Hedy Lamarr: genio e bellezza

Chi tende ancora a sostenere il vecchio e quantomai datato pregiudizio per cui le donne belle non possano brillare anche per intelligenza sarà costretto a ricredersi: la storia ci ha fornito illustri esempi di donne di grande bellezza che, grazie anche al loro carisma e alla loro intelligenza, sono riuscite ad imporsi e spesso a cambiare le sorti della storia.

Un volto splendido e una classe fuori dal comune caratterizzavano Hedy Lamarr, attrice degli anni Quaranta a cui oggi Google dedica il suo Doodle, nel 101/mo anniversario della nascita della diva.

Una bellezza e un’intelligenza fuori dal comune resero Hedy Lamarr una delle attrici più affascinanti del cinema e una delle prime donne al mondo ad imporsi nel settore scientifico. Nata a Vienna il 9 novembre 1914, all’anagrafe Eva Maria Kiesle, nelle sue vene scorreva sangue ungherese ed ucraino.

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La conturbante bellezza della giovane impressionò alla fine degli anni Venti il produttore cinematografico Max Reinhardt che la iniziò agli studi cinematografici. Il primo film è Ekstase di Gustav Machaty, girato quando la ragazza ha solo 18 anni. Un film scandalo, a causa di alcune scene a seno nudo, fortemente sensuali per l’epoca.

Nel 1933 la bella attrice sposa il mercante d’armi Friedrich Mandl, che compra quante più copie possibile di quella pellicola. La loro abitazione diviene in breve teatro di numerose feste a cui presero parte, tra gli altri, Adolf Hitler e Benito Mussolini, oltre che diversi esponenti del mondo scientifico, che iniziarono la diva alla passione per le tecnologie. Mandl tuttavia è geloso della sua bellissima moglie e, come lei stessa dichiarò in seguito, tentò di farla vivere segregata. Fu così che, nel 1937, la bella attrice scappò a Parigi. Qui conobbe il produttore cinematografico statunitense Louis B. Mayer, tra i fondatori della casa di produzione cinematografica Metro-Goldwyn-Mayer. Il nome di Hedy Lamarr fu scelto proprio da Mayer, in omaggio a Barbara La Marr, diva del cinema muto.

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Nel 1938 Hedy si trasferisce ad Hollywood e qui inizia la sua sfolgorante carriera nel cinema. Prende parte a più di 30 film, tra cui spiccano La febbre del petrolio, dove Hedy recita al fianco di Clark Gable e Spencer Tracy, nel 1940, e Corrispondente X, sempre con Clark Gable, due anni dopo.

Il ruolo forse più celebre fu quello di Dalila nella produzione di Sansone e Dalila di Cecil B. DeMille.

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Oltre alla sua straordinaria bellezza e fotogenia, pochi sanno che Hedy Lamarr fu anche una delle prime donne scienziato della storia. Durante la Seconda Guerra mondiale ideò insieme a George Antheil un sofisticato sistema per realizzare messaggi criptati via radio, affinché non potessero essere intercettati. Il prototipo, basato sul meccanismo del pianoforte, fu brevettato nel 1942 e fu utilizzato per la prima volta circa venti anni più tardi dalla marina militare degli Stati Uniti. La diva fu inserita nella Inventors Hall of Fame degli Stati Uniti nel 2014 per questa sua invenzione, che è ancora oggi alla base di molti sistemi tecnologici nonché della telefonia mobile.

Inoltre Hedy Lamarr brevettò anche altre invenzioni, tra cui una compressa per ideare bibite gasate ante litteram e un ingegnoso prototipo di semaforo per regolare il traffico cittadino. La sua lunga carriera cinematografica negli anni Settanta era ormai agli sgoccioli: dopo il ritiro dalla vita pubblica, nel 1981, la diva appariva ossessionata dalla chirurgia estetica. Hedy Lamarr morì il 19 gennaio del 2000, all’età di 85 anni, e le sue ceneri furono disperse nella Selva Viennese.


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Fantozzi, ritorno al cinema in versione restaurata

Un personaggio creato per placare il senso di inferiorità degli italiani. È così che potremmo definire il ragionier Ugo Fantozzi. Perlomeno così ne ha parlato Paolo Villaggio, suo creatore e interprete: «Prototipo del tapino, quintessenza della nullità.» Una nullità che, dopo una decina di film, capaci di registrare i mutamenti sociali della società italiana dagli anni ’70 all’alba del Duemila, ritornerà al cinema con le sue prime due disavventure: Fantozzi (dal 26 al 28 ottobre) e Il secondo tragico Fantozzi (dal 2 al 4 novembre), film diretti da Luciano Salce e usciti rispettivamente nel 1975 e nel 1976, restaurati per l’occasione in 2K. Così, tutti coloro i quali vorranno dimenticare le proprie disgrazie, potranno farlo ridendo per l’ennesima volta di quelle del popolare ragioniere dell’Ufficio Sinistri, famoso per la celeberrima nuvola fantozziana e per le sue espressioni tipiche («Com’è umano, lei!») ma anche per il servilismo verso i superiori dai nomi lunghissimi (come la Contessa Serbelloni Mazzanti Vien Dal Mare o il Megadirettore Galattico Duca Conte Balabam).


Oltre alla frequente sottomissione, non soltanto di Fantozzi ma di tutti i suoi colleghi, una peculiarità della serie è però l’errato uso del congiuntivo, come si evince da questo dialogo:


Filini: «Allora ragioniere, che fa, batti?»

Fantozzi: «Ma come, ragioniere, mi dà del tu?»

Filini: «No, intendevo batti lei».

Fantozzi: «Ah… congiuntivo…»


Sfortunato, vigliacco, disastroso in qualunque iniziativa prenda (anche se il più delle volte le iniziative le prende il ragionier Filini, e si tratterà di disastri quasi sicuramente), Fantozzi nasce grazie a due libri di Paolo Villaggio, ispirato da un collega dell’attore genovese all’Italsider. Villaggio pubblicava le sue storie sull’Europeo, per poi raccoglierle nel libro edito da Rusconi nel 1971. Qualche anno dopo il successo del libro, si iniziò a progettare un film. Tra i candidati a vestire i panni di Fantozzi c’erano Ugo Tognazzi e Renato Pozzetto. La scelta di affidare il personaggio al suo stesso creatore (che immancabilmente ne ha assunto la maschera, tanto da portare al cinema anche i suoi cloni, per esempio Fracchia) si è rivelata azzeccatissima soprattutto nei primi due film, diretti da Luciano Salce, i migliori di una saga che, con il passare degli anni e l’invecchiamento degli attori, non ha fatto altro che svuotarsi di quella verve comica che la caratterizzava, per diventare soltanto la ripetizione ormai fiacca e noiosa delle stesse gag.


C’è però un altro aspetto che non va trascurato, ovvero l’aspetto tragicomico: perché Fantozzi non riesce in nessuna impresa e tutto quello che cercherà di fare, per un motivo spiegato nella sua stessa natura (essere una «nullità», o come lo chiamerebbero i suoi superiori, una «merdaccia»), non andrà mai a buon fine. Fantozzi è un mediocre, uno che abbassa la testa e che accetta di non avere amici al di fuori dell’azienda, di avere una moglie bruttina ma devota, che lo stima ma non lo ama; di avere una figlia ancora più brutta (non a caso interpretata da un uomo) e di essersi – inspiegabilmente – innamorato di una collega tutt’altro che bella. Dunque tutto ciò che fa è negativo e tutte le sue scelte sono terrificanti e catastrofiche.


Ma c’è un altro Fantozzi, nascosto dietro al ragioniere perennemente sottomesso e capace di farsi “crocifiggere in sala mensa”. L’altro Fantozzi è quello che si ribella contro lo snobismo intellettuale dei potenti, per esempio il professor Guidobaldo Maria Riccardelli, che l’aveva assunto soltanto perché Fantozzi si era dichiarato un grande amante del cinema tedesco delle origini, e che propone ai dipendenti, nel cineforum aziendale, La corazzata Potëmkin (trasformata in Corazzata Kotemkin) solo per ostentare un gusto cinematografico superiore (in realtà, però, il film di Sergej M. Ėjzenštejn, trasformato in Serghei M. Einstein, durava circa 75 minuti, non tre ore come si dice nel Secondo tragico Fantozzi). Senza trascurare che quegli stessi dipendenti preferiranno, subito dopo la ribellione di Fantozzi, vedere in successione Giovannona Coscialunga, L’Esorciccio e La polizia s’incazza.


Il grido di protesta di Fantozzi («Per me La Corazzata Kotemkin è una cagata pazzesca!») è quindi l’urlo disperato di chi è costretto a tacere per non essere troppo anticonformista e non sentirsi una voce fuori dal coro. È una ribellione che esprime una frustrazione collettiva dettata dalla paura e dal servilismo, poiché tutti gli impiegati detestano quel film ma nessuno ha il coraggio di parlare per non pagarne le conseguenze; e così si preferiscono i falsi elogi, quando il professor Riccardelli apre il dibattito, dopo aver fatto inginocchiare Fantozzi sui ceci perché l’ha scoperto mentre si era addormentato durante la proiezione. E allora: «Quando vedo quei dettagli degli stivali, io vado in estasi» dice Filini, per poi esagerare, chiedendo addirittura di vederlo daccapo. «Questa sera il montaggio analogico mi ha completamente sconvolto» aggiunge il Geometra Calboni. La verità è l’esatto opposto. Perché nessuno avrebbe avuto il coraggio di dirlo; nessuno avrebbe contraddetto il professor Riccardelli. Ma per Fantozzi la delusione per non essersi goduto in pace la partita Italia-Inghilterra era stata troppa. Perfino il cronista lo aveva sbeffeggiato quando, dopo la chiamata di Filini, era stato costretto ad abbandonare la poltrona: «Scusate l’emozione, amici che state comodamente seduti davanti ai teleschermi, nessuno escluso, ma sono centosettant’anni che non vedevo una partenza così folgorante degli Azzurri!» Tutto era perfetto, perfino il «programma formidabile» di Fantozzi: «Calze, mutande, vestaglione in flanella, tavolinetto di fronte al televisore, frittatona di cipolle per la quale andava pazzo, famigliare di Peroni gelata, tifo indiavolato e rutto libero.»


«Lui è ossessionato dal potere», ha detto Villaggio. «Ha paura. È un uomo che sa di essere inutile. Se lui muore un giorno o si ammala in ufficio, nella Megaditta non se ne accorge nessuno. Essendo ossessionato dall’idea di essere del tutto inutile, cerca disperatamente il servilismo, e allora c’è la stagione di Natale, dove quasi due mesi prima ci si comincia a piazzare nei punti strategici quando passano i potentissimi, a cui dicevano: “A lei e alla sua famiglia i più servili auguri di buon Natale”. Quel “servili” era la chiave per capire com’erano disperatamente sudditi. Mai Fantozzi si permette di contraddire un potente. Anche adesso, detto francamente: c’è la tendenza alla gerarchia.» La crescita gerarchica è direttamente proporzionale alle umiliazioni subite. Lo fa capire Filini a pranzo, in mensa, riferendosi alle partite di biliardo del Feroce Cavalier Catellani, eletto «Gran Maestro dell’Ufficio Raccomandazioni e Promozioni»: «Il ragionier Vitti: sette partite perdute: due scatti.»


Quando Fantozzi ne parla con Pina, è lei stessa a chiedergli di perdere qualche partita. «Mai», risponde Fantozzi, «piuttosto preferisco fare la fame, mangiare cipolla… a parte che non ho mai toccato una stecca di biliardo in vita mia. Ho la mia dignità, io…» Coraggioso. Ma torna se stesso poco dopo, quando aggiunge: «E poi, non oserei più guardarti in facc…», e vedendo Pina, nel letto, si rende conto di quanto sia brutta. Di conseguenza, che è costretto a perdere per poter crescere di livello nella Megaditta. La scena successiva smentisce l’effimera ostentazione della propria dignità da parte di Fantozzi, alle prese con un maestro di biliardo, proiezione della severità scolastica nella prima metà del Novecento, con punizioni esemplari come la stecca sui dorsi delle mani. Per non «confessare alla moglie la vergognosa verità», Fantozzi le fa credere di avere una relazione extraconiugale. Ma la sua inettitudine gli impedisce di fare anche questo: così una notte Pina lo aspetta sveglia a casa, e lui, togliendosi la giacca, rivela il corpetto da biliardo. Scoperto in pieno. Disperato, si butta sul letto, ma non può sfogare la propria disperazione neanche così, perché Pina ha già «separato i letti».


Arriva la sera della partita con il Cavalier Catellani. Fantozzi, come al solito, subisce, ma «al trentottesimo “coglionazzo” e a 49-2 di punteggio, Fantozzi incontrò di nuovo lo sguardo di sua moglie» e così, spinto da un moto di orgoglio inedito, osa dire: «Mi perdoni un attimo… vorrei fare un tiro io adesso…» È lo stesso Fantozzi che grida che La corazzata Kotemkin è «una cagata pazzesca». È il Fantozzi che si prende un briciolo di rivincita in una vita perennemente mediocre. E se lì erano seguiti ben 92 minuti di applausi, qui segue non un trionfo, ma una fuga con rapimento della madre del Cavalier Catellani, alla cui statua tutti gli impiegati dovevano inchinarsi e su cui puntualmente Fantozzi urtava. «Fondamentalmente», dice Villaggio, «lui è un brav’uomo. In casa è un tirannosauro.»
È un «tirannosauro» perché dominare la famiglia è la sola rivalsa che gli è concessa, non essendo in grado di dominare la società ed essendo destinato all’infelicità. È per questo che è un personaggio tragico.


«Lui ha liberato gli italiani dal timore di essere isolati in un certo tipo di incapacità a vivere, a essere felici» continua Villaggio. «Nella cultura consumistica la settimana bianca, le coppe, le spiagge infernali, i prezzi osceni, la moglie terribile: in quel tipo di sfortuna e di incapacità di essere felici, secondo i dettami della cultura consumistica – che diceva: “Consuma e sei felice. Fai delle vacanze e sarai felice” – lui faceva le vacanze, andava alla settimana bianca, andava al mare e tornava massacrato, ma massacrato assolutamente infelice. Gli italiani vivevano la stessa tragedia e avevano paura di essere anomali, poi lentamente un terapeuta gli ha detto: “No, guarda, non sei un fenomeno isolato: tutti quelli che subiscono quel tipo di cultura sono destinati a essere infelici”.» Bisogna quindi leggere tra le righe un messaggio di netta opposizione alla cultura consumistica, a cui Fantozzi si adegua, senza però trovare la felicità che disperatamente ricerca.


In tutta la saga, presentata come serie di film comici ma in realtà piena di pessimismo, non c’è un solo personaggio in grado di cambiare le cose, capace di dare una svolta e di interrompere i soprusi del potere e l’avversità del destino. È incapace di farlo Pina, servile quanto Fantozzi, tanto da rispondere «Obbediamo» alla chiamata improvvisa di Filini proprio quando sta per incominciare Italia-Inghilterra. È devota e affezionata a Ugo ma non lo sprona mai a reagire per i torti subiti. Tuttavia, Pina è l’unica che tenterà di ribellarsi alla piatta vita da casalinga a cui il matrimonio con Fantozzi l’ha destinata, e soprattutto quando sarà interpretata da Milena Vukotic (nei film di Salce, Pina era Liù Bosisio), la sua personalità cercherà di emergere, anche se l’affetto coniugale si trasforma in pena, intesa più come vergogna che compassione.


Il ragionier Filini si annovera tra i dipendenti inferiori, proprio come Fantozzi, per cui, a parte organizzare gite, partite di calcetto tra scapoli e ammogliati (in cui però lui farà l’arbitro), non ha nessuna possibilità di emergere, condannato, insomma, a non scalare la gerarchia aziendale. Questo lo fa invece Calboni, che si sposerà con la perenne fiamma di Fantozzi, la signorina Silvani. Calboni è opportunista e arrogante, uno che può schiacciare Fantozzi in qualunque momento. Dall’altro lato, la signorina Silvani sfrutta l’infatuazione di Fantozzi per chiedergli favori o per scaricare su di lui il proprio lavoro. Considerati questi personaggi e la loro natura, nel momento in cui Fantozzi cerca di risollevare le proprie sorti, qualcosa puntualmente tende ad andare male. I suoi momenti di gloria sono pochi e la ribellione al potere lo fa apparire più sicuro di sé (perfino la signorina Silvani, dopo la celebre frase sulla Corazzata Kotemkin, gli dice: «Che bravo, Fantozzi!»). Saltuari momenti di gioia in una vita del tutto infelice: in una vita condannata alla sofferenza da quella malattia incurabile che si chiama mediocrità (o inettitudine) e che è il male tipico dell’italiano-medio, timoroso di uscire da una condizione che non lo soddisferà mai ma che lo farà sentire sicuro di essere ancora se stesso.

Nelle sale con “The Martian”, Ridley Scott prepara il sequel di “Prometheus”

Nonostante la sua versatilità, Ridley Scott si è fatto apprezzare soprattutto come regista di film di fantascienza e di film storici dai toni epici. I suoi primi due film di grande successo sono stati Alien (1979) e Blade Runner (1982), mentre quando ha provato a cimentarsi con argomenti storici, a parte Il Gladiatore (2000), non gli è andata benissimo, se si pensa anche all’ultimo, Exodus – Dei e Re (2014), che negli Stati Uniti si è rivelato un flop di incassi, non coprendo nemmeno i costi di produzione (per non parlare, poi, della feroce censura in Egitto e in Marocco per le varie incongruenze storiche e per la scelta – discutibilissima e legata alle politiche di marketing tipicamente hollywoodiane – di far interpretare dei personaggi biblici a degli attori americani, dai tratti occidentali).


Ad ogni modo, il genere in cui il regista ha dimostrato di trovarsi più a suo agio è stata la fantascienza, e il fatto che il 2 ottobre esca nelle sale americane The Martian – Il sopravvissuto (in Italia uscirà il 1° ottobre) e che in cantiere ci sia il sequel di Prometheus (2012) non sorprende affatto. The Martian, tratto dal romanzo di Andy Weir L’uomo di Marte, è una versione futuristica di Robinson Crusoe in cui l’isola deserta è sostituita con il Pianeta Rosso, uno dei luoghi più ricorrenti della fantascienza, tanto da ispirare innumerevoli scrittori e sceneggiatori, affascinati dal mistero che si cela dietro al pianeta del sistema solare più simile e più vicino alla Terra. Uno dei primi a lasciarsi incantare da Marte fu H.G. Wells nel romanzo La guerra dei mondi (1897), da cui sono stati tratti due film, l’ultimo dei quali di Steven Spielberg (2005), in cui i marziani erano esseri superiori ai terrestri dal punto di vista tecnologico ma incapaci di difendersi dai batteri atmosferici. Anche Frank Herbert, nel suo ciclo di Dune (da cui è stato tratto l’omonimo film di David Lynch, basato sul primo romanzo su una serie di sei libri), si è probabilmente ispirato a Marte, visto che il pianeta Arrakis è una vasta landa desertica.


Ossessionato da Marte era Doug Quaid in Atto di forza (1990). Quaid addirittura sogna di visitarlo e per questo si rivolge a una società che si occupa di viaggi mentali, desiderando ottenere la memoria di un agente segreto. Atto di forza, basato su un racconto di Philip K. Dick, ha avuto un remake, Total Recall (2012), non all’altezza però del film di Paul Verhoeven, già buono di per sé. Diversa è stata invece l’interpretazione di Tim Burton, che in Mars Attacks! (1996) ha voluto parodiare i cliché dei film di fantascienza sull’invasione aliena, aggiungendoci quell’umorismo nero tipico dei suoi film, mentre in Mission to Mars (2000) di Brian De Palma, il pianeta rosso diventa la meta di una spedizione di soccorso, che si trova a far fronte all’inspiegabile mistero del volto – o di quello che sembra un volto – che compare sulla superficie marziana.


Un anno dopo Mission to Mars, ecco un altro maestro del cinema che propone la sua interpretazione di Marte: è John Carpenter con il criticatissimo Fantasmi da Marte (2001), con la solita idea della colonizzazione da parte dei terrestri. Un’idea, questa, recuperata da alcuni classici di fantascienza degli anni Cinquanta: ad esempio Cronache Marziane (1950) di Ray Bradbury, a cui si devono meriti letterari che superano abbondantemente i confini della narrativa di genere (si pensi a Fahreneit 451), visto che si sottolinea la somiglianza tra la colonizzazione possibile di Marte e quella del Nuovo Mondo, con critiche nemmeno troppo celate sul comportamento dei colonizzatori nei confronti dei nativi marziani. Altro autore apprezzatissimo è stato Arthur Clarke, che nel romanzo Le sabbie di Marte (1951) ipotizza addirittura una convivenza tra le due razze.


Non poteva mancare Isaac Asimov, autore di numerosi cicli di fantascienza, ma anche di una serie per ragazzi che ha per protagonista Lucky Starr: e il primo romanzo di questa serie, Lucky Starr, il vagabondo dello spazio (1952), è ambientato proprio su Marte. Un decennio dopo, anche Robert A. Heinlein ambienterà su Marte quello che è considerato il suo capolavoro, Straniero in terra straniera (1961), con cui si aggiudicò il Premio Hugo. In questo caso, però, si tratta di un viaggio opposto, ovvero da Marte verso la Terra. In particolare, è il ritorno a casa di un uomo allevato dai marziani, che deve pian piano reintegrarsi tra i terrestri. Infine, tornando ai film ambientati su Marte, l’ultimo in ordine di apparizione è stato il John Carter (2012) targato Disney, basato però sul romanzo di Edgar R. Burroughs Sotto le lune di Marte (1916).


È evidente, quindi, che il tema sia tutt’altro che nuovo e che letteratura e cinema (ma anche i fumetti, ad esempio Nathan Never) vi abbiano attinto in abbondanza, saccheggiando una buona parte delle soluzioni narrative che un contesto simile avrebbe potuto proporre. Quanto a Ridley Scott, il regista non ha dimenticato che gran parte del suo successo lo deve – come si è detto – ad Alien, saga che ha coinvolto registi del calibro di James Cameron (Aliens – Scontro finale), David Fincher (Alien 3) e Jean-Pierre Jeunet (Alien – La clonazione) e che ha portato a una contaminazione (o crossover) con un’altra serie di enorme successo come Predator. In parallelo al sequel di Prometheus, che si intitolerà Alien: Paradise Lost, e che sarà diretto dallo stesso Ridley Scott, si svilupperà Alien 5, diretto stavolta da Neill Blomkamp (District 9, Elysium, Humandroid), di cui il regista del Gladiatore sarà produttore e supervisore. Più che Alien 5, la numerazione effettiva sarebbe 2.5, visto che si colloca, a livello cronologico, tra Aliens – Scontro finale e Alien 3. Nel film di Blomkamp tornerebbe il Caporale Dwayne Hicks, ma ci sarà spazio anche per la protagonista assoluta della saga, Ellen Ripley, interpretata, come sempre, da Sigourney Weaver.


Ridley Scott pensa, invece, a quello che è accaduto prima del suo Alien. Il regista ha ammesso che tra Prometheus e Alien non c’era alcun legame, nonostante la distanza temporale, nella finzione narrativa, sia di una trentina d’anni circa (Prometheus è ambientato nel 2091; Ripley incontra per la prima volta gli xenomorfi nel 2122). Nemmeno nel cosiddetto Prometheus 2 ci saranno collegamenti diretti con Alien, ma bisognerà attendere almeno il terzo o il quarto sequel prima di poter tornare alla franchise del film del 1979. Il titolo, insomma, potrebbe trarre in inganno. Chiaro che non si tratti di una casualità: il richiamo al poema di John Milton permette di dare già una prima chiave di lettura; o meglio, la questione alla base del film l’ha proposta Michael Ellenberg, produttore esecutivo del primo Prometheus: «Cosa accadrebbe se si potesse incontrare Dio, ma questi si rivelasse essere il diavolo?».


Nessuna risposta, perlomeno non prima del 2017: Alien: Paradise Lost dovrebbe entrare in produzione nella primavera del 2016. L’obiettivo dei sequel, secondo Ridley Scott, sarà spiegare come e perché sono stati creati gli xenomorfi. «La domanda più semplice era: “Chi diavolo c’era nella nave trovata in Alien? Chi c’era al suo posto e perché portava quel carico? E dove andava?”», ha detto Ridley Scott. «Ci ho pensato per un po’ ma ero troppo impegnato e non avevo davvero nulla in mente e così, quando ho finalmente archiviato Alien vs Predator ho pensato: “Sai una cosa? Questa sì che è una buona idea”. Più ne parlavo e più pensavo: “Dannazione…” Il film [“Prometheus 2”] stavo per chiamarlo Alien: Paradise Lost perché ho pensato che avesse una connotazione inquietante l’idea, perché prepara la nostra concezione e l’idea di Paradiso, qualcosa suggerito dalla religione, e la religione dice “Dio” e poi Dio, che ci ha creati, e questa è una cosa sicura».


«Se c’è il Paradiso», ha aggiunto Scott, «non può essere quello che si pensi che sia. Il Paradiso ha qualcosa che lo rende estremamente sinistro e inquietante.» La sceneggiatura di Alien: Paradise Lost sarà scritta da Jack Paglen e Michael Green. Nel cast, come in Prometheus, Noomi Rapace e Michael Fassbender.



FONTE: MOVIEPILOT

Speciale Fashion Week: Costume National Primavera/Estate 2016

E’ il cinema italiano a ispirare la dark lady di Ennio Capasa.


La contemporaneità tinta di nero, misteriosamente drammatica, guida l’interprete della collezione di Costume National.
Una sfilata che prende il via con l’installazione visiva e riflessiva di Riccardo Previdi “Maha Mantra”. A comporre l’opera immagini e tracce audio ricercate attraverso i social e gli stock online, talvolta prive di autore. Il loro scopo è quello di far capire agli ospiti come, molto spesso, ciò che condividiamo non evoca più un’esperienza, bensì è atto unicamente a riempire il display di uno smartphone, di un tablet o il desktop di un computer.
L’avventura di Antonioni e A bigger splash di Guadagnino sono le suggestioni, provenienti dal grande schermo, che guidano Capasa.
Il rock cardine della Maison si fonde con la morbida sensualità delle luci soffuse e dei chiaroscuri contrastati.

La fluidità asimmetrica e i tagli maschili dei look proposti svelano tessuti altamente ricercati, come la stampa glitter gessata su doppio canvas in viscosa e il denim nero giapponese.


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Il flash rosso spezza le monocromie del bianco e nero che, però, celano a sorpresa un’anima silver.
Hollywood non è mai stata così vicina ed ecco come la borsa Black, in crosta nera con attacco in metallo, insieme ai sandali con tacco a spillo e agli occhiali da sole over, completa l’aura da vera diva del noir.


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TIFF, Tokyo International Film Festival: dal 22 al 31 ottobre 2015 la 28ma edizione

Manca ancora un mese alla 28ma edizione del Tokyo International Film Festival (TIFF), una delle rassegne più importanti sul cinema asiatico.


LA SCORSA EDIZIONE – Nel 2014, ad aggiudicarsi il premio più importante, il Tokyo Sakura Gran Prix, era stato Heaven knows what, film drammatico di Josh e Benny Safdie sulla vita di strada dei giovani drogati di New York, tratto dal libro di Arielle Holmes Mad love in New York City. Un film iperrealistico, con uno stile quasi da documentario, sull’amore viscerale che lega Harley, interpretata dalla stessa Arielle Holmes, e Ilya, dipendenti non soltanto l’una dall’altro ma anche dall’uso dell’eroina.


GLI SPECIALI – Per quanto riguarda la 28ma edizione, in programma dal 22 al 31 ottobre 2015, nuova sezione sarà “Japan Now”, che intende valorizzare la cultura e la poliedricità del Giappone. A inaugurarla, il regista Masato Harada, che nel corso della sua lunga carriera è riuscito a cimentarsi tanto nelle tematiche sociali quanto nel puro intrattenimento. Harada era stato premiato al Blue Ribbon Awards con il suo Climber’s High (2008), basato sullo schianto di un aereo della Japan Airlines contro il monte Takamagahara, una tragedia che provocò la morte di oltre cinquecento passeggeri. Tra gli altri film del regista, che saranno proiettati al TIFF con i sottotitoli in inglese, ci saranno anche Kamikaze Taxi (1994), Chronicle of My Mother (2011), Kakekomi (2015) e The Emperor in August (2015).


Secondo pezzo forte, per tutti gli amanti del brivido, sarà una sezione intitolata “Masters of J-Horror”, dedicata a maestri giapponesi dell’horror come Hideo Nakata (regista di Dark Water e The Ring, da cui è tratto il più noto remake hollywoodiano), Takashi Shimizu (noto per Ju-on: Rancore e The Grudge, ma anche per il recente remake in live action di Kiki – Consegne a domicilio, famoso per la versione animata dello Studio Ghibli di Miyazaki e Takahata) e Kiyoshi Kurosawa (Journey To the Shore, Tokyo Sonata ma soprattutto Cure, capace di abbattere i confini di genere e fondamentale per la crescita del J-horror): i loro film saranno proiettati per tutta la notte del 28 ottobre.


Il TIFF, che nel 2014 aveva dedicato una rassegna sulla saga di Evangelion, quest’anno omaggerà il mondo di Gundam, franchise nato nel 1979 grazie al regista Yoshiyuki Tomino e prodotto dalla casa giapponese Sunrise, con uno speciale intitolato proprio “The World of Gundam”. Un evento imperdibile per tutti gli appassionati delle saghe sui robot giganti: in totale, saranno ben 26 i film in programmazione, comprendenti cortometraggi, film tv e serie animate, da quella classica, la Universal Century del 1979, fino a quelle più recenti, Gundam SEED e Gundam 00. In Giappone, Gundam è poco meno di una divinità, tanto da essere il primo anime ad aver avuto una statua a grandezza naturale di circa 18 metri, raffigurante il capostipite della saga. Lo speciale “The World of Gundam” sarà affiancato dalla proiezione del film di Akira Kurosawa Quelli che camminavano sulla coda della tigre, adattamento di una commedia kabuki che la censura giapponese accusò di aver deriso la tradizione della forma artistica. Nel secondo dopoguerra, anche le autorità americane vietarono la maggior parte delle opere di kabuki, tra cui proprio il film di Kurosawa, credendo che avrebbe promosso i valori feudali.


APERTURA E CHIUSURA – Ad aprire la nuova edizione della kermesse nipponica sarà però l’ultimo film di Robert Zemeckis, The Walk, tratto da un libro di Philippe Petit, il funambolista che il 7 agosto 1974 camminò su un filo tra le Torri Gemelle del World Trade Center. Risultato di questa folle impresa furono 45 minuti di puro brivido a oltre 400 metri di altezza. Non è però la prima volta che l’esperienza di Petit si trasforma in un film: nel 1984 era uscito il cortometraggio di Sandi Sissel, High Wire, anche se la notorietà di Petit si deve soprattutto al film di James Marsh, Man on Wire – Un uomo tra le torri, con cui nel 2009 il regista britannico si aggiudicò l’Oscar per il Miglior documentario. The Walk, distribuito dalla Warner Bros e in uscita il prossimo ottobre, sarà interpretato da Joseph Gordon-Levitt (Inception, Il cavaliere oscuro – Il Ritorno), fortemente voluto da Zemeckis. L’attore sarà affiancato da Ben Kingsley (Shinder’s List, Shutter Island, Hugo Cabret, Ender’s Game, Exodus – Dei e Re), Charlotte Le Bon (Asterix & Obelix al servizio di Sua Maestà) e James Badge Dale (The Departed, World War Z). A chiudere la rassegna ci sarà invece The Terminal, un film drammatico di Tetsuo Shinohara sull’annullamento delle emozioni e sull’importanza dei sentimenti.


I FILM IN CONCORSO – Più di 1400 titoli presentati, ma finora tre sono quelli in concorso. Il primo è Foujita di Kohei Oguri, film biografico sul pittore giapponese che visse nella Parigi degli anni Venti, famoso per i suoi nudi femminili e amico di Picasso e Modigliani. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, Foujita coglierà l’occasione per un ritorno alle origini, nel suo amato Giappone, in un piccolo paese del nord, accanto a sua moglie. Un ritorno che gli permetterà di riscoprire il fascino della sua terra.
Secondo film selezionato è Sayonara di Koji Fukada. Tutt’altra tematica: lo scenario è un Giappone post-apocalittico contaminato dalle radiazioni. Il governo ordina ai residenti di abbandonare il paese, ma una donna e il suo androide saranno lasciati in balia della solitudine e di una morte che aleggia sempre nell’aria.
Terzo, e per ora ultimo, film in gara è The Inerasable di Yoshihiro Nakamura, in cui uno scrittore indaga su una serie di misteriosi suicidi che lo condurranno verso una verità sconcertante.


I SUCCESSI INTERNAZIONALI – All’interno della sezione “World Cinema”, e fresco del successo ottenuto alla 72ma Mostra del Cinema di Venezia, troveremo invece Everest di Baltasar Kormákur, che ha per oggetto un’altra impresa, dopo quella di Petit nel film di Zemeckis, vale a dire la scalata della vetta più alta del mondo da parte di Rob Hall (Josh Brolin) e della sua Adventure Consultants, che il 10 maggio 1996 guidarono un gruppo di dilettanti appassionati di alpinismo sul monte Everest.
Sempre ispirato a una storia vera, e in particolare a un’icona intramontabile del cinema, è Life di Anton Corbijn, film biografico sull’amicizia tra James Dean (Dane DeHann), simbolo del ribellismo giovanile anni ‘50 e reduce dalle riprese della Valle dell’Eden, e il paparazzo Dennis Stock (Robert Pattinson), che sogna di pubblicare una sua foto su una copertina di Life.
Presidente di giuria del TIFF 2015 sarà Bryan Singer (X-Men, Operazione Valchiria, Superman Returns, Il Cacciatore di Giganti).

Lauren Bacall: fascino senza tempo

Nasceva oggi, 16 settembre, l’attrice più affascinante ed iconica degli anni Quaranta: Lauren Bacall. Sguardo magnetico e algido, sex appeal da vendere, Lauren Bacall ha incarnato la bellezza dei Forties.

Modella e attrice, all’anagrafe Betty Jane Perske, la diva nacque a New York il 16 settembre del 1924 da padre polacco e madre romena, immigrati negli Stati Uniti. Abbandonata dal padre, la piccola cresce solo con la madre, che le dà il proprio cognome, Bacal, che diviene Bacall nel tentativo di anglicizzarlo. La bella Betty Jane coltiva ambizioni artistiche e fin da piccola sogna di fare la ballerina.

La sua carriera artistica inizia come fotomodella: scoperta dalla mitica Diana Vreeland, ottiene la copertina di marzo 1943 di Harper’s Bazaar, il magazine più famoso e prestigioso, di cui la Vreeland è fashion editor.

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Lauren Bacall fotografata da John Kobal
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Lauren Bacall, all’anagrafe Betty Jane Perske, nacque da genitori immigrati negli Stati Uniti
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Capelli ad onde e sguardo obliquo, la Bacall ha incarnato la bellezza tipica degli anni Quaranta

Lauren Bacall in uno scatto del 1944
Lauren Bacall in uno scatto del 1944


Soprannominata “The Look”, “lo sguardo”, per quei suoi occhi così magnetici e taglienti, Lauren Bacall ha incarnato la bellezza e lo stile degli anni Quaranta: i capelli ad onde, il rossetto rosso lacca, il look austero eppure sexy. La Vreeland disse di lei: “È perfetta come nessun’altra”. Un primo piano della modella cattura l’attenzione del regista Howard Hawks. Fu così che, appena diciannovenne, la bella Betty Jane si ritrovò sul set, alla sua prima esperienza cinematografica.

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Scoperta da Diana Vreeland, Lauren Bacall ha iniziato a lavorare come fotomodella
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Ad appena diciannove anni conobbe sul set il suo compagno di vita Humphrey Bogart
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Icona e diva di Hollywood, Lauren Bacall si è spenta nel 2014

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La diva nacque a New York il 16 settembre 1924


Il suo primo ruolo è da protagonista, nel film “Acque del Sud”, accanto ad uno dei più grandi divi di Hollywood, Humphrey Bogart. Tra i due sul set nasce un’attrazione fortissima, nonostante i venticinque anni di differenza che li separano. I due divi convolano a nozze nel 1944 e dalla loro unione nascono due figli, Stephen e Leslie. L’unico amore della sua vita fu proprio Bogart, sebbene dopo la sua scomparsa la diva ebbe una relazione con Frank Sinatra e un secondo matrimonio.

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Lauren Bacall fu attrice e modella
Harper's Bazaar, Marzo 1943
Harper’s Bazaar, Marzo 1943
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Uno scatto che cattura la bellezza dell’attrice
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Sigaretta in bocca e bellezza misteriosa

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Lauren Bacall e Humphrey Bogart, compagni sul set e nella vita


Un grande amore per la moda, Lauren Bacall fu una vera icona. Avanti rispetto ai tempi, la sua figura slanciata ben si addiceva ai capi di Yves Saint Laurent, che l’attrice adorava, insieme ad Emanuel Ungaro, Pierre Cardin e Christian Dior.


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Ingrid Bergman: il glamour di una diva

AMY : questa è la sua storia

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Per soli 3 giorni, nei cinema italiani, il documentario che svela uno spaccato di vita dell’artista scomparsa prematuramente.

Esce nelle sale AMY, distribuito dalla Nexo Digital, un excursus attraverso la storia della talentuosa cantante britannica Amy Winehouse, la cui vita si è interrotta in circostanze tragiche.

Il regista Asif Kapadia, il produttore James Gay-Rees e il montatore Chris King, già forte connubio per il documentario dedicato a Ayrton Senna, hanno ripercorso, attraverso i documenti inediti e i brani più famosi, il privato della Winehouse, sin dalle sue origini nella North London.

Tutta la narrazione si focalizza intorno ai testi prodotti dall’ artista e alle interviste a coloro che hanno avuto il privilegio di interagirvi. La produzione è stata un percorso impervio, visto che non esiste ancora una biografia ufficiale, né tantomeno una totale apertura da parte delle persone davvero vicine, alquanto reticenti a esprimersi apertamente.
I filmmaker, grazie alla difficoltosa conquista della fiducia di queste ultime, hanno impiegato molto tempo per reperire il materiale.
Figura chiave per l’inserimento dei filmati è stata quella di Nick Shymansky, primo manager della cantante. Riprese amatoriali che ci fanno scoprire una semplice ragazza ebrea, dal carattere ipersensibile e intenso, diventata poi un fenomeno.

Per King è stato molto difficile rendere appetibile per il grande schermo la documentazione visiva raccolta, essendo di pessima qualità. Il suo lavoro è durato, infatti, 20 mesi e si è focalizzato sulla stabilizzazione dell’immagine, l’inquadratura e la colour correction.
Più che sulla vita privata, il film si concentra sull’effetto placebo della scrittura. Per far comprendere ciò allo spettatore gli intensi testi della cantante scorrono sullo schermo.



Un prodotto che concretizza l’idea di aver vissuto e di vivere, nell’eternità delle sue canzoni, un’artista estremamente complicata, carismatica e dal piglio brillante.

Ingrid Bergman: il glamour di una diva

Nasceva cento anni fa l’attrice Ingrid Bergman. Moglie del regista Roberto Rossellini, madre di Isabella, l’attrice svedese è stata una delle più famose dive di Hollywood a cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta.

Fascino svedese che ha incantato il maestro del brivido Alfred Hitchcock, che le affida il ruolo di protagonista in Notorius, l’amante perduta, sarà però l’interpretazione nel celebre film Casablanca a decretarne il successo mondiale, in una struggente love story con Humphrey Bogart sullo sfondo della Seconda Guerra Mondiale.

Il suo volto perfetto rigato di lacrime incorniciato da un Borsalino in quell’addio così struggente, con la promessa di rivedersi a Parigi, è divenuta immagine simbolo degli anni Quaranta.

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Ingrid Bergman in “Casablanca” di Michael Curtiz, 1942
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In “Notorius” di A. Hitchcock, 1946

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Ancora la Bergman in “Casablanca”, il film con cui divenne celebre in tutto il mondo


Vincitrice di tre premi Oscar, al centro delle cronache rosa per il triangolo con Roberto Rossellini e Anna Magnani, Ingrid Bergman aveva la bellezza algida del Nord e lo charme tipico degli anni Quaranta.

Elegantissima in Gattinoni nel film Europa ’51, splendida in Notorius-L’amante perduta al fianco di Cary Grant, con i costumi della celebre Edith Head, Ingrid Bergman è stata nominata nel 1999 dall’American Film Institute la quarta attrice più grande della storia del cinema. Una bellezza ingombrante che però non mise mai in secondo piano il suo talento, la Bergman aveva quella forza e quella modernità tipica dello stile Forties. Perfetta in Casablanca, con i costumi del mitico OrryKelly, il film che ne decretò la fama mondiale, rendendola una diva.

Timidissima per sua stessa ammissione, da bambina restò incantata di fronte al mestiere dell’attore, che decise di intraprendere, studiando con dedizione e con una buona dose di stakanovismo.

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Sigaretta in bocca e basco, in perfetto stile anni Quaranta
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In “Casablanca” con i costumi di Orry-Kelly

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In “Notorius”, con i costumi di Edith Head


Un volto espressivo come pochi davanti alla macchina da presa, un’eleganza innata e una grande intelligenza. “Il segreto della felicità è avere buona salute e cattiva memoria” è una sua massima storica.

Incarnazione della bellezza nordica, perfetta per interpretare l’eroina tormentata, la sua sensualità era un sapiente mix di algido e torrido che fece perdere la testa a Roberto Rossellini, da cui l’attrice ebbe tre figli, le gemelle Isabella e Isotta e Roberto Jr.

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Ingrid Bergman in un abito da sera in seta: perfetta incarnazione dello stile anni Quaranta
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Sul set di “Stromboli, terra di Dio”, 1949
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Ingrid Bergman nacque a Stoccolma il 29 agosto 1915
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Immortalata da Richard Avedon, New York 1961
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La Bergman fu al centro del gossip per il triangolo amoroso con Rossellini e Anna Magnani

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L’attrice svedese con la figlia Isabella


Dopo una lunga battaglia contro un cancro al seno, l’attrice si spense nel 1982, proprio nel giorno del suo compleanno. L’edizione di quest’anno del Festival del Cinema di Cannes le ha reso omaggio. Il carisma- come dichiarava la stessa diva- era il suo tratto distintivo, insieme all’indipendenza, che ne fece una donna moderna. Il fascino senza tempo di una vera diva.

Il pazzo Zoo di Derek dal gusto tricolore

In esclusiva per D-Art, a seguito dell’uscita del primo trailer, le impressioni dei connazionali che hanno contribuito, con il proprio estro, durante le riprese di Zoolander 2.

Le espressioni di stupore e le urla di entusiasmo di coloro che attendevano al fashion show parigino dell’uomo Valentino, lo scorso inverno, all’uscita di Derek e Hansel su una reale passerella, resteranno impresse nella storia degli episodi più divertenti della moda e del cinema.

I protagonisti di Zoolander, interpretati da Ben Stiller e Owen Wilson, nel lontano 2001, hanno annunciato così il ritorno sul grande schermo del film che parodizza il fashion system, di cui lo stesso Stiller è regista. Dai 16:9 alla realtà, una conferma attesa da tempo che ha fatto gioire ancora di più i cineasti italiani, in quanto le riprese del film si sono svolte a Roma.

E proprio pochi giorni fa, a qualche mese dalla fine del girato, è stata resa nota la data di uscita della pellicola, con un trailer in pieno stile Zoolander che condividiamo da fonti Paramount.



Massima la discrezione da parte della produzione che, però, ha deciso di attingere contributi artistici e stringere sinergie con professionalità italiane.
Una manna dal cielo per il nostro Paese e l’industria creativa.
Infatti, anche grazie a Stiller, Roma per qualche mese ha vissuto trepidante e accogliente ogni passo della macchina produttiva, rivivendo i fasti de La Dolce Vita, in piena era 2.0.

A testimoniare ciò il fotografo di moda e advertising Fulvio Maiani, uno dei professionisti contattati da Stiller in persona, lo scorso aprile, che ha iniziato la sua esperienza sul set cinematografico proprio con la pellicola. Non abituato ai tempi e alle modalità delle produzioni cinematografiche, si definisce fortunato ad aver inaugurato la sua ascesa in tal senso proprio con il sequel del colosso. Ottime le sue impressioni in merito agli attori, definiti alquanto generosi con la macchina fotografica e ineccepibili stacanovisti.

Il fotografo di moda e advertising Fulvio Maiani. Ph. Cinzia Cilla Carcaterra
Il fotografo di moda e advertising Fulvio Maiani. Ph. Cinzia Cilla Carcaterra


L’entusiasmo e l’immensa gratitudine, invece, trasudano dalle parole di Enrico Palazzo, giovane direttore artistico di due happening creativi che si tengono nella Capitale, atti a promuovere e a procacciare nuovi talenti nel mondo della moda. A contattarlo è stato l’assistente alla regia Marco Ferreri che ha richiesto consulenza.

La sua missione era portare sul set i volti noti, gli “up & coming” nonché le figure della moda riconosciute iconograficamente anche dai più profani. Forte della sua esperienza di networking, Palazzo ha così chiamato Diane Pernet, storica giornalista e talent scout statunitense, già vista nei film “Pret-à- porter” di Altman e “La nona porta” di Polanski, Baby Marcelo, eclettica figura nota al mondo della disco music e Cyprien Richardi, “fashion addict” presente in tutti gli scatti di street style e ai party più esclusivi.

Lo stesso Richardi parla di un lavoro che ha segnato la sua carriera a seguito di una quattro giorni di riprese ferrate circondato dall’aura del glamour.
E nel tripudio di celebrities internazionali, come già avvenuto nel primo Zoolander, che hanno fatto a gara pur di figurare nel lungometraggio, anche Fabrizio Imas, attore e editor, che si sente alquanto lusingato della partecipazione e trepidante d’attesa nel rivedersi anche solo in un frame; nonchè i modelli di una frizzante agenzia campana, la C Model Management, tutti concordi nell’ aver vissuto il sogno hollywoodiano, fatto di scenografie e organizzazione impeccabili, a due passi da casa.

Cyprien Richardi, Diane Pernet, Baby Marcelo, Enrico Palazzo e altri eclettici figuranti,  provenienti dal mondo della moda, sul set di Zoolander 2
Cyprien Richardi, Diane Pernet, Baby Marcelo, Enrico Palazzo e altri eclettici figuranti, provenienti dal mondo della moda, nel backstage di Zoolander 2


Diane Pernet, Enrico Palazzo e Fabrizio Imas nel backstage di Zoolander 2
Diane Pernet, Enrico Palazzo e Fabrizio Imas nel backstage di Zoolander 2


I modelli della C models management nel backstage di Zoolander 2
I modelli della C models management nel backstage di Zoolander 2


Non resta che attendere, dunque, l’uscita del sequel riconoscendo fieramente la partecipazione dei nostri connazionali che hanno avuto l’occasione di interagire con un colosso che segnerà il firmamento del cinema mondiale.

Marilyn Monroe, spunta il calendario sexy

Il 5 agosto del 1962 si spegneva in modo tragico la diva che ha segnato in modo indelebile gli anni Cinquanta. Troppo fragile per gestire il suo sfrontato sex appeal, Marilyn Monroe è stata l’emblema della femminilità morbida e prorompente della Hollywood di quegli anni.

Segnata da un’infanzia difficile e costellata di circostanze tragiche, a partire dall’assenza della figura paterna fino all’affidamento alle case-famiglia, Marilyn, all’anagrafe Norma Jeane Baker, iniziò a lavorare come modella all’età di diciannove anni.

Posò per diversi fotografi, estasiati dalle sue curve e dal volto perfetto, fino al 1946, quando firmò il suo primo contratto cinematografico.

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Marilyn Monroe, all’anagrafe Norma Jeane Baker, nacque a Los Angeles il primo giugno del 1926

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Segnata da un’infanzia difficile, trascorse i suoi primi anni in diverse case-famiglia


La sua bellezza e la sua personalità, a tratti infantile e a tratti femme fatale, la innalzarono in breve nell’Olimpo del cinema.

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Marilyn Monroe ritratta da Richard Avedon
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Ancora uno scatto di Avedon, 1957
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Celebre scatto di Douglas Kirkland, 1961

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La Monroe in posa per Bert Stern pochi giorni prima della morte, in quella che è passata alla storia come “L’ultima sessione”


Oggi, a distanza di cinquantatré anni dalla sua morte, sono stati resi noti alcuni scatti inediti che la ritraggono. Una giovanissima Marilyn che posa senza veli per il fotografo Tom Kelley.

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Marilyn senza veli per la cover di Playboy, 1953


Non ancora ventitreenne e bisognosa di denaro, la futura diva decise di posare nuda per 50 dollari. Compenso terribilmente esiguo per una futura star, ma una di quelle foto è già entrata nel mito. Sfondo di velluto rosso e posa da pin up: conosciamo perfettamente questo scatto, divenuto celebre copertina del primo numero della rivista Playboy nel 1953. Ma quello che non sapevamo finora è che quello scatto non fu il solo ma ve ne sarebbero molti altri, assolutamente inediti, che ritraggono Marilyn in pose provocanti.

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Marilyn nel film “Come sposare un milionario” (1953)

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Uno scatto raro della diva dalla tormentata bellezza


21 di queste foto saranno presentate al pubblico nel corso di questa estate, in una mostra itinerante che girerà l’America, grazie alla concessione di Limitate Runs. I numerosissimi fan della diva, che credevano di aver già visto tutte le sue foto, dovranno ricredersi.

DOVE STA ANDANDO IL CINEMA ITALIANO?

Dove sta andando il cinema italiano? Quale futuro si prospetta? Non vuole quest’articolo certo essere un’imbolsita commemorazione della fu commedia all’italiana di Monicelli o del neo realismo di De Sica. Caro lei, quando c’era lui (un cinema italiano fiorente, competitivo, degno di questo nome).

Crogiolarsi nel ricordo del passato è una patologia da cui l’italiano dovrebbe sempre sfuggire, in tutti gli ambiti, ed anzi tanto maggiore fu il lustro, tanto più alta dovrebbe essere l’aspettativa sul futuro. Ora, noi siamo il nostro presente, cioè cinematograficamente parlando, pochino.
Quanto sarebbe accomodante e tristemente appagante la consapevolezza che nel cinema italiano manchi il talento, la preparazione tecnico-teorica, la spinta creativa. Il fatto è che “purtroppo”, siamo pieni di registi talentuosi, visionari direttori della fotografia, sceneggiatori di razza e ottimi tecnici. Quello che manca è la capacità di investire sulla strada meno battuta, osare di realizzare qualcosa che non sia accomodante per il pubblico. Puntare sui giovani talenti, sulle idee originali.

Il pubblico italiano premia il cinema americano e le serie televisive, (divenute a volte giganteschi fenomeni di pop-culture) che sanno osare. E anche quelle italiane, quando sono all’altezza. Il caso di Gomorra – La serie è uno su tutti. Il buon prodotto audiovisivo, ben fatto e ben promosso, è un investimento fruttuoso. In un momento in cui la commedia demenziale è in ribasso, e le feste natalizie non fanno più rima con cinepanettone, c’è bisogno che i produttori italiani colgano il momento storico con intelligenza e prontezza, anche a fronte di una continua erosione del Fondo Unico per lo Spettacolo.

In Inghilterra, per non citare ancora i giustamente superblasonati USA, esiste una struttura industriale cinematografica molto ferrea, una filiera che comincia con le scuole di cinema e confluisce spesso in un lavoro nel settore.



Lo studio della settima arte, che è sempre, bisogna dirlo, scelta coraggiosa e senza sicurezze, non apre le porte ad un baratro di incertezze e rimpianti per gli studi di giurisprudenza snobbati, ma confluisce molto più agilmente che in Italia nella Industry, per dare linfa ad un ventaglio di offerta audiovisiva molto ampia. L’anglofonia è certamente una carta vincente, non c’è dubbio, ma ci pensa il mercato francese a ricordarci che non è l’unica via percorribile per creare una struttura che guarda anche oltre ai confini nostrani.

Ha scritto Don Serafini, direttore di America Oggi, “Si dice che il cinema italiano non si può vendere all’estero. E’ una scusa. Gli americani vendono ghiaccio agli eschimesi non perché sia migliore del loro, ma perché lo sanno presentare. Infatti, il 25% del costo dei film va speso nella promozione. Le industrie italiane della moda, degli alimentari e dell’arredamento affrontano all’estero una concorrenza spietata, eppure riescono a vendere grazie alla loro abilità di marketing”.

Quello che occorre è una presa di coscienza vera di come il mercato si sta evolvendo, di come la richiesta si stia raffinando, di come l’asticella venga posta sempre più in alto. Il fascino della maniera “all’italiana” non è tramontato, e se usato con intelligenza è un’ arma vincente.
Lo sa bene Sorrentino, che vince gli Academy Awards con La Grande Bellezza, non certo il suo miglior lavoro (seppur sicuramente ispirato, a dispetto della critica facilona disfattista che lo ha pesantemente deprezzato); lo sanno bene Salvatores, Garrone, Tornatore. Essere piccoli, provinciali, e insieme universali è possibile. Per il cinema italiano, dovrebbe essere una vocazione.