i cyborg dovessero uccidere Kyle, allora anche John morirà. Tutta l’umanità cesserà di esistere poiché quella linea temporale sarà modificata. Ma ora John avrà un alleato del tutto speciale: non più un T-800, un cyborg che di umano ha soltanto la pelle, ma un uomo vero e proprio, che possiede ancora un cuore, un cuore vero. Si tratta di Markus Wright (Sam Worthington), che nel 2003 era stato giustiziato con un’iniezione letale ma il cui corpo era stato recuperato al fine di poterlo fare infiltrare nella resistenza: Markus altri non è che il primo Terminator dalle sembianze umane, metà uomo e metà macchina. L’evoluzione dei progetti di Skynet.


Terminator Salvation, molto più che nei primi tre film, esaspera il rapporto tra l’essere umano e la tecnologia: Markus è il contrario di RoboCop, che dall’esterno era robot ma con il cervello da uomo. Markus invece si sente un uomo a tutti gli effetti e la sola cosa che mai le macchine potranno prendere sarà proprio il cuore, da intendersi non soltanto come muscolo vitale ma anche come bontà, sensibilità o più semplicemente umanità. «Che cos’è che ci rende umani?» si chiede Marcus. «Qualcosa che non si può programmare, che non si può mettere in un chip: è la forza del cuore umano, la differenza tra noi e le macchine.» Quel cuore, oltre a salvare John Connor nello scontro finale con il T-800 che lo aveva quasi ucciso (come gli era stato profetizzato in Terminator 3), è destinato a salvare tutta l’umanità, in un mondo in cui l’ultimo sole non è ancora tramontato e in cui il destino, come dice John Connor, non è scritto ma è quello che ci creiamo.


I primi tre film costituirebbero un nucleo narrativo a parte se non fosse per le numerose citazioni di Terminator Salvation: John che guarda la foto di sua madre, la stessa che si vede nell’ultima scena di Terminator; la frase «Vieni con me se vuoi vivere», usata sia da Kyle Reese in Terminator sia dal T-800 in Terminator 2; o anche You Could Be Mine dei Guns N’Roses, canzone che riecheggia da uno stereo ad altissimo volume quando John Connor deve fermare i cyborg in moto, stessa canzone di Terminator 2, la sua preferita da adolescente. Il problema fondamentale di Terminator Salvation, però, risiede nella sua stessa progettazione. Così, mentre i due film di James Cameron riuscivano, in qualche modo, a soddisfare il pubblico per un finale aperto ma tutto sommato consolatorio – con la frase conclusiva di Sarah Connor a regalare un po’ di speranza dopo tanto orrore («Il futuro, di nuovo ignoto, scorre verso di noi, e io lo affronto per la prima volta con un senso di speranza, perché se un robot, un Terminator, può capire il valore della vita umana, forse potremo capirlo anche noi») – il film di McG era stato progettato come primo tassello di una nuova trilogia, ambientata non più nella giungla urbana dei primi tre Terminator ma in un universo post-apocalittico che avrebbe concluso la saga una volta per tutte. Purtroppo i guai finanziari della Halcyon Company, che detiene i diritti della franchise, avevano obbligato la produzione ad abbandonare il progetto, lasciando così in sospeso la storia di John Connor e della resistenza.


Terminator: Genesys, in tal senso, aprirà una nuova era, ripristinando ciò che già abbiamo visto, ciò che già è successo, e riportando in auge anche il vero simbolo della saga, Arnold Schwarzenegger, attore che incarna alla perfezione la simbiosi tra uomo e macchina, capace di segnare, con il suo physique du rôle, tutti gli action movie che cercavano di imitare la spettacolarità dei suoi film. Il futuro è appena iniziato.

Mad Max, l’anti-eroe del deserto

In un’Australia senza regole, la sola legge che conta è la legge della strada, dominata da bande di delinquenti in moto che scatenano l’anarchia e la violenza. La Main Force Patrol, una squadra speciale composta da poliziotti senza scrupoli, cerca di opporsi al ritorno delle barbarie medievali, in un mondo in cui le risorse energetiche stanno per terminare e l’unico vero tesoro è la benzina. La Main Force Patrol può contare su Max Rockatansky, soprannominato Mad Max, un uomo che agisce per istinto e per un innato senso di giustizia. In seguito a uno scontro mortale con una banda di motociclisti, Max si ritrova, poco alla volta, da solo contro tutti, perdendo prima un collega e poi la sua famiglia, uccisa brutalmente dalla banda di Toecutter. Così, a bordo della sua V8 Interceptor, Max intravede come unica ragione di vita la vendetta, scatenando però dentro di sé una rabbia incontrollabile, frutto della sofferenza e della disperazione per una realtà senza futuro.


In Interceptor (1979), George Miller recupera gli scenari dei western di John Ford per contestualizzarli in un universo post-apocalittico in cui i cavalli, da un lato, e gli indiani e i banditi, dall’altro, sono rimpiazzati rispettivamente da moto e motociclisti senza legge. A questo si aggiunge un tema tanto caro al cinema: la vendetta, scatenata da un profondo senso di rivalsa e di angoscia e nutrita dal male e dall’odio che il protagonista prova verso chi lo ha ferito o gli ha sottratto gli affetti. In tal senso, Mad Max è vittima e carnefice allo stesso tempo, divenuto, dopo il torto subito, ignaro delle regole e del senso di giustizia proprio come lo sono i delinquenti che hanno ucciso la sua famiglia. Il successo del film, costato circa 300mila dollari australiani e capace di incassare oltre 100 milioni di dollari e di lanciare un giovanissimo Mel Gibson, risiede quindi non tanto nel soggetto, quanto piuttosto nello scenario, un deserto selvaggio e indomabile da cui non si può fuggire, reso affascinante dagli spazi maestosi senza traccia di civiltà.


Se nel primo capitolo la trilogia riesce a far esordire il filone post-apocalittico – il cui grande riscontro si deve, negli anni Ottanta, anche alla serie Ken il Guerriero, fortemente debitrice del mondo plasmato da George Miller – è però con il secondo e il terzo film che il deserto si trasforma in una nuova Terra di Mezzo senza frontiere, in cui il potere non lo detiene il portatore dell’Anello ma chi ha più benzina. In Interceptor – Il guerriero della strada (1981), chiarito l’antefatto – che riassume anche il primo film – riecco Max, da solo, che vaga senza meta nel deserto. Il suo unico obiettivo è avere un po’ di benzina. Ora però non è più un tutore della legge ma si è adeguato a quella realtà ed è diventato un eroe solitario al di là del bene e del male, uno che agisce soltanto in cambio di un tornaconto personale. E la raffineria della Tribù del Nord capita a proposito: lì c’è la benzina e lui ne ha un grande bisogno. Ma anche la banda degli Humungus la vogliono e sono disposti a tutto pur di appropriarsene. Lo scontro tra Max e gli Humungus non è molto diverso da quello di Joe/Clint Eastwood con i Baxter e i Rojo in Per un pugno di dollari: l’esito è lo stesso, così come la sequenza narrativa, che prevede prima una bruciante sconfitta da parte dell’eroe e poi una vendetta senza pietà.




Nel terzo e ultimo film, Mad Max – Oltre la Sfera del Tuono (1985), non c’è più traccia di civiltà e il nuovo Medioevo annunciato in Interceptor si è concretizzato. Max giunge nella città di Bartertown per recuperare i dromedari che gli sono stati appena rubati. In cambio di benzina e di cibo dovrà uccidere il gigantesco Blaster, che insieme a Master controlla l’energia di Bartertown attraverso lo sterco dei maiali. Questa è la proposta della regina della città, Aunty Entity. Ma Max, ricordandosi, forse, dei suoi trascorsi da tutore della legge e della civiltà a cui apparteneva, risparmia Blaster e viene abbandonato nel deserto (pena che la gente di Bartertown chiama “gulag”), per essere poi salvato da una tribù di bambini selvaggi che lo scambia per il Capitano Walker e che cercano la Città del domani domani. A differenza del secondo film, un barlume di speranza c’è ancora: i bambini, le nuove generazioni, un mondo che potrà rinascere, ripopolarsi e ricostruirsi. Se anche qui Max agisce solo in funzione di esigenze prettamente personali, non si può trascurare il saluto finale datogli proprio da Aunty Entity («Addio, eroe!»), che si collega, in qualche modo, con la frase del collega poi ucciso in Interceptor: «La gente non crede più negli eroi!». E non a caso, nella colonna sonora, Tina Turner/Aunty Entity canterà We don’t need another hero, in cui i bambini diranno che non è più necessario un eroe che li salvi e nemmeno una strada per tornare a casa ma tutto ciò che c’è al di là dell’arena («All the children say/We don’t need another hero/We don’t need to know the way home/All we want is life beyond/Thunderdome).


Thunderdome non è soltanto l’arena in cui avviene lo scontro tra Max e Blaster, ripresa nel titolo originale del film (Mad Max Beyond Thunderdome, tradotto ala lettera come “sfera del tuono”): in una società senza più alcuna autorità e senza nessuno in grado di giudicare le controversie, l’arena diventa il luogo ideale nonché il solo luogo in cui risolvere i conflitti. In tal senso va inteso il Thunderdome, un’arena non molto distante da quelle dei gladiatori romani: “Due combattono, uno vive” è il motto che incita la folla, per la quale nessuno può essere risparmiato. Ma l’arena diventa anche il simbolo nell’anarchia più totale: le uniche regole riconosciute sono quelle dello scontro a corpo a corpo, o meglio della legge darwiniana della sopravvivenza, per cui il più forte è quello che rimane in vita. La saga di Mad Max, al di là di ogni giudizio critico, ha avuto il merito di avviare, quasi per caso, la lunga carriera di Mel Gibson, diventato poi un cultore dei ruoli da protagonista nei film d’azione, mentre Interceptor, insieme a The Blair Witch Project, uscito vent’anni dopo, detiene il record di maggiore incasso con budget ridotto. Con Mad Max – Fury Road i sentieri selvaggi percorsi trent’anni fa da Mel Gibson diventeranno ancora più violenti e anarchici ma George Miller, che dirige il quarto capitolo della serie, non tradirà le attese per un viaggio nel deserto che si preannuncia carico di adrenalina.

Star Wars, le guerre intergalattiche di George Lucas nel segno della Forza

Forse nemmeno George Lucas avrebbe mai scommesso sulla sua storia breve intitolata The Journal of the Whills, incentrata su C.J. Thorpe, allievo del Jedi-Bendu Mace Windy. Ma è proprio da un’idea semplice che nascono grandi intuizioni. E così, da quella storia scritta nel 1973, Lucas trasse una sceneggiatura, basata su La fortezza nascosta di Kurosawa. Un anno dopo, quel soggetto sarebbe stato ampliato con elementi fondamentali come i Sith, la Morte Nera e un certo Annikin Starkiller. Nel 1976, dopo il rifiuto della Universal e della United Artists, il film ricavato si intitolava Le avventure di Luke Starkiller, come narrate nel Giornale dei Whills, Saga I: Le Guerre stellari. Un titolo da romanzo d’appendice, tanto da essere semplificato in Guerre Stellari, mentre l’eroe non si sarebbe chiamato più Annikin Starkiller ma Luke Skywalker (Annikin sarebbe diventato Anakin, suo padre).


Fu così che nacque Star Wars, la leggendaria saga fantascientifica di George Lucas, che fino ad allora si era fatto apprezzare soprattutto per American Graffiti e che grazie all’incasso travolgente di Guerre Stellari (1977) avrebbe poi fondato la LucasFilm e prodotto un altro grande successo degli anni Ottanta, la saga di Indiana Jones, con l’amico Steven Spielberg. Un grande spettacolo di intrattenimento, un nuovo modo di fare cinema; una colonna sonora, firmata da John Williams, dal forte impatto emotivo; personaggi indimenticabili, citazioni, costumi, armi; epica, fiaba, filosofia orientale, ironia… Sono questi i tanti ingredienti che hanno consentito a Star Wars di diventare uno dei simboli della cultura di massa, tanto da generare un enorme apparato di spin-off, romanzi, videogiochi e fumetti basati sull’universo fantascientifico di George Lucas. Un prodotto senza tempo che non ha mai smesso di incantare e di affascinare, nonostante siano trascorsi quasi quarant’anni dalla comparsa sul grande schermo del primo capitolo della saga. In occasione dell’uscita della “Nuova trilogia”, Guerre Stellari fu rinominato Star Wars: Episodio IV – Una nuova speranza, dando così un senso anche al secondo e al terzo film della Trilogia Originale: L’impero colpisce ancora (1980) e Il Ritorno dello Jedi (1983), quinto e sesto episodio. Dal 1999 è uscita anche la Nuova Trilogia, che costituisce un prequel: Star Wars: Episodio I – La minaccia fantasma (1999), Star Wars: Episodio II – L’attacco dei cloni (2002) e Star Wars: Episodio III – La vendetta dei Sith (2005).


In una galassia lontana, l’Imperatore Palpatine e il suo allievo, il terribile tiranno Darth Fener, cercano di abbattere le ultime resistenze dei ribelli nella Galassia per poter definire il proprio potere una volta per tutte. Intanto l’Alleanza Ribelle, di cui fa parte la principessa Leila Organa, cerca di unirsi con chi è ancora rimasto fedele alla vecchia Repubblica. Proprio Leila, prima di essere catturata dalle forze imperiali, affida a due droidi un messaggio per Ben Kenobi, un anziano cavaliere Jedi che vive nel pianeta desertico Tatooine. A raccogliere il messaggio è però il giovane Luke Skywalker, che, trovato Kenobi e unitosi poi anche a Ian Solo, pilota del Millennium Falcon, e al suo copilota Chewbecca, parte alla ricerca della principessa Leila, deciso a fermare Darth Fener e la sua Morte Nera, una micidiale base spaziale in grado di disintegrare un intero pianeta.  I buoni contro i cattivi, il bene contro il male. Niente di più semplice: si tratta di un binomio tipico della narrativa popolare, direbbe Umberto Eco. Eppure i due film successivi, ma soprattutto la Nuova Trilogia, evidenzieranno nei personaggi molte più sfumature – e significati – di quanto si possa immaginare. A proposito del significato dei nomi, nulla è lasciato al caso. È fin troppo chiaro che Darth Vader (conosciuto in Italia come Darth Fener) sia un’assonanza dell’inglese “Dark Father”, il padre oscuro, laddove d’altronde l’allusione al complesso edipico è evidenziata anche dall’amore – poi solo fraterno – di Luke per Leila, prima che questa, nella scena conclusiva del Ritorno dello Jedi, si congiunga con Ian Solo. Un “padre oscuro” che è anche il Lato Oscuro della Forza per antonomasia, e che, un po’ come il dottor Faust, nel terzo episodio, La vendetta dei Sith, quando era ancora Anakin Skywalker, aveva tentato di salvare l’amata Padme cedendo al vile ricatto del Cancelliere Palpatine (che diventerà Darth Sidious) e unendosi ai malvagi Sith.


Star Wars


Per Luke non c’è nemmeno bisogno di interpretazioni: Skywalker va inteso come “Colui che cammina nei cieli”, mentre Han Solo/Ian Solo può intendersi come Mano Solitaria (“Han” deriverebbe dall’inglese hand). E così anche Yoda può derivare dal sanscrito yudh, “guerriero”, ma assomiglia anche alla parola “yoga”, tipica caratteristica meditativa dei Cavalieri Jedi. I nomi, insomma, non sono una casualità, ma non lo sono nemmeno le citazioni e le influenze – più o meno dichiarate – di George Lucas: i film di Kurosawa, l’Impero Galattico di Isaac Asimov, il ciclo di Dune di Frank Herbert; ma anche i singoli personaggi, come il droide C-3PO, che rievoca il robot femminile di Metropolis di Fritz Lang nonché l’Uomo di Latta del Mago di Oz, mentre l’elmo di Darth Fener assomiglia a quello dei samurai e i Cavalieri Jedi sono membri di un ordine religioso guerriero (possibile è il richiamo ai Cavalieri Templari, soprattutto per la fine analoga nel terzo episodio, quando i Jedi sono sterminati dai Sith). Star Wars è una summa di tante culture, di tante letterature ma soprattutto una vera e propria mitologia. George Lucas non ha mai nascosto la profonda influenza dello storico delle religioni Joseph Campbell, che nel suo saggio L’uomo dai mille volti (che richiama, non a caso, il polytropos omerico, Odisseo/Ulisse, “l’uomo dal multiforme ingegno”, e per estensione di significato “dai mille volti”), individua una serie di tappe fondamentali che costituirebbero una trama-archetipo, chiamata Viaggio dell’Eroe. Si tratta di un viaggio soprattutto interiore, un viaggio verso la conquista definitiva della Forza: e se la Trilogia Originale è il viaggio verso il Lato Chiaro della Forza, che rappresenta la bontà, la benevolenza e la salute e tutti gli stati d’animo positivi, all’opposto la Nuova Trilogia, al cui centro c’è invece la mutazione di Anakin Skywalker in Darth Vader/Darth Fener, è il viaggio verso il Lato Oscuro della Forza, rappresentato dai Sith ed espressione massima di sentimenti negativi come rabbia, violenza, odio e paura.


L’operazione di George Lucas è stata simile a quella di J.R.R. Tolkien: entrambi hanno costruito una cosmogonia e hanno creato un universo che appare distante da quello reale solo superficialmente. La letteratura fantasy, dopo Tolkien, ha conosciuto molto spesso solo autori che cercavano, il più delle volte fallendo, di imitare Il Signore degli Anelli, mentre il cinema di fantascienza, dopo Guerre Stellari, si è aperto a un pubblico di massa, ridisegnando i canoni del genere. Tuttavia, è chiaro che la classificazione in generi è puramente convenzionale e si potrebbe benissimo intendere la Terra di Mezzo come un pianeta di un’altra galassia in un futuro remoto, così come Star Wars una saga fantasy-fantascientifica. Le analogie, però, non riguardano soltanto il genere ma anche le dinamiche interne, e in particolare i personaggi: per esempio George Lucas ha ammesso che Obi-Wan Kenobi doveva essere un incrocio tra Mago Merlino, un samurai giapponese e Gandalf il Grigio. Sia lo Jedi sia lo stregone rappresentano la Sapienza e tendono più a incitare e a incoraggiare che agire in prima persona; e inoltre sono stati tutti e due traditi da qualcuno che si è alleato con il nemico: Gandalf da Saruman e Obi-Wan da Anakin/Darth Fener.


Nell’Impero colpisce ancora, Luke vive alcune avventure da solo, accompagnato solo da R2-D2, proprio come Frodo, da solo in compagnia del fido Sam. E quando il Maestro Yoda addestra Luke, questi vede i suoi amici lontani e in pericolo: è la stessa cosa che accade a Frodo con lo specchio di Galadriel. E dopo l’agnizione («Io sono tuo padre»), la presenza di Luke nel cuore dell’Impero permette la distruzione del Male (l’Imperatore) proprio da parte di chi si era convertito al Male (Dart Fener). Così accade anche a Frodo nel Monte Fato, quando Gollum, annebbiato dal potere dell’Anello, non soltanto distrugge Sauron ma si autodistrugge. La critica ha bollato Star Wars come un prodotto dai contenuti estremamente semplificati. Un prodotto leggero, spensierato, molto distante dall’epopea fantascientifica di 2001: Odissea nello spazio, dai contenuti e dal ritmo molto differenti. Ma se dalla saga di George Lucas sono stati ricavati fumetti, serie animate, videogiochi, raduni di appassionati e fan fiction, lo si deve soprattutto alla reinterpretazione di un mondo che di fantascientifico ha ben poco e che, pur permettendo al pubblico di sorvolare i cieli dell’immaginazione per un paio d’ore, gli permette allo stesso tempo di restare con i piedi ben ancorati a quelli che sono i temi e i dilemmi quotidiani, presenti, passati e – sicuramente – futuri.


FONTE: http://www.guerrestellari.net/athenaeum/mappasito.html